Michele Savonarola

Del felice progresso di Borso d’Este

Edizione cartacea di riferimento:

Del felice progresso di Borso d’Este, Mastronardi, Maria Aurelia (a c. di), Palomar, Bari, c1996 (stampa 1997)

Edizione elettronica di riferimento:

A lo illustrissimo et excelso principo

Borso dilla cha’ da Este.

Del felice suo progresso al marchionato di Ferara

et al ducato di Modena e di Rezio e dil contato di Rodigio.

Libretto di Michele Savonarolla padoano, phisico suo.

 *  *  *

Incomenzia la segonda parte

del felice progresso al ducato di Modena e di Rezo

e dil contado di Rodigio

Borso, principo illustrissimo, come prima entendete Federico tertio descendere dovere in Italia per andar a Roma de lo Imperio coronarse, subito ne l’animo suo magnanimo e grande gie entrò il pensiero de farse fare di Modena e Regio duca, che suono ciptà a lo Imperio subiecte, e questo per quelle cum iusto titulo signorezare, pur havendo sempre dinanti gli ochy la iustitia, che prima da’ suoy predecessuori erano state senza titulo alcuno possesse.

E cussy, passati che erano anny duy dil suo marchionato, discese Federico in Italia. Et essendo zonto a Padoa, lo illustre Borso marchexe gie mandò una notabelle et honorata ambassaria; e da puo’, facta che ebbeno li oratory suoy la degna reccomendatione dil suo segnore, lo invitorono da sua parte a Ferara, offrendosse a quello cum tutta la compagnia sua di farge large et habundante spexe (era con mille cavalli di baroni piuosuori e cavalieri senza numero biem accompagnato). Et intendendo Federico tanta magnanimità di Borso, esendo pur prima de le virtù suoe biem informato, cum una faza alegra acceptò la offerta, preso da grande amore di quello in presentia d’i suoy, cum una admiratione quella magnifichendo.

Il che, passati che forono sey zorni, Federico drizò il camino suo cum la nobele suoa compagnia a Ferara. Et in questo tempo mezo che ’l camina, Modena e Rezo e tutto il paese ricerca salvadesine et uccellame per a quello far honore: Ferara ricerca pane, vini avantezati, adornamen ti di luochy e stantie per cavally; confectione se fanno a furore, se ordena feste e giochy, caze per a tanto signuore dar ogni dilecto. Il che, cussy zonzette Federico a Ferara, recevuto da lo illustrissimo Borso cum gran triumpho et honore, in la quale stete zorni quindeci, sempre a tutte spese di quello. Stete, dico, cum tanta voluptà e piacere, che ebbe a dire che mai non recevette tanto dilecto né a l’animo suo tanto contento, troppo piacendogie Ferara e il suo stare, che biem è da credere che spesso se agurasse de havere un’altra Ferara in la Lemagna. E per a tanto signore piacere mazuor dare, se facea bally, geostre, caze e semegliante cose magnanime. E per rendere quello segnuor più alegro, il condusse a Belriguardo, di sopra nominato. E quando el vedette tanto magnifico palazo e tanto adorno da gran meraveglia se signoe, dicendo: — Totus mundus non habet similem domum in rure —, tutto il mondo non ha semigliante casa in villa, che biem credo sia vero, cumcessia che ebba circa cinquanta camere magne et adorne, duy inchiostri cum le columne dintorno (e specialiter il secondo cum le colonne di marmoro magne), una salla di tanta longeza e largeza che in quella se gie giocha a la balla grossa e picola cum gran spatio. Ha il luoco di becharia, di spenderia, di panataria, cuxina, cancelleria magnifica, ricepto bello dinanti con le colonne di marmore cum una bellissima torre, casa dil castaldo più cha honorevolle da uno comune ciptadino, cum gran stalla e cortille grande; la stalla, dal palazo separata, di continentia de’ cavalli doxento, ornata adintorno con le suoe staliere e manzadure , apresso di la quale è la mareschalcaria e luoco dil mereschalco; drieto il palazo il broillo cum una braia, aserato di uno gran fosso di circuito circa de uno migliaro, che certo biem dicete il vero Federico che ’l mundo non ha il simile in villa.

Fra questo tempo se tractava de la investisione del ducato di Modena e di Rezo e dil contato di Rodigio. E finalmente a quella data fuò il muodo, ma pur andò un puoco di longo, il perché Federico voleva uno censo troppo ingordo, non dico però che l’avaritia lo abbrazasse, ma dicea ciò fare per augumento de la intrata de lo Imperio, come tenuto era fare per suo zuramento. E lo illustre Borso, liberale e magnanimo, per suoa liberalità e grande animo suo volse vincere non dico l’avaritia, ma la pusilanimità di Federico, cussì condescendendo ad ogni suo volere. E facti che forono di una voluntà, Federico statuì quello creare duca de Modena e di Rezo e di Rodigio conte.

In questo tempo mezo se pone ordine al tribunale, a le vestimente, bandiere et altre cose a la dignità dil ducato pertinente, che certo, facto che fuò il tribunale et adornato, pur troppo magna cosa era a vedere quelo de tanti nobel razi e tapedi magnificato, che, guardendo li oltramontani tal magnifico adornamento, rimanevano come stupidi, non havendo mai più veduti veruna cosa tale e tanto magnificamente ornata, e mazormente più se meravegiono. Il perché comparavano la potentia dil suo segnore a quella del duca Borso, che pareva a loro in magnificientia Borso duca il suo segnore superare, che non credevano che tutta Italia havesse tanti magni razi e tanti adornamenti quanti loro vedevano essere circa il tribunale, in le camare, sopra i lecti e circa le salle, che ogni cosa tale di razi coperta resplendea.

Venuto che fu il zorno di la creatione dil ducato, la brigata se ponete in ordene, e Federico con i soy, e lo illustre Borso marchexe, tutti per andare al tribunale. Il che, prima se mosse Federico, in maiestà imperiale vestito, e de la camera suoa se partite e pervene al tribunale, il quale era apresso il palazo e per sì facto muodo asiato era che, usciendo per una porta da novo facta nel muro di quello, cum grande habilità muntò in tribunale, accompagnato di una nobele e resplendente baronia, certo degna da vedere. Et extendendo Federico li ochy soy sopra la multitudine di le persone, che luy vedea cussy frequente ne le piaze che uno che da novo venuto fosse non haria potuto ritrovare uno piccolo logozuolo, cum gran meraveglia come stupido rimanea, vedendo apresso il frontespiso dil vescovato, che per inscontro gie stava il palazo e le finestre dil vescovo, il palazo dil podestà e le gran suoe balconate, i tecti tutty di le botege atorno le piaze et ogni altro luoco di persone capace, cussy de homeni, fanzulli e di donne esser occupati e pieni. E per somegliante se meravegliaveno tutti i soy barony e cavalieri. Et in questo tal suo risguardare, le voci d’i garzuony e dil populo l’aere sfendeano, penetrendo il cielo, tutty cridendo: — Borso, Borso! Duca, duca! — che tanto era il rimbombo de le voce humane, che occupavano il suono di le trombette e d’i piffari, che erano senza numero. Et è pur vero che tanta era ancora la loro multitudine in quel tribunale, che stretti e cum incomodità gie stavano, ma il dilecto che resentiano dil vedere tanta nobilità di persone li faceano stare como insensati.

Stavano adonca i Todeschy non tanto admiranti de la multitudine quanto de la pretiosità de le veste, che vedevano di pano d’oro e di arzento e di setta, e panni de grana fini in gran moltitudine, dicendo fra luoro che bem credevano tutta Alemagna non havere tante pretiose veste quante al presente luoro vedeano. E fra luoro tacitamente l’uno cum l’altro comperaveno il vestire taliano a quello de li ultramontani, e di loro alquanti diciano: — Sono forsi queste veste simele a le nostre beretine e di griso? Sono forsi le nostre donne a questa zintil guisa ornate, che certo tutte pareno duchesse e gran maestre? — Diceano alquanti: — Questa gioventù di Ferara è purtroppo bella e di persuona zintile e il populo ancuora, che non è da credere che in uno aere marzo cativo se potesse nutricare le persone cum tanta beleza e sannità. Sì che gran torto hanno i nostri Alemanni, i quali accusano Ferara e quella vituperano per tanta suoa distemperantia di aere, che a nuy pare questo aere esser dovere sincerissimo e salubre per tanta beleza, multitudine e formosità di persone. Alquanti, più atodescati, non se potevano dismenticare i buoni vini che bevuti havevano, malvasia cioè e vin de Tyro, e buon trebbiam da Sirollo, le perdice, fasani, capretti e vitelli, rosti e lessi, gelatine et altre molte vivande delicate de diversi sapori, quelli ciby a le soe suppe todesche e carne di boe comparando, comparando ancora tal delicati vini a la cervoxa suoa, d’orzio facta. E satiare non se potevano di comendare il pane bianco refesso, quello comparando al suo, facto di orzo e segalla. Alquanti, che havevano pur dil francese, comparavano li ornamenti de le camere et i nobel lecty e lenzuolly e coperte a le soe stuve e camere a le suoe schiavine (lenzuoli grossi di canevo) et a’ suoy matterazi, sì che tutti insieme convegnivano Ferara esser un altro paradiso in terra. Che mi credo, se Ferara havesse havuto questa sola gratia da Idio, che Po, suo fiume, fosse corso dal ponte di castel Tedaldo infina a quel di san Zorzo a Trebiano, da Sirollo avantezato, cussy forsi tal Todeschi con lo imperatore se haveriano deliberati de vignir sempre habitare questo tal paradiso, che biem certo un paradiso parea, che alora per quelli iudicato fuò Ferara esser la più zintil ciptà de Ytalia, che da può, in camera con lo imperatore, questi tal, dicendo di la nobiltà di Ferara, non sapesseno far fine a tante laude quante gie davano.

E beato zorno, che certo bem beato fusti, rendendo tanto splendore a Ferara e a la casa di marchesi da Este! Che quello zorno fuò il zuorno di la Ascensione, nel quale Idio volse dimostrare a tutti i po— puli la gloriosa ascensione de la casa da Este, facendolla di marchexe ascendere al splendore di la dignità dil ducato.

O Ferrara, quanto a Idio obligata sey, quanto a lo illustre Borso tuo, per il quale in questo zorno recevi tanta gloria e tanto splendore al mondo, che per luy ozi stata ti sia biem purgata la macula antica tuoa, per la quale per lo mundo tanto dispresiata eri, che la feza di le altre ciptà de Italia tu esser se dicea, et hora sey di quella facta il paradiso, che certo biem stata sey aveduta e grata di haver posto la ymagine suoa di marmore sopra la colonna, in piaza, a suoa perpetua gloria, in tuoa grande comendatione!

Ora lasciamo questi Todeschi guardare le donne e la multitudine di le persone e il suo rasonare, e vegniamo a la expectatione da quelle facta cum tanto desiderio.

Stava adonca Federico in tribunalle, in maiestà imperatoria, sopra la katedra imperiale sedendo, e apresso di luy era il duca Alberto, vestito come duca, con il manto e infuolla, di Federico fratello. Da l’altra parte stavano il marchese di Misina, il qual teneva il mondo in mane, il duca di Saxogna, che tenea la spada, il conte di Maimbruch, il qual tenea la bachetta imperiale. Tutti stavano in gran maestà, expectendo il marchese Borso, il quale se partiva dal Castel Vechio, vestito di rosso, pur di setta, e d’oro, a cavallo, accompagnato dai soy zintilhomeni, essendogie dinanti portati tri confalloni, bianco cioè, verde e l’altro rosso, drizendo il camino suo inverso il tribunalle cum piffari e trombetti in gran numero. E, zonto in piazza e a la scalla dil tribunalle, che magnifica era, cussy dal populo fuò squarzati queli confalloni e posti a sacomano, come è in tal cosa usanza di fare, insieme cum il cavallo. Et in questo squarzare, lo illustre marchexe montava la scalla, e, zuonto a la presentia di Federico, factogie lo honorato e conveniente saluto, se gie ponete in zenochione dinanti, dicendo per lettera in questa forma.

Pregiera de lo illustre Borso a Federico imperatore, in latino

Serenissime princeps et Christianorum m dignissime Imperator, cum civitates hae duae, Mutina et Lumbardorum Regium Policenumque Rodigii, multis iam in annis a praedecessoribus meis sine titulo dominatae fuerint et in praesentiarum absque titulo aliquo a me possideantur, quae tuo subiacent imperio, ut iustitiae locus detur et ille iusto titulo a me in futurum dominentur, tuae supplico maiestati ut sua auctoritate dignetur earum iustum dominum necnon verum ducem me creare, ad laudem omnipotentis Dei et tui nominis gloriam immortalem —

 

Fece tale oratione per lettera, il perché Federico non haveva il vulgare latino. A cuy Federico, cum una gran gravità, pure per lettera respondette, dicendo.

 

Benegna responsione, pur in latino, per Federico terzo

de’ Cristiani dignissimo Imperatore allo illustre Borso.

— Fili noster dilectissime, quoniam magna cum honestate quod ardenti animo optas a nobis expostulasti, cumque ea quae a nobis honesta petuntur minime denegare debeamus, hinc votis tuis satisfacere decrevimus, eoque permaxime cum ad eam peragendam rem nos compellant singulares tuae virtutes, tua marchionatus excellens dignitas, sanguinis tui generositas, a quo tot principes illustres emanarunt, tua praestans magnanimitas in nos nostrosque omnes habita, tua colenda iustitia, quam in dies in populos tibi subiectos extendis, quorum omnium equidem docti sumus: quasobres te tanta dignitate dignum fieri facile enuntiamus. Verum, ut saluberius aequiusque tuae satisfatiamus petitioni, in primis opus est eas habilitare civitates, ut tam gloriosae dignitatis capaces reddantur; non enim impressio agentis nisi impatiente disposito recipi potest. Quam ob rem Mutinam et Lumbardorum Regium, civitates has duas, imperio nostro subiectas, exaltare atque sublimare cupientes, ad suscipiendum ducatus titulum nostra auctoritate disponimus, principibus istis, nostris coram, qui tantae rei nostrae fideles testes erunt in perpetuum —.Ex postea, vero, ad illustrem Borsium se convertebat, inquiens:Et te filium nostrum dillectissimum earum civitatum cum titulo ducatus iustum dominum, auctoritate nostra, creamus, facimus et pronuntiamus, Rodigiique comitem, tibi tribuentes privilegia, emolumenta omnia immunitatesque, quibus duces omnes, tum ex lege, tum ex consuetudine, gaudere consueverunt. Ad laudem omnipotentis Dei. Amen

 

E drieto tal suoa risposta o ver parlare, subito cum gran strepito di trombe, piffari e voce humane gie ponete in capo la infuolla dil ducato, fodrata di varo, e il manto rosso perfina a terra, come la infuolla di varo pur fodrato; da poy gie dete la beneditione et osculum pacis.

E di tal concessa e dignità data, ne fuò facto instrumento per il maestro canzeliero di lo Imperatore, testimonii di la quale forono i quatro barony prenominati, messier Antonio da Corezio, strenuo cavaliero e di Corezio segnore, Gallasso da Carpi, de Carpi segnore; il conte Lorenzo di Strozzi, di messer Nanni sopranominato, di lo illustrissimo duca Borso caro compagno, e Ludovico Casela, dil duca Borso degno refferendario.

Et elevato che fuò il duca Borso de zenochioni, il duce Alberto il prese per la mano e quello abrazoe, e somegliante fece li altri barony, da puoy.

E subito la brigata se mosse inverso la giesia Katedrale, cum grande ordene, e lo imperatore quella seguiva. E pervenuti che furono a lo altare grande, posti in zenochioni e facto il conveniente e degno honore a Idio e al luoco, cussy Federico fece zurare Borso duca su l’altare fidellità a lo Imperio e a la persuona suoa, e cussy zurò cum gran reverentia. E subito comenzò sonare i piffari e trombetty, aviandosse verso il pallazo de lo imperatore con gran strepito di voce de fanciully, tutty cridendo: — Duca, duca!

Sequitavano adonca tutta la brigata e lo imperatore ancora tuttavia, tenendo il duce Alberto per le mane il duca di Modena e di Rezo e di Rodigio conte, e cussy perveneno a la camera di lo imperatore cum grande et inexistimabile multitudine di persone, conti duchy e cavalieri senza numero. E zuonto che fuò Federico a la camera, cum uno grato e signorille inclinar di capo, licentia tolse da la brigata, entrendo in la camera. Ma, inanti che entrasse, il ducha Borso se enzenochiò, da quello togliendo licentia, e cussy se rivoltò a la via dil Castello vechio, accompagnato magnamente. E zonto al Castello, licentiò tutty i suoy zintilhomeni e il resto dil populo che accompagnato lo haveano; in quello entroe cum i soy domestici soli.

O principo mio felicissimo, biem hay a contemplare la tuoa tanta felicità ad te da Idio nel mondo data, in tuoa tenera età, in gioventù et ora in età dil primo tuo senio, che garzone di anni XVIII o circa ti ritrovaste duce di mille e doxento cavalli; in gioventù tuoa facto marchese, nel fine di quella, pervenendo al primo senio, esser facto glorioso e primo duca dil sangue di la cha’ di Este, cussy tuoa fameglia magnifichendo e sublimendo! E dove ritroveremo un altro Borso, da Idio di tanti doni e gran benefitii doctato? Certo biem a quello grande obligatione hay e quello spesso, e al continuo, rengratiar il debbi e non volere esser ingrato, che sempre la ingratitudine degna è di esser accusata, che biem ardisco dire che non è veruna cosa a Idio più accepta quanto è la recognitione d’i dati suoy benefitii, che ciò tuoa segnoria in sé biem provato ha, quanto a l’animo molesto gi è stato suo servitore, quando d’i tuoy benefitii se ha permetuto di ingratitudine esser tento, che nuy vidiamo tal gratitudine esser come cosa naturale, che pur comprendemo anco le bestie fuzere la ingratitudine e farse grate a quelli che le benefica.

Non vogli adonca, segnor mio, che tanti [ ... ].

[ ... ] posito di la mensa d’i principi tal dubio introducto.

Capitulo primo.

Come haver se debbono i principi azò che la gente

a lor commessa da quelli sia bem recta e biem governata

Debbono tutti i principi in prima sapere che l’offitio d’i principi in gubernare è una arte, come arte è l’offitio de lo imperatore de lo exercito, imperò biem dicto habbiamo veruno biem principar potere né sapere chi non è vivuto sotto principo, como anco né saperà alcuno biem medicare, il quale praticato non ha cum qualche valente medico. Hanno i principi nel suo governo a comandare como lo architeta nel fundar di la casa, che come l’architeta comanda che tal cosa sia cavata, quella sia rimossa, l’altra posta, e di somegliante, cussy fa il principo ne la ciptà, comandendo questo e quello come artifice superiore, per biem fundare la ciptà di boni costumi e di bene e pacifico suo vivere, ad ogni cosa dendo ordene, come soleno li artifici ne le suoe opere ordinare. Essendo adonca tale, e, come scripto è, l’arte debbe imitare la natura, la qualle ne le opere suoe mai non comette errore, essendo gubernata da la intelligentia non errante, cussy i principi nel suo principare debbono l’arte imitare, aciò che in quel tale non ebbano ad error comettere. E il perché la doctrina per exemplo se rende più efficace, imperò, in declaratione dil nostro dire, adurò tal exemplo. Queluy che vol biem sagittare, prima ordena che la sagitta facta sia biem dritta, aciò che, andendo per l’aere, quella sia da quello meno empazata, che la storta quello divide anco lateralmente il perché il suo dritto andare gie è empazato. Secundo, ordina che sia impennata, aciò che cum le penne meglio l’aere sfenda e più drettamente al segno pervenga; da puo’ la munisse di ferro, aciò che rimanga nel luoco dove drizata serà; da puo’ quella cussy preparata, il sagittatore cum l’arco e cum l’ochio quella driza al segno desiderato. Per somegliante il principo haver se debbe nel rezere e drizare la gente a lui sottoposta, al fine che luy entende, che prima debbe procurare de haver le cose biem disposte, per le quale meglio può la gente suoa pervenire al desiderato termine. Secundo, rimuover debbe tutte le cose che hanno tal desiderio suo impedite; dapoy haver l’ochio suo al fine nel quale quella vole drizare. E per esser meglio inteso, dico che al principo tre cose haver gie conviene se vole la gente suoa nel fine optato condure, e sono virtù, scientia e beni esteriori, che ’l fine nel quale debbe il principo suoa gente condure è quietamente, beatamente, cum gran pace vivere. È adonca di bisogno che ’l principo sia virtuoso, adciò che come spechio di biem vivere, il populo, havendo tal exemplo, se drize in vivere pacifico, quieto e beato, che ciò far non se può senza virtù, cumcessia che virtù sia una arte di bene e drittamente vivere, il perché quella rimove ogni inzuria, ogni discordia e non vuole nomà quello che iusto è et honesto e fa l’uomo amare altrui come se medesimo, posponendo i beni di la fortuna a lo amore humano. Sì che di bisogno è che ’l principo sia virtuoso, aciò che per suoa virtù a’ buoni daga buom exemplo, quelli rendendolli megliori, e a’ cativi facendolli dil suo male adoperare haver vergogna. Che biem saper debbe ogni principo che nulla è che più renda prompto il suo populo ad ogni cosa che gie piace, quanto fa l’amore d’i suoy ciptadini, né che tanto induca a l’amore dil principo quanto fa la suoa virtù, né anco cosa alcuna è che renda e faza il stato d’i principi più forte di quello che fa l’amore d’i ciptadini suoi. Imperò dicea Aristotille: «L’amor d’i ciptadini è uno castello che expugnar non se può». Biem adonca concludiamo che bisogno è il principo esser virtuoso se ’l vole esser amato, se forte et inexpugnabele vole essere il stato suo e se drizar vole in buom fine e in quieto vivere il populo a luy comesso.

E di questo tal nostro dire apertamente se seguita che, per somegliante, al bene e felice vivere di le ciptà è di bisogno li offitiali d’i principi esser buoni, non di pravi costumi, temer Idio, non esser marci dentro, a ciò che, pratichendo come fanno con i principi, quelli non habbiano a corrumpere, facendoli de virtuosi principi vitiosi tyranni doventare e quilli elongare da l’amore d’i suoy ciptadini, che certo a questo debbe biem aprire l’ochio ciascuno principo, come il sagittatore, se drizar desidera il popul suo a biem dritto vivere, che pur è vero quello che dice il philosopho: «La cossa che sta apresso l’altra marzia, cussy se corumpe e se marcisse », como vidiamo il pomo sano marcire quando presso è posto il marzo. Et, extendendome come philospho in tal nostro dire, pur credendo dir il vero, cum pace de molti segnori, dirò questo, che ’l pare alquanti di loro pur da l’avaritia lassarse cecare, prestendo le orechie a’ cativi e pravi e marci suoy offitiali, i quali finalmente i robbano e fasse grassi di la suoa robba, e suoy segnori ingrassa de bosse e di male usanze e di gran odio de’ suoy ciptadini, togliendogie la fama e la gloria suoa, facendolli inimicare cum i soy e cum i straney. O Idio, quanta perzeda è questa, da luoro poco extimata! Che pur è troppo grande e da esser biem da loro lamentata che multi tale veduti ne habiamo, che, havendo i segnuori in fine conossuto tal ribaldoni (che tal nome meritano) haverli robbati e factogie cattiva fama, cussy li hanno presi e facti morire e toltogie la robba, e cussy pelato hanno il porco grasso cum suoa ignominia grande e non con picol danno di sé e d’i suoy ciptadini.

Ma inanti che più oltra procieda, narerò una historia a proposito, a mio iuditio di comendatione degna. Era a mio tempo a Mantoa uno ciptadino, messer Remondino nominato, che pur portava speroni d’oro in gran vituperio de la cavalaria et era grande usuraro e spesso se embratava nel tuor d’i datii afficto da quel segnore. Il che, essendo uno zorno con lui, aricordendogie sempre pur qualche aviso di avaritia e di suo vituperio, gie disse: — Segnore ho il muodo de cressere i vostri datii ogni anno de intrata ducati domilia. E certo io ve i darò, se la segnoria vostra me vol promettere de donarme quelli doe milia ducati del primo anno, e sì me volio obligare a tuore questo datio, dil quale vi darò lo aviso, panni diece ogni anno, pagendo ducati doe millia — . Parse al segnore bella cosa, e cussì gie promettete di fare, pur che tal datio non fusse exorditante, né di vergogna suoa; il che gie, rispose che non seria exorditante né vergognoso. Et aprendo tal cosa, gie disse: — Voglio, segnuore, che tu ordeni che ciascuno linzuollo che se sugerà al sole, page dui quatrini; uno mantille, uno; la tovaglia, uno dinaro, e somegliante uno tovagliuollo e le peze picole; una peza di pano, uno peyone sulo tanto —. E cussy a tutte tal cose che di sole haveva di bisogno, poneva il suo datio, che certo, secundo il mio parere, non se indaciava ma impaciava, cumcessia che ’l sole a Mantoa staga il più de l’anno ascosto. Imperò, essendo stato papa Martino a Mantoa tre mesi che ’l sole non era apparuto, domandò il marchexe di qual mese nasseva il sole a Mantova. Il che, quello nobele e zintil segnore, come magnifico e non di avaritia tento, prima gie fece questa risposta e certo degna et a proposito: — Io sunto contento, ma cum questo voglio di zonta che quando vorano altruy sugare i soy panni, che obligato sey a fare il sol parire, e se non parerà, tu sey obligato al suo interesso —. D’altra parte il fece prendere e ponere in presone, dicendogie: — Braco da denari e ribaldone, usuraro maledetto! È questo lo avanzo che ensegnar far mi voi, farme per tutto il mondo per uno sevo tyranno publicare? Orsù, tu mi ha’ voluto tore la mia bona fama, e io te toro la vita, scelerato, ribaldone che sey! — E quello amantenente il fece ponere in presone e sì gie ’l tenette piuosuor mexi; da poy il banditte de terre e logi soy. El cativello venne a Padoa e si teneva il bancho di la uxura come stato fosse zudeo, e drieto da poi poco tempo, se morite da peste, e la robba suoa andò come andoe, che molti la godette, i qualli a quella acquistare non gie haveva sudato, come spesso intravenir vidiamo di le robbe tale, e lui a casa calda dove vano tal suo pari in sempiterno, che cussì tutti i segnori doveriano tal mascalzoni da sé vituperosamente cazare e non prestargie le orechie.

E fuò questo tale somegliante al tuo ciptadino di Marinetti, Ludovico nominato, il qual volse tore il datio del vento che conducea le barche a Ferara, volendo ogni barcha da vella pagasse tanto. Et a questo il marchese Nicolò, dicto il Zotto, feceli simel risposta che fece quel da Mantoa, dicendogie che volea s’obligasse di far l’aere sempre ventare quando le barche volevano vinire a Ferara, pur cum aspere parole quel reprendendo e da sé cazendo, che certo tal tyrannesche usanze, come poste suono, durano in perpetuo, e come durano sempre, cussy in aeternum suono cruciate le anime di queloro che sono stati casone di tal trovare. E cum pace d’i principi, pur iungerò che tanto serà punito che tiene come quello che scortica.

Apresso debbon i principi creare li offitiali suoy degni e non persone vile, il perché prima representono la persona dil principo, la quale certo se tenze per sì stessa di gran vilità quando costituiscono vili offitiali. Secundo, quando li homini nobeli e digni gie vanno dinanti, se suono vili, pur per rispecto dil segnor se poneno la mane cum gran gravità a la bretta, facendogie scarso honore, ma sotto il manto gie danno le fiche a foglia coperta; e se per aventura hanno da quelli cattiva risposta, ritornano in dretto cum male parolle, dicendo che è pur asino, biastimando il Segnore e incorporendosse di grande odio contra amby dui. Certo, certo la vilità de l’offitiale invilisse la monarchia d’i principi, e suono casone di gran murmurare et odio grande generare a’ soi segnori, che, come dicto è, non è al principo cosa più prestante quanto l’amore d’i soi ciptadini, e che, havendo quello, che cosa può a lui manchare? Sì che biem pare come ai principi apertiene haver boni e degni offitiali, che per questi come per mezani drizano in lo vero fine politico la gente a loro comessa, fazendo ognomo biem e quietamente vivere, et a ció asforzar se debbe ciascun principo et in questo debbe esser tutto il suo studio.

Dicea l’altra cosa esser la scientia, la quale i principi debbono molto amare e quella grandemente honorare, che la scientia è via a la virtù, il perché la scientia è via a la philosophia e la philosophia è dritta via a la virtù , sì che al principo molto gie conviene esser biem doctrinato. Imperò dicea Platone il mondo esser beato se li philosophanti rezesseno, cioè se i principi facesseno come comanda la philosophia. E di questo luoco tuor potiamo esser cosa molto ai principi pertinente, quando la facultà suoa sustenir il può, haver ne la ciptà suoa il studio de le lettere, adciò che apresso di loro habbiano continuamente litterati e docti homeni, dil conseglio d’i quale luy usar possa a suo talento, che certo anco per quello redonda gran benefitio a la re publica, facendosse il popul suo più docto, scazendogie dai ochy l’ombra de la ignorantia, che dove è la sapientia e la fonte di le lettere, quel tal populo se fa più savio, e per lo mondo se sparze il nome dil principo e la gloria di le ciptà. De, ditime segnor mio, se non fosseno le lettere, che memoria serebbe d’i nostri passati, di tanti suoy nobeli gesti, e come resplenderebbe il suo glorioso nome al presente? Sì che le littere suono quelle che non lassano i principi ne le opere suoe da puo’ la morte morire, rendendoli vivi et al mondo degni di gran splendente honore risplendere. È adonca li homini litterati splendore et ornamento d’i principi, il perché da quelli debbono essere meritamente amati, honorati et apresiati. Questi son quelli che fanno i principi sempre vivere! Questi sono quelli ai quali i principi doveriano dare il suo oro et argento, non a’ buffoni e ioculatori e cetera ceteroni, i quali sepelisseno la buona fama d’i principi, dove, credendo per quelli esser magnificati, cussì suono in vita e morte vituperati! Et avenga che la scientia sia per lettera, nientedimeno è da consegliare i principi sempre tenere valenti homeni e docti apresso di sé e anco farse in vulgare translatare i libri degni et in quelli lezer per farse scientifichi e più prudenti, per tal lectura facendossi domestici de li homeni prudenti che, come dicto è, chi pratica cum il buono doventa buono, con il prudente prudente, como aricorda Salamone: «Si cum bono bonus eris, si cum malo perverteris».

E tanto dicto dil secundo, passiamo al terzo, cum il quale debbe il principo drizare la gente a luy comessa nel vero fin politico. E questo dicto è esser i beni de la fortuna, i quali suono veri instrumenti dil biem vivere, che il principo debbe ponere ogni suo studio a far che i ciptadini suoy siano habundanti di tal beni, aciò che ebba a cessare ne la ciptà le usure, le usurpatione, le quale intravene per povertà; apresso dare e soccorrere dil suo ai ciptadini bisognosi, quelli subveniendo. Debbe anco il principo esser sollicito a rimover quelle cose che sono casone de impedire il vivere quieto e pacifico d’i ciptadini. E queste cose sono prima le descensione e le discordie e le extorsione, e questo fare cum la bachetta de la iustitia, il perché non è cosa che tanto puossa in tal casi come la iniustitia, che certo questa sordida iniustitia perverte et imbrata ogni felice vivere d’i populi; che, come la iustitia è madre e radice di ogni bene, cussì la iniustitia de ogni male. Che nuy vidiamo pur in una casa dove è padre, fioli, madre et altri parenti, se non suono recti cum iustitia, ogni cosa ruinare, stando tutti inseme discordi; il perché, adonca, fa di bisogno il principo esser iusto e non perdonar a’ cattivi, più e meno agramente puniendo. E di questa iustitia, biem che apieno dicto ne habiamo di sopra, nientedimeno a quelli dicti aiungeremo questo : chi vole biem mantenere iustitia, incomenze prima quella in sé observare fra la carne e l’anima sua, facendosse iusto iudice et in quella habituarse, le voluptà inhoneste cussy suppeditendo.

E qui a laude e gloria de li Alemani narerò quello che loro statuito hanno per observare vera iustitia, a la qualle più salubremente provedeno di quello che fano Taliani. Prima observano cum gran diligentia che veruno delinquente passe senza punitione, a chi non giova pregiere né precio. Secundo, statuiscono i Censori in le ciptà, i quali tutto il zorno e nocte circueno per le contrade, e tuti quelli che gie pareno come desviati dimandano di la suoa conditione e vita, dicendo: — Chi dato gie ha quel vestito, quella centura? — Cercano le borse, chi datogie ha queli dinari e somegliante cosse, e come li ritrovano balbuzare, li mandano a la presone e lì i domandano con il tormento, e quelli che trovano delinquenti di subito li puniscono, e cussy purgano le suoe ciptà da tal latrunculi. E per somegliante puniscono quilli che stano otiosi su per i cantoni de le strate, i quali stano a vagezare per altruy far despiacere, e questo per fare i ciptadini cum più pace quietamente insieme vivere. O offitio degno, quanto sey necessario in molte ciptà de Ytalia, non dico a Ferara, il perché non si ritrovano i zoveni circuir le case degli altri ciptadini per farge cresser la fameglia, come se fa a Vinesia! Che certo, secundo il mio iuditio, a tal cose i principi gie doveriano esser molto solliciti e studiosi. Ma il perché a la re publica non tanto utelle è a removere li impedimenti intrinsechi per il suo biem vivere, ma anco se conviene removere li impedimenti extrinsechi et a quelli havergie li ochy aperti per tanti periculi, imperò debbono spesso i principi quelli per la mente suoa rivoltare, e questi suono le guerre e le possanze de li nimici oculti; imperò apertiene al principo congregare di la moneta, cum la quale, vegnendo guerra, cussì possa la suoa ciptà deffendere. E per congregar quella, se debbe riguardare da le male spese e vane e superflue e biem quelle cum la suoa intrata mesurare. Non dico però che persuada l’avaritia, ma ciò pur dico perché se riguarde da la prodigalità, in la quale incuore la mazor parte d’i principi. E sì conforto per tal dir nostro che ogni principo questo verso sempre in memoria tenir debba: «Accidit in puncto quod non contingit in anno ». E non si voglia fidare di la prosperità di la fortuna.

Voglio che in ogni cosa il principo serve misura e ordene, sì che tutto il studio d’i principi debbe esser in drizar i populi suoy in buom fine, e tal cosa consiste il suplir le cose obmesse e non manchare da adimpire tutte le cose che lui cognosse esser utelle a la re publica, e tutto ciò fare cum conseglio d’i suoy consiglieri, i quali debbe degnamente rimunerare.

Capitulo secondo.

De le cose che far debbono i principi

per conservatione dil suo Stato

Dicto che habbiamo come haver se debbono i principi circa il stato suo, consequentemente tractar mi par dovere de le cose le quale a loro apertene per conservatione di quello, che sono da cadauno principo degne di sapere. E quelle discurrendo, ritovo che suono diece in numero.

La prima, che ’l principe non debbe pattire che ogni minima transgressione dei delinquenti punita non sia, come aricordato habbiamo che fanno li ultramontani, e questo il perché non ebbano casone, non essendo cossì puniti, di transgredere in mazuore, che pur è vero che molti quatrini fanno uno bolognino; imperò proverbialmente se dice: « Da le zoppe facilmente vengono a le priede ».

La siconda è honorare i soy subditi, spetialiter quelli che de honore degni suono, et a quelli degni offitii tribuire, et a quelli, quando bisogna, socorso dare, che a contribuire li offitii a le persone indigne e quelle honorare, non è far altro ch’al populo suo inimicarse, come dicto habbiamo, e dove dil principo prima diceano esser principo, fra loro dicono che è uno tyranno, e cussì fi infamato ancora apresso di quelli che non il cognosce.

Tertia è sapere cum amore far stare il populo suo timoroso, adciò che ebbano casone suoy ciptadini di stare più uniti, verbigratia dicendogie di guerra futura, e tenirli in qualche prudente modo suspexi, mostrendo luy a tal cosa voler provedere et essergie studioso per il bene de la re publica suoa, adciò che cum tale demostratione tenga il populo in timore e quella riduca in suo grande amore.

La quarta è esser curioso di levar via ogni discordia fra suoy ciptadini nassuta e spetialiter d’i potenti, che le discordie d’i ciptadini potenti suono come capara de la ruina dil stato di la re publica e de lo infelice viver di quella.

Quinta, che il principo sempre debbe star con li ochy aperti e cum le orechie attente circa di quelli ai quali dato ha offitio e che ha in alto sublimati et esser solicito di sapere come se portono nel populo e quelli che ’l trova boni, quelli laudare e magnificare e biem premiare, cussy di grado in grado quelli exaltendo, ma i cattivi e pravi da sé scazare e quelli punire, che per tal cosa i boni doventarano migliori e cattivi se vergognaranno, disponendosse de doventar megliori. O Idio, che dir debbo, che nuy vidiamo più i cattivi regnare et esser exaltati cha i boni? Et imperò biem disse Platone: «Beati i rezimenti, se i rezenti philosophasseno », il perché i cattivi non hariano luoco.

La sexta, che ’l principo, inanti che eleza uno ad offitio suo fare, overo quel in dignità ponere, cussy prima debbe di tal volere esser biem informato, che ciò non facendo non ebba a scapuzare, sì che non debbe essere precipite in dar li offitii e conferir le dignità. Il che, adonca, guardar se debbe de dare i magistrati a’ bisognenti, il perché comunamente i magistrati soleno li animi de li homini corumpere e spetialiter quelli che suono, da la povertà gravati, usi grassamente vivere, sì che se voleno dare cum grande e maturo conseglio. Et in observatione di tal canone adurò in exemplo lo illustrissimo Nicolò marchese, tuo besavo, dicto il Zotto, il quale imbusolava tutti i soy ciptadini che a luy parea degni di offitio, e sicondo la diversità de li homeni e de li offitii diversificava i brevi; il che, iugnendo il Natale, tirava fora dil bossolo de li imbussolati a la podestaria di Modena uno breve, e queluy a chi tochava, mandava per podestà, il quale né parlato, né pregato haveva il segnore, anci molti reffutaveno, adducendo sue legiptime casuone. E somegliante faceva di tutti li offitii, cussì sempre quelli distribuendo in ciptadini da bene. Huò, che scriverogio de quelly segnori che vendono le podestarie? Non so altro dire nuomà che fanno buom mercato di la iniustitia, cum grande sua infamia e presente e futura, essendo sempre da tutti i populi dil mondo maledicti. O principi mei, tacerogio il comune vostro errore, che le vostre pretorie spesso date a poveri zintilhomeni da la fortuna balanzati, havendo a la nobilità cussy conducta gran compassione? Certo non vi vitupero per ciò che gie habbiati compassione ma vi laudo, ma dico bene che meglio seria darge provisione dil vostro e non di quello d’i poveri homeni, che vi so biem dire che la nobilità mal sa comportare la povertà e la viltà dil vestire et anco il vil manzare quando usata è al grasso vivere. Il che, adivene che pur viver voleno et anco avanzare e ciò far non pono cum la parvità d’i sallarii che gie datti. Il che, in le questione se lasseno onzere facilmente le mano, spesso cometendo iniustitia. Danno picol salario a’ vicarii e iudice, a li quali comportano de le cose mal facte; apresso non danno sallario né a’ contestabile, né a’ biri, come sollevano e doveriano fare, a quelli comportendo mille strassinamenti di poveri homeni, sì che de pretori doventano robbatori. E ciò che scrivo non è folla, che cussy tutty i palazi sono doventati spelonche da latroni. Debbeno adonca i principi che iustitia amano, aciò che dicto è, aprire bem gli ochy suoy.

La septima è haver sempre il bem de la re publica suoa al cuor suo affixo, come il buom padre de fameglia a la casa, che ogni amante sempre temme che a la cosa suoa amata non gie inscontre qualche molestia: cussy anco cum timor star debbe il buom principo che a la suoa re publica non gie encontre qualche incomodità.

La octava, che ’l debbe havere piuosori exploratori, i quali cercar debbono il biem vivere e i modi che tengono i soy ciptadini e sapere di molti de luoro de che vivano, e quando alde dire de le spexe grande che fa questo e quello più che la facultà suoa non porta, voler sapere di che ciò facto ha, come anco è intravenuto a mio tempo a Ferara di alcuni talli, e cussy come buom principo quelli corezere e punire. E se ciò facesseno, anco cussy sapendo d’i soy offitiali, molto gie ritorneria a grande honore.

La nona è che asforzar se debbe il principo di esser buono e iusto, che queste sono due cose che tirano i populi ad amar i principi, come la magnete il ferro.

Ultimo, debbono notitia havere de la policia suoa, per le quale principono, e debbono voler enteder le cose che hanno quella corrumpere e quella salvare. Et imperò debbe spesso il principo pensare sopra le cose passate e come passorono, che le cose passate se asssomigliano a le future et amaistrano l’uomo di quelle, come allegato è: «Praeteriti ratio scire futura facit». Debbe anco di tempo in tempo le presente ricercare come suono regulate e somegliante cose per l’anemo continuamente ruminare.

CAPITOLO TERZO

Capitulo terzo. Come i principi se debbono

fare amare e temere da li suoy populy

Una de le principal cose che faza stabilire il stato d’i principi è haver degni e reputati consiglieri, che cussy ogni cosa che fa il principo sia creduto per tanta auctorità di quelli esser facta cum gran iustitia. Per la qual cosa cum l’anemo quieto i populi ogni tale cum gran patientia supporta, che certo ogni effecto che da la virtù escie è da tutti sempre laudato, et avenga che i pravi e vitiosi quello cum la bocha condanne, nientedimeno nel cuor suo quello non acusano, il perché il recto dictame de la rasone, e come a ciascuno naturale, è laudare il bene e vituperare il male. Debbe adonca il principo molto studiare e di ciò esser sollicito che ’l sia biem amato da’ suoy ciptadini, che a lui non debbe esser cosa di questa più grata, né più accepta.

Diremo adonca sey esser le cose che tiranno i populi in l’amore dil suo segnore: benificentia, cioè, e liberalità, forteza e magnanimità, equalità e iustitia. Di queste tale, biem che dicto ne habbiamo nel manifestare le conditione dil principo, pur a complemento e a perfectione dil capitolo presente, cussì descureremo alquanto per queste tale cum Aristotile ne la Rhetorica suoa, dicendo: «Li populi ama et honora i benefici, i denari e li homeni liberali », il perché loro non entendeno nuomà le cose sensibile e quelle sole amano. Sì che vole el principo esser benifico e liberale, non avaro, se amato esser vole, che, come dicto è, nuy vidiamo per fina i brutti amare quelloro che gie fa bene. Et imperò dise Nostra Donna: «Magnificat anima mea Dominum, et exultavit spiritus meus in Deo salutari meo, quia fecit mihi magna». E qui aiungerò che ’l principo ferarese, fra li altri, spesso debbe dai suoy de camera esser advisato se alcuno d’i suoy, nobele e buono ciptadino, è infermo, et a quello presentare de le perdice, fasiani, i quali senza numero a lui fi apresentati, cumcessia che veruno di Ferara e del ferarexe quelli tali uccelli prendere se argumenta, né de quelli se vendono in piaza; che certo con megliore appetito quelli manzano cum il sapore di l’amore dil principo, e cussì quelli meglio nutricano e rendono tal ciptadini in perpetuo cum grande amore al principo obligati, che ciò biem servava la felice memoria dil tuo genitore.

Vole manifestare la suoa forteza e magnanimità in qualche cosa che ’l populo entenda quello esser tale, aciò che, cussy entendendo, lo habbiano da amare, dicendo fra loro: — Certo il principo nostro è tanto magnanimo e forte che per salute di la re publica nostra se poneria ad ogni gran periculo, tanto ne ama —, cussy ponendo gran speranza in luy.

Quanto la iustitia commova i populi ad amare i principi dicto habiamo di sopra, imperò Aristotiles: «Nui amiamo molto i iusti».

E rivoltendome al timore, diremo che non è cossa che faza tanto temere il principo come fa le punitione dei delinquenti, cussy non sparagnendo veruna, né picola, né grande. E questa tal punitione in sé claude doe cose, la persona cioè che punita esser debbe e il modo dil punire. Se debbeno punire i delinquenti e quelli che perturbano il bene di la re publica. Vole essere la punitione dretta e a veruno perdonare, non a padre, non a fiolo, non ad amico, cussì facendo vero iuditio e iusto, che, se sempre il principo tale observerà, serà temuto, intendendo la brigata non potere evadere la punitione comettendo il fallo. Anzi Aristotile ensegna i principi esser ne le punitione più severi ne li suoy cha in li estranei. E qui a proposito aricorderò la iustitia e la grande observatione di quella di Traiano imperatore, il quale, dimandendogie rasone una donna vedoa, il fiol de la quale il fiol suo, correndo il cavallo, morto haveva, per ristauratione sua, volendo che la iustitia luoco havesse, gie consignò e dette il proprio fiolo a quella per suo, e cussì contenta remanette, che in altra mainera quello morire far voleva.

Apresso, aricorderò quello che fece un altro imperatore, il nome del quale al presente non mi occorre. Havendo facto il bando che veruno mechar dovesse, in pena di perdere gli ochy, et occorrendo che ’l proprio fiolo cussy mecasse contra il bando facto, fece cavare uno ochio al fiolo et un altro ad sé, dicendo quello volere al fiol suo prestare, aciò che la iustitia in tutto observata fosse. Ma pur qui aricorderò il dicto de Tullio: «Summum. ius, summa iniustitia», che tal summa iustitia iniustitia. Il modo del punir è cum le leze, usanze e cum misericordia e gran prudentia.

Diciamo ultimamente in questo che, avenga che ’l principo l’uno e l’altro desiderar debba, esser cioè amato e temuto, pur debbe esser più corioso ad esser amato cha temuto: il che con queste doe cose debbe il populo suo drizare in buom fine de la re publica suoa.

Capitulo quarto.

Di la qualità d’i consegliery

Havendo spesso aricordato i conseglieri d’i principi, cussy parso mi ha de quelli e di suoa dignità mentione fare, il perché non è cosa tanto congrua e al principo più salutiffera quanto è havere buom e degno Conseglio, cumcessia che ogni suoa opera ebba da quelli dependentia e per tutty quelly governar se debba il stato suo; e per somegliante non è cosa più a’ principi pestiffera cha havere mali conseglieri, per i quali i stati d’i principi soleno ruinare, sì che biem attenti e studiosi esser debbono a quelli elezere. E questo vole essere il suo primo studio, quando entrano in principato. Volono adonca quelli elezere savii e prudenti e homeni, biem experti, che molto vale la experientia nel rezere e governare i stati, come quella vale nel medicare d’i corpi. E qual cosa può esser nel principo più gloriosa cha sapere biem prudentemente rezere la gente a lui comessa? E quel principo prudentemente reze il quale da prudente conseglio fi recto, che, come il principo despresa il conseglio, cussì se ellonga da esser prudente, il perché è al prudente cosa propria non negligere il Conseglio, che certo i pensieri de li homeni vanezano quando non sono facti cum buom conseglio e dove sono più persone, cussy se consolidano e suono più efficace. Il che, il principo non se debbe a sé solo credere, ma in ogni suoa opera degna e grave debbe havere maturo conseglio, che certo queluy che se crede essere de li altri più savio, alquanto se tenze di spetie di materia. Debbe adonca ogni savio principo elegere conseglieri d’i quali prima sia biem informato e che ebbano le qualità over conditione a’ conseglieri pertinente, le quali qui apresso narraremo. Prima voleno esser boni e boni homeni tenuti, cumcessia che ciascum tale molto se adopere a la forteza dil stato dil principo, che certo troppo grande è l’auctorità di l’uomo buono e riputato buono, che cussy ciò che luy dice anco parlendo, non aducendo dil suo dir rasone, gie fi creduto. Sì che eleza il principo per suo consegliero quello che lui sa esser buono e prudente, cumcessia che la buntà cum la prudentia coniuncta madre sia de ogni buom conseglio. Voleno experti essere, il perché la experienta rende quelli più prudenti, che per tanta suoa experientia sanno meglio consegliare. Voleno esser amici veri, non ficti, i quali non cerchino di riempire el ventre suo, cussy persuadendo quello che gi è utele a loro, non risguardando al bene del principo suo. Voleno esser tale che persuadano al principo quello che a se medesimi se fossero in quel stato, che certo non è conseglio sopra di quello che dato è dal vero amico. Voleno esser vechi, il perché la sapientia in li vechy alberga, quali per età longa experti facti suono, che l’uomo vechio per longa experientia e per longa consuetudine è molto più prudente dil giovene, dico sempre, ponendo buona parità fra loro, che biem se ritrovano alcuni zoveni più savii assai che alquanty vechy. Voleno esser veridici, il perché, come il principo sente uno suo consegliero pur quello sempre aplaudere e temer de dirge il vero, quello privar debbe del suo conseglio, e, come se accorze il consigliero suo pur sempre aricordar le cose buone e vivamente, quello debbe honorare e apresiare. O Idio gorioso, non so che dir me dica, che ’l pare in questa nostra età esser più exauditi li gnatoni e ficti cha i veridici! E perché se dice come proverbio: «Voi tu esser mio amico? Non me dicere il vero». Vole ogni buom consigliero essere alieno da ogni ira, odio, amicitia, libidine e da lo amore dil proprio bene. E chi è quello? E non vole esser festino, ma tardo, che certo queste doe cose suono nemiche di ogni buom conseglio, festinantia cioè et ira . Sì che i principi debbono elezere per conseglieri homini boni, vechi et experti, prudenti et amici, che questi tale, cussy postposto ogni timore, consegliano i principi che ’l suo non dagano inutelmente né quello dissipe, che la ciptà stia habundante per lo biem essere d’i poveri, e che soliciteno de levare le discordie d’i ciptadini, quelle cerchendole de sapere e per solicitare il principo a quelle via levare. Apresso, che servate siano le leze, senza observatione di le quale la re publica suoa biem star non può, e che se guarde di comettere le casone de’ suoy ciptadini a’ ciptadini, il perché quelle tale difinire non se possono senza odio e malivolentia; sì che lasse che diffinite siano per le leze e statuti soy e secundo usanza de la ciptà. Ma forsi diray: — Questo consigliero che havesse tal conditione tutte seria una cornachia bianca —. Dico che è pur vero, e puochi se ritrovano tale: tutti gnatonezano, ma ciò ho dicto il perché i principi sapiano megliore electione fare, dendo apresso tal segno più che possiano.

Capitulo quinto.

Quali zoveni debbono i principi elezere

per soy donzelli e quali reffutare

Essendo da nui dicto di la electione d’i conseglieri e quanto studio i principi haver debbono in quelli elezere, cussy pare esser consequente anco dire de le conditione le quale haver debbono i suoy donzelly e di questi tali esser anco attenti, considerando che per le mane di quelli continuamente hanno a passare. Apresso, che se serano mal acustumati e vitiosi, cussy serano casone de infamia dil principo, dicendo il proverbio: «Tale il servo quale il segnore». E, per contrario, se serano biem acustumati e virtuosi, serano gran gloria suoa, dicendo ognomo, e domestici e forestieri: — Certo tal principo ha pur una zintil fameglia e biem acustumata —. Diciamo, adonca, che i costumi d’i zoveni riceveno gran diversità da la fortuna, il perché vidiamo quelli che nassuti sono di zintilhomeni o di gran richi haver altri costumi cha quelli che di rurali o de homeni molto humili sono producti, sì che i costumi d’i zintil garzoni nutriti nobilmente suono più conformi assay a quelli d’i principi cha quelli d’i poveri e nutriti poveramente. Il perché a’ principi apertiene elezere in soy donzelli i fioli d’i zintilhomeni e dei nutriti zintilmente, spetialiter ai servitii et offitii degni e zintilli, che certo, per questi zintili, i principi e le corte suoe conseguitano assai mazor splendore cha se fosseno rurali, anco se fosseno tale luoro, e le corte suoe receveriano grande infamia, dicendo la brigata : — E’ una corte piena de vilani —. Ancora, cussy togliendo tal fioli vili, incorreno odio e malivolentia d’i suoy zintilhomeni e grassi ciptadini, da le quale doe cose il principo in ogni modo ritrar se debbe, che è pur vero che questi tali suono da esser più extimati. Ma biem se ritrova che anco questi tali non suono tutti sam Pietro e di costumi equali, che biem di loro alquanti se ritrovano esser discoli e vitiosi, avenga che siano zintilmente nati. Et imperò voglio qui aprire alquanti costumi che sono decenti a li donzelli dil principo, ai quali anco tutti i zintil zoveni debbono le orechie sue extendere. I costumi a tal donzelli pertinenti diciamo esser questi. Voleno i donzelli dil principo esser boni, liberali et erubescitivi. Voleno esser boni, abominendo vitii et amendo le virtù e li homeni virtuosi, drizendo ogni suoa opera pur a virtù. Voleno esser liberali, che l’avaritia in l’omo zovene è uno inditio di gran malignità, in quello spetialiter non havendo il suo haver acquistato cum faticha; ma quando se ritrova uno giovane che cum fatica ha acquistato la robba, se se fa un poco stretto, gi’è da perdonare, che è da sapere che ogni zovene per natura più declina a la prodigalità cha a l’avaritia, sì che quando è avaro violenta la natura. Voleno esser animosi e di bona speranza, che la animosità è nuntia di la calidità dil cuore; e tali esser voleno, come anco in le qualità dil principo dicto habiamo, che cussy exponendosse ai periculi il principo, anco loro sia animosi a quelli animosamente arsaltare. Dezeno esser magnanimi et amatori di honore, cussy sempre pensendo e rasonendo di cose magne. Non voleno esser ruffiani e maligni, cussì corrumpendo li altri, che certo il principo doverebbe pudicitia a quelli comandare e spetialiter contra le moglie e fiole d’i suoy ciptadini, dimostrendo lo grande amore che a quelli porta e per evitare de multi gran scandali che in la ciptà occorere pono, et a quelli raccomandargie san Biasio. Miserativi, il perché la crudellità rende l’uomo difficile ad amare altrui, sì che tali cum gran fatica amano il principo suo e luy dil suo amore poco sperar debbe. Debbono esser verecundi et erubescitivi, che certo la verecundia in lo zovene è optimo segno e cussy quando per ogni minimo fallo se inrussiscano, che pur è signo che desiderano et amano honore e temeno vergogna. Quelli suono dal principo esser reffutati, i quali suono de mali costumi, a le lascività dati, di parlar desonesti, che pur è vero che i pravi colloquii corrumpeno i buom costumi. E quelli che non sono in alcuna cosa liberali non se voleno tenere, spetialiter quando pur hanno d’i beni de la fortuna, che l’avaritia sforza l’uomo a comettere ogni excidio, il perché di questi tali i principi fidar non se debbono. E, sumendo, diceamo che i vitiosi, rixosi e quelli che non honora il culto divino, avari e lascivi, voleno esser dai principi scazati e per nulla quelli tenere, né per donzelli, né per camerlengi. O corte moderne, biem mi realegro cum tutte vuy, il perché veruno tale in vuy se ritrova, né anco habitar può! Ultimo dico che e biem conveniente, e sì commendo, i principi haver garzoni humilmente nati, i quali ebbano a spazare la camera loro e a far tal vil servitii necessarii anco per la persona dil principo, e quelli cari havere secundo la lor vertù, e quelli biem meritare et exaltare in processo di tempo, secundo che meritato hanno, che, usati in belli costumi, dendogie robba, cussy gie ebba a dar principio de nobilitarse. Ma pur a li offitii ai quali e le zintileze e nobiltà deputati suono, come seschalcaria e somegliante, certo gran riguardo haver gie debbono i principi de non gie mettere homeni i quali non siano in zintileza nutriti, il perché quelli, non cognoscendo che cosa è zintileza, spesso spesso fanno a’ principi vergogna.

Capitulo sexto.

Come i principi debbono esser studiosi

a fare che i loro fioli siano biem acustumati

Habiamo dicto d’i costumi d’i principi; bene è adonca, consequente, che nuy diceamo come anco loro debbono esser solliciti che luor fioli siano biem acustumati. E il perché i costumi sono in doe maniere, costumi cioè al culto divino pertinente e costumi pertinente a la vita politica e morale, come di sopra dicto habiamo, cussy diremo prima dei primi, dapoi d’i secundi.

Diceamo adonca, seguitendo i primi, che i costumi al culto divino attinente probare non se puono per rasone, né anco per efficace persuasione rhetorice, il perché la fede è sopra ogni rasone. E’ adonca necessario che i christiani solliciteno i fioli da infantia sua a’ costumi di la fede et in quella quelli per longa solicitudine nutrire, adciò che quelli, da infantia cussì abituati, per fina che vengono a la età mazore habiano fermamente quelli tenere e credere, e che per persuasione rhetorice né morale se ebbano da quelli elongare. Tal advertentia più assay haver debbono i principi cha li altri christiani, per tanta mazor licentia che hano lor fioli, che nuy vediamo comunamente i fioli d’i principi, come perveneno a la gioventù, subito se dano a le lascività e voluptà dil corpo, poco extimendo Idio e sancti pur che compiscano le lor voluntà lascive. Che, se non harano facto prima buono e fermo fundamento in tal costumi divini, da quelli leziermente se lontanarano, rempiendosse cum tal suoe persuasione che a lor delecteno il capo di nove opinione, non credendo dai cuppi infuxo. Sì che fo gran capitale che in loro infantia siano in questi tali biem nutriti et habituati, che essendo loro grazonetti, vivendo più per i sentimenti cha per rasone, di ciò che aldeno non dimandendo rasone, cussì tutto quello che i padri e le madri gie dicono fermamente credeno. E cussy, a il longo andare, in quelli la fede se gie fa forte e robusta e quasi come naturale, come intravene ne le altre cose per lunga consuetudine aquistate; il che, cussì habituati, non se lasseno da può corrumpere per rasone che allegate gie siano in contrario. Debbono adonca i principi i fioli suoi, come comenzano esser capaci di doctrina, farli imparare i princìpi de la fede christiana, che sono li articuli contenuti nel Credo. E se non pono quilli perspicacemente emparare, basta sepur grossamente quelli imparano. Somegliante condurli a la giesa, a le messe, facendolli honorare il Segnore; insegnarge il Paternostro,Ave Maria, e somegliante, le opere di la misericordia et a quelle far invitarli, et finaliter a tutti i costumi cristiani secundo loro età, crescendo tal doctrina e mazore secundo che loro in età mazor crescono, che certo tal cosa è più degna e necessaria in li fioli d’i principi cha in li altri. Il perché per il fervore de la fede in quelli, casone esser pono di mazor bene in la religione christiana, e per contrario può esser casone di mazor nocumento di quella, come di Federico tertio di sopra aricordato habiamo, che anco pur vidiamo i notabel templi de’ christiani e li grandi e degni ornamenti di quelli esser facti per i principi, come al tempo nostro facto ha a Ferara quel illustre principo e di memoria degno, tuo padre, il quale fece fundare e compire Santa Maria da gli Anzoli, dove stano tanti notabil religiosi, a quelli del suo dendogie il victo e il vestire. E tu facto hai la Certosa, di sopra aricordata, dove spenduto gie hai tante dexene de migliara de ducati, havendogie proveduto e dil vestire e del manzare e di ogni altra cosa necessaria al suo talento.

Et havendo di questi dicto tanto, rivoltiamosse a li altri costumi a la re publica et al vivere morale pertinente, d’i quali i fioli d’i principi debbono esser sopra li altri ornati, che, come degnamente quelli sopra li altri fioli debbono preeminere, cussy anco quelli debbono in bei costumi quelli superare. Che certo i principi non debbono essere men soliciti ad amaistrare li fioli in virtù e buoni costumi de quello che sono a farli potenti, che la vertù e bey costumi suono da non esser de la potentia meno extimati, la quale è subiecta a la fortuna, né nostra è, né esser può, come di sopra è probato de auctorità de Biante philosopho. Il perché adonca suono questi tali da piccolini esser amaistrati, aciò che non cadano in le lascività, in le quali suono per natura proni a cadere. Imperò dicea Aristotile che i giovani non sono convenienti auditori di philosophia morale il perché suono executori de le passioni suoe. Sì che, expectendo di principare come i padri, cussì voleno esser biem acustumati e virtuosi per esser buono e vero spechio di biem vivere ai populi che gie serano subditi. Voleno adunca esser buoni, adciò che i boni doventino megliori e i cattivi se vergogneno di mal vivere, che i belli costumi molto nobilita l’uomo, spetialiter quando è di sangue più zintile; imperò dice il proverbio: «Nobilità non è altro cha belli costumi et anticha richeza». Ma, sopra tutti, i costumi che de la virtù ussisseno sono più da esser honorati assay cha quelli che dil sangue esseno; imperò i costumi d’i fioli d’i principi virtuosi, cussy ussendo dil sangue e di la vertù, sono sopra tutti preeminenti e da esser meritamente più honorati. Tacerogio la gran cecità d’i populari, i quali appellano li homeni zintilli per tenir cavagli, cani, occelli assay e tal bestie. E come è la brigata sì cieca che creda le bestie l’uomo nobilitare, le quale non hanno, né haver possono, in sé nobilità alcuna? Che certo tal zente, che tanto amore e spesa poneno in tal brutti, suono degni di grande acusatione, non dico per i principi, ma per particular ciptadini, che tal uccellare cum canni fuò ritrovato a ricreatione d’i principi per le fatiche grande nel rezimento di la re publica sostenute, non per li richi, né anco è honesto al sorze fare come fa il leone.

Suono adonca i figlioli d’i principi da esser sollicitati a buom costumi più assai de li altri, il perché i suoy costumy stanno molto più assay per giovare e nuocere a la re publica et a la religione christiana de quelli de li altri fioli.

Capitulo septimo.

A qual scientie sono da esser invitati i fioli d’i principi

Dicto habiamo quanto i fioli d’i principi suono da essere solicitati a’ buom costumi; biem consequente è che diciamo che cosa esser può a quelli più necessaria per quelli meglio conseguitare. Certo, illustre segnor mio, secundo il mio iuditio, non credo che ’l sia cosa alcuna che tanto l’uomo invite a buom costumi quanto fa la scientia, che pur nuy vidiamo sottosopra li homini scientifici esser de li altri più acustumati. Et imperò i principi debbono invitare i fioli suoy ad imparare scientia, che la scientia driza l’uomo a la vertù, e cussì, essendo virtuosi, saperano meglio drizare la gente a luor comessa nel vero fine di la vita politica. E pur aricordarò il dicto di Platone: «Beato il mondo se i philosophanti rezesse», che biem anco dir volse se quilli che rezeno rezesseno philosophicamente, cioè moralmente, non venti da le passione, ma in tutto de iustitia executori. Suono adonca tal garzonetti da esser invitati a le lettere, per le quale certo l’uomo se fa più cauto e più prudente e più intelligente assay.

Ma forsi dimanderà toa signoria a qual scientie sono da esser invitati. Dico, a Gramatica et a certe arte liberale, le quale se nomina liberale il perché non poteano a tempo antico in quelle studiare nomà i fioli de li homini zintili e liberi. Prima adonca dezeno emparare Gramatica, adciò che de le lettere e de le dictione de tutte le altre scientie cussì cognitione habiano et intelligentia, che questa è quella che insegna parlare secondo lo ydioma d’i philosophi, che ensegna come proferire e drictamente scriver se debbe, e finalmente è origine, madre e fundamento di tutte le altre scientie, che, cumcessia che i philosophi scripto habiano per lettera, cussy, senza cognitione di la Gramatica, de le sententie de quelli notitia alcuna haver se potrebbe; sì che prima a questa voleno esser invitati.

E il perché continuamente cade dinanti i principi casone d’i ciptadini diverse, le quale ciascuna parte studia di quelle paliare e cum verità e cum boxie, ciascuno aducendo suoe rasone, imperò mi par esser cosa a quelli assai pertinente havere apresso la Gramatica alquanta notitia di Loyca, la quale ensegna discernere il vero dal falso e cognoscere le rasone, over argumenti, veramente o falsamente concludenti, sì che a conseguitar meglio la iustitia cussì pare essere molto utele e necessaria ai fioli d’i principi, expectendo loro di principare. E certo credo ancor dir il vero che è scientia che ogni huomo da bene, litterato, ne doverebbe essere ornato alquanto, che questa è maestra di ritrovare i mezi per i quale l’uomo ha a concludere e questo e quello. Che certo, se ’l principo serà prudente et haverà un poco de Loyca, quella molto l’aiuterà ad esser solerte in ritrovare i mezi necessarii a le facende che lui aspecterà di fare.

Quanto la Rethorica, la quale gie ensegna eloquentemente parlare, sia al principo necessaria, biem ciò habbiamo di sopra per molte rasone aperto, sì che non bisogna più di ciò entenderse. Questa tal Rethorica Aristotile l’apella una grossa Loyca, cumcessia che ne le cose morale se procieda grossamente e figurative, non speculative, come se fa ne le altre scientie. E qui pur aricorderò quello che Aristotile dice nel principio de la Rethorica suoa, cioè la Rethorica è assecutiva de la Dyalectica, ad aprire lo error comune d’i zoveni, che prima dano opera a Rethorica, da puo’ a Dyaletica.

Debbeno i fioli d’i principi in ogni modo darse a la Musica, e questa fa Aristotile in quelli come cosa necessaria. Dice: «I garzoni iuveni di natura non possono substenere le cosse tristabile e, sì come dezeno esser più di li altri delectevole e iocundi, cussy quelli suono da esser invitati a le cose che gie hanno a dare mazor dilecto. Queste sono quelle che gie suono consentanee e come naturale». E tale certo sono le cose musicale, canti e soni, che nuy vidiamo, quando i fanzuletti piangono e se tristano, che, se lor madre gie cantano, amantinente se aquietano; sì che biem pare la Musica a la natura humana in recreation di quella più cha veruna altra cosa esser accomodata. Suono adonca per quelli recreare e render più alegri e iocundi da esser invitati a la scientia musicale, che pur gi è necessaria alquanta recreatione, la qual ritrovano ne la Musica senza nocibilità alcuna. Che i fioli dì principi non hanno, né haver debbono, exercitio mecanico, come fanno alquanti de loro che per tedio se toleno exercitio di far rethe, carnirolli, collari da cani, capelletti da ocelli e somegliante. Adonca, adciò che le mente loro per longa otiosità non ebbano a discorrere in le lascività, cussy se voleno tenir ocupati ne lo exercitio musicale, il quale, senza veruno nocumento, quelli rende iocundi et alegri. Che di tal dir nostro appare quanto suono da esser da’ principi desiderate le cazasone, le quale non se adimpiscono senza gran periculi, nei quali spesso cadeno i cazaturi. Non però voglio dire che non debbano andare a cazare, ma che lo exercitio musicale è più securo e rende l’anima dil principo più perfecta, che molto più eligibile è esser buom musico cha esser buom cazatore, che uno più de l’altro rende al principo mazor splendore assai.

Apresso dico che i fioli d’i principi gi’ è conveniente molto a sapere Geometria, il perché spesso se occupano in lo edificare de le forteze suoe e cavamenti dil paese, in condure le aque de uno loco a l’altro, con quelle fortificandolo e rendendollo più fructuoso e di somegliante. E ciò ensegna la Geometria.

Di la Astrologia dico che non gi’ è necessaria, ma pur quella sapere rende al principo splendore, come fece a Tolomeo re, che per quella ancora vive suoa gloriosa fama.

Di l’Arsmetrica dico che di quella anco ha di bisogno siano alquanto tenti, adciò che possano entendere i soy conti.

Ma in l’ultimo pur tanto dir voglio che sopra tutto se voriano farli imparare le scientie morale, il perché queste ensegnano biem rezere se medesimo e i populi e le fameglie, che certo veruno saperà biem altruy rezere che non saperà lui biem governare. La Ethica insegna a l’uomo come biem governare e se medesimo rezere debbe; la Politica come i populi e la gente a lui comessa il principo biem desponer debe; la Yconomica, la fameglia; il che, biem apare se suono a quelli necessarie. Ma forsi dirà alcuno: — Nui pur vidiamo i principi senza tante scientie biem governare le ciptà e populi e sé medesimi —. Dico che è vero, ma, se tal scientie sapesseno, anco meglio governare saperiano, e forsi più beatamente i populi viverebeno, come è sententia di Platone spesso pur aricordata. Che i principi moderni, se ornati fosseno di tal scientie, forsi se ritrazeraveno da molte cose che non fanno e seria più mundo il suo principare, sì che pur concludo: Morale negotium principibus plurimum attinere.

Capitulo octavo.

Che a la mensa d’i principi né quelli che senteno,

né quelli che serveno debbono in parolle habundare

Suole la mensa d’i principi habundare di molto e superfluo parlare e spetialiter quando è circumdata da cazatori et uccellatori; che certo tal cosa, secundo il mio iuditio, mi pare esser degna de accusatione, che cussy pare anco Aristotille ne la Politica quella riprendere. Ma damnare una inveterata consuetudine è come vituperare la natura, che come dice i philosophi: «Consuetudo est altera natura », et imperò ciò fare senza alcuna rasone è riputato a stultitia. Il perché di tal accusatione mi asforzerò di adur rasone, saltem persuasive e morale, per le quale parerà tal cosa esser degna di accusatione. Diceamo adonca, cum auctorità di Aristotile, in questa forma: «Li humani acti et anco le arte hanno havuto principio da la natura », il perché in quelli li homini debbono la natura imitare, permaxime essendo quella da la intelligentia non errante gubernata, come è dicto. Cumcessia, adonca, che la natura ebba ne le opere suoe in abominatione la confusione, per somegliante debbe l’uomo in li acti suoy et opere suoe non esser confuso ma determinato. Havendo adonca la natura la lingua per parlar creata et anco il perché la ie serva al gustare, e, deservendo al gusto, non può biem deservire al parlare, che parlar e manzare insieme biem far non se pò, che uno impaza l’altro, par adonca non esser honesto che quelli che suono deputati a manzare debbano a tavola zarlare, cussì confundendo uno acto cum l’altro, ma debbeno stare cum grande honestà e gravità inanti il conspecto dil principo, a cui ogni tale, in ogni suo acto, debbe havere gran moderatione e riverentia. Apresso, quando uno tanto zarla a tavolla, cum tanto suo zanzare viene in tedio a la brigata astante e zenera apresso di quello uno suo despresiare, dicendo di loro alquanti: — La gazuolla ha troppo bevuto —. Apresso, se longa il disnare e di tal lungeza i servituri murmura, i quali cum gran desiderio expectano di beccare. Item, il perché in tanto parlare è da credere che spesso gie cade di le parolle non biem dicte, il che per quelle l’uomo cade in dispresio.

Somegliante ciò far non debbeno li servente e donzelli, che, attenti al suo zarlare, spesso se desmentegano di metter del vino in tavolla quando bisogna, e cussì sono accusati di negligentia. Ancora, pur è vero che la tavolla d’i principi è da essere con dignità celebrata, e per rispecto di la excellentia suoa, anco di la nobilità d’i comensale, cumcessia adonca che ’l scilentio sia, apresso de ogni persona grave e degna, molto più apresiato cha la eloquacità: imperò inanti il principo non se debbe molto parlare, anzi la brigata debbe stare cum scilentio e gran modestia. E ciò persuade tal discorso. Come decente è a ciascuno, in presentia dil principo, di ogni suo membro esser honesto e moderato, cussy anco esser debbe la lengua suoa modesta e temperata, che certo è pur cosa al savio huomo propria il poco parlare, e tanto meno parlare debbe quando la lengua occupata è in altro offitio. De, dittime, pregove, vuy zarlatori: non debbe la tavolla d’i principi esser differentiata da quella d’i contubernali, a la quale ogni homo zarla, dicendo pur parolle infructuose e scurille, che certo ne anco i principi ciò comportar doverebbeno, ma fare che il luoco di la persona suoa fosse cum gran dignità observato? Et a questo che dicto habiamo, voglio aiungere questa rason morale: ciascuno creder debbe a li homeni i quali cognosce esser di grande auctorità, anco parlendo quelli e non aducendo la rasone dil suo parlare, ma debbe havere la auctorità suoa come per una suoa rasone. Vidiamo adonca che Cato tanto morale disse: «Pauca loquere in convivio». Et Aristotile quella medesima sententia in la Politica pone, come dicto è. Pythagora philosopho tanto la taciturnità a la mensa comenda. E Hyppocrate, come gie era presentato alcuno discipulo da nuovo, la prima cosa che lui facea, gie prestava il sacramento di la taciturnità in scola per la dignità dil loco, che in quello vertù habitava. Sì che da observare è il luoco degno cum taciturnità, come anco fanno i boni religiosi, i quali poneno il breve dil scilentio in certi luochy del monasterio, da loro degni et in riverentia havuti.

Se adonca tanti philosophi e homeni di tanta auctorità degni hanno comendato il scilentio, spetialiter in li luogy di riverentia degni, et essendo tale il loco di la mensa dil principo, spetialiter luy presente, è biem facilmente da concludere che a quella zarlare e longo e vano parlare haver non se gie debbe. Ma pur qui in fine aricordare voglio che, secundo il mio iuditio, è cosa molto degna et a’ principi molto conveniente, che al tempo dil manzar d’i principi se ritrovasse uno homo docto, il quale lezesse o recitasse cose di audito degne, come historie d’i soy passati e de li altri assay i quali lassato hanno di sé gloriosa memoria ; e somegliante bey documenti, per i quali il principo se havesse a fare più prudente e più docto e li astanti ancora. Ancora, lezere de le hystorie di quelloro che sanctamente vivuti sono, ad amaistrare la brigata a li costumi divini et a biem vivere, che questo tal lezere non è altro cha seguitare le vestigie d’i padri sancti e d’i boni religiosi; che nuy vidiamo, quando i religiosi manzano, esser uno in alto il quale leze qualche bella hystoria di qualche huomo degno o altri documenti sancti e morali. E cussì ozi lezere di una cosa, l’altro zorno di un’altra; il perché per tal diversità l’uomo se rende più docto e più cauto. E se diray che la mensa d’i principi debbe esser differentiata da quella d’i religiosi, te rispondo che come quella d’i religiosi debbe esser taciturna e sancta, cussy quella d’i principi debbe esser con poche parole e tutta morale, e se ancora fusse sancta non seria di pezo niente. Certo, certo, è aricordo degno da principo. E ciò servava a nostro tempo Alfonso re di Catelogna e di Neapoli e il segnor Carlo di Malatesti de Arimino. Et essendo il vulgare più comune cha la littera, per conseguir mazuor fructo, cussy tal lezere per vulgare più comendo, ma pur aricorderò che, fra le altre lectione, ai principi più pertinente seria et è la lectura de Egidio, De regimine principum.

Capitulo nono.

Dove se dichiara se la vita humana al presente

e più breve di la passata

Havendo tanto dicto de la mensa d’i principi, sopra de la quale se ripone ogni zorno molte e diverse vivande, et essendo tal multitudine e diversità de cibi pur sempre delicati e di buom gustare, cussy è verissimile che l’uomo se lasse spesso incorrere in manzare di quelle più che non gie seria di bisogno, e, ciò facendo, per le indigestione che conseguitano, cussy a poco a poco se zenera grande infirmità, le quale suono casone di brevità di vita di l’uomo. Essendo adonca io, tuo phisico, desideroso de la longitudine di la vita tuoa et anco d’i toy a te grati comensali, cussy mi ha parso esser debitore dil tractar alquanto de tal cose in spetialità, che suono casone de la brevità de la vita humana. Il perché deliberato ho, in fine di questo nostro libro, tractare questa questione, se la vita humana è al presente più breve di lo usato, sperendo questa tale a tuoa signoria dilecto dar dovere et anco non senza fructo andare, sì che ho concepto, come medico, questo nostro volumetto di uno sigillo medicinale e dilectevole sigillare. E, pervegnendo al dubio, diceamo prima che, per quello che scripto è nel Genesis, pare la nostra vita esser più breve assay dil passato, che lì se scrive Adam haver vivuto novecento e trenta anni, Matusalem novecento, Noè septecento. Al presente viveno octanta anni e pochi se ritrovano a quelli pervenire, rarissimi a cento. E pur pare anco tale abbreviatione di vita esser stata di volontà de Idio, il perché se scrive ne lo Levitico Idio haver dicto a Moyses: « Non permetterò il spirito — cioè l’anima — in l’uomo — il perché è carne — ultra cento e vinti anni». Il che li astrologi anco questo confermano, che cussy il ciello al presente dispone l’uomo oltra tal tempo viver non potere. E’ pur vero che David sapientissimo dicea: «">Et in potentatibus octaginta annis amplius labor et dolor», il che è per noi menare la vita nostra in anni ottanta . Ma Averoys, che da puo’ luy fue, scrive il termine ultimo di la gioventù di l’uomo non se extendere ultra trentacinque anni, che cussy lui par fare l’ultimo termine e comune di la vita humana presente anni settanta. E ciò dicea Mahumeto philosopho, la vita humana esser fra il sexanta e il settanta. Se ritrovava vivere Averoys del Mille e quindeci, sì che credo che la presente è più breve, il perché anco puochi se ritrovano havere anni septanta. E questo tal dir voglio pur per auctorità et anco per opera d’i medici confermare, il perché per lo passato i medici per medicina purgativa davano lo elleboro, e negro e bianco, il quale al presente per suoa forteza i corpi non il può sostenere, cussy essendo debilitata la natura, che, come dice Mesue, gran medico, ne è al presente a nui facto come veneno. Apresso solevano i medici dare le medicine solutive in mazor peso assay de quello che fazano al presente e da tal peso se ritrazeno, pur il perché cognosceno la natura esser facta debile, e quello, come soleva, sostenir non potere. Scrive al proposito dil dubio nostro Aristotile che li animali che hanno pochi denti per natura suono di curta vita, come al dire che per moltitudine di quelli arguir potiamo longeza di vita. Nui vidiamo che, a questa nostra età, comunamente li homeni hanno denti vintiocto, i quali per lo passato solevano haverne trentadui, sì che pare anco per questo segno phisionomico la vita dal consueto esser abbreviata. Et a tale degne opinione, cum pace maiorum, adiungerò questa mia, che ’l termene comune de la vita humana è anni sesantasei, el perché havendo voluto Idio padre il filio suo in ogni sua opera tenere il mezo, essendo luy mediator nominato, è da extimare che anco quello morir volesse nel mezo del chamino di nostra vita, il che, essendo morto de anni trentatré o circha, da credere è sessantasei essere il termene de la vita humana comune.

Et havendo nui cussì argumentato et exemplificato per satisfar al dubio, constituito ho de descendere a le casone de la brevità de la vita nostra in questa età, cussì lassendo al proposito le casone astronomice e pervenendo a le sey cose non naturale, per le quale diversificate cussì se diversifica la brevità e longeza di la vita humana. Solamente di quelle farò mentione che ne le mense d’i principi se usono e de altre a quelle consequente. E prima voglio tua signoria sapere che li antichi padri nostri non se nutricaveno de cibi delicati come al presente se fa, ma se nutricaveno di castagne, ghiande e someglianti cibi grossi; imperò dicea Boetio:

«Felix nimium prior aetas,contenta fidelibus arvisnec inerti perdita luxufacili quae sera solebatieiunia solvere glande,nec bachica munera norant».

De questi tal cibi se zeneraveno li humori forti e compacti, a la corruptione over putrefatione molto resistente et ad ogni casone che quelli alterar potesse. E cussy, non usendo diversità de cibi e bevendo aqua, non sapevano che cosa fusse gotte, mal de fianchi e someglianti mali. E biem che Hyppocrate dica li castratti e i garzoni non incorrere il mal de le gotte, pur vidiamo per lo disordenato vivere e delicato che fanno a’ nostri zorni i castratti e putti, cussì esser alquanti di loro da le gotte molestati, si che el delicato vivere fa li humori delicati e facile passibile; il per— ché li homini spesso più assai de lo usato per cason de quello se enfermano. E per tanta delicateza de li humori, i medici, al presente, molto temono il dare de le medicine alquanto forte. E, acostendosse più intrinsecamente a la casone di tanto male, diceamo che la disordinata cibatione, comprendendo anco il bere, è casone fortissima di questo nostro diffecto di la vita, dico disordinata per rispecto di la hora, di la qualità d’i cibi e d’i vini, di la quantità e di la substantia di la cosa in sé. Per rispecto di la hora, che più presto se manza che non se debbe, cussì ponendo indigesto sopra digesto, che certo non è cosa più preparativa di corpi a le infermità di questa. Imperò Avicena: «>Quod in corpore exitu deterius enutriens super nutriens, quod non est digestum mittere», overo più tardo, che l’ tardare è anco casone, come dice Avicenna, de aggregare cattivi humori nel stomacho e quello de quelli rempiere. Imperò dice: «>Tolerare famem, stomachum malis replet humoribus». Per rispecto di la qualità, che cussì se messeda caldi cum fredi, sechi cum humidi, e per tale messedare l’uno corrumpe l’altro. Per rispecto di la quantità, che tanto se ne tuole che quello il stomacho mal padir lo può, e ziò anco intraviene per rispecto dela delicateza d’i cibi. Per rispecto de la substantia, che se messeda grosso cum subtille, senza ordene, e quanto uno è digesto, l’altro è indigesto; sì che la digestione se corrumpe, causativa de infermità, maxime quando è tale che il figado quella corezere non può. Sì che in le tavole d’i principi se gie pone de diverse qualità e molto delicati, di gran quantità e de diversità di substantia, il perché cussì i corpi preparano a le infirmità e a la brevità di vita. Dico il somegliante dil bere, et imperò laldo che tuoa segnoria seguite il suo costume anticho, come fa che manza de una vivanda sola o de doe al più, preponendo il subtille al grosso, et usendo il vino et in quantità puro, come fa pur anco quello proportionendo al manzare.

E seguitendo le sey cose da medici dicti non naturale, cussì aricorderò alquanto il luxuriare sotto la inanitione contenuto, nel quale promuove e zoveni e vechi il delicato vivere, cussì facendo quelli quello senza freno discorrere. Or intenda e stiano attenti i soy seguaci, i quali se fanno anco per grande occiositade soy familiari, che non è veruna cosa che tanto debilite il corpo de l’uomo e la vertù e forza di quello quanto fa il luxuriare, che, come per experimento vidiamo, et è sententia vera d’i philosophi, che ’l sperma se decide da tutti i membri, come ciascuno iudicar può in sé, in quello acto sentendo i suoy membri tutty resentirse e da poy rimanendo debelle e languidi, dove Avicenna, nel suo de animalibus, dice che più debilita l’uomo vecchio una onza di sperma che de lui escie cha se gie uscisse quaranta sey onze di sangue . Il perché, adonca, il frequente luxuriare è casone di la brevità di la vita, al qual te conduce la paparia, cortesano. Et imperò li observativi dezunano gran parte di l’anno. Apresso, io credo che una potissima casone de la brevità di la vita humana al presente è il presto coniungere la donna cum l’uomo, inanti il compimento di lo augmento suo, che vidiamo i garzoni maritarsi de deceotto anni, le garzone di sedici, che voriano i gioveni esser de vintiquattro in vinticinque, le donne di deceotto in vinti, che coniungendossi inanti il compimento de lo augmento suo, cussì in sperma son debeli e, de debil fundamento se fa debel casa, la quale più facilmente dal vento è gietata a terra, sì che è casone de più brevemente vivere. Che pur a mio tempo erano le donzelle de vintiquattro anni e più e li zoveni de vintiocto in trenta inanti che se maritasseno, che certo cosa è che ’l feto seguita i suoy generanti, sì che, essendo quelli debeli, se produce il feto debele e di breve vita et essendo forte è di longa vita. Dove questa tal leze dil tempo dil maritare servano ancora i Frixoni, imperò suono fortissimi homeni respecto de nui Taliani. Et in questo tale acto se coniunge la desordinatione di la hora, che non è piccola casone dil breviar la vita. Che essendo cussy blando e losen gevolle questo fedo acto luxurioso, adviene che la nocte quasi tutti con il stomacho pieno a quello fare se promoveno, e cussy se turba la digestione debita dil stomacho, dove Avicena: «Non è cosa al stomacho dil coyto più nociva, né anco più utelle quanto è da quel guardarse». Sì che, chi vuol viver longamente non ebba con luy troppo grande amistà. Apresso, li exercitii desordenati che spesso fanno cortesani con il cibo nel stomacho è casone di abbreviatione di la vita, come dicto è.

Per somegliante gran damno fa la distemperanza di l’aere, fredo grande, gran caldo, nebuloso, piuvoso, ventoso.

Da le quale cose aricordate, pregote illustre mio segnore, guardar se voglia tuoa signoria, spetialiter di la destemperanza di l’aere: quando è fredo, nebuloso, non cavalchare a buona hora ad uccellare, cacciare etcetera, e dil forte exercitio, che in spetialità nomino queste doe, il perché ne le altre sei moderato. Ma pur dirò tanto di queste doe, con toa pace, che poca extima fai di queste, il perché sei forte e gagliardo; ma aricordar ti vogli che le botte in zoventù non sentite, in vechiagia se senteno. Sì che di queste casone di la brevità e longità di la vita voglio al presente tanto haver dicto, sempre cum pace di la tuoa segnoria, a la quale Idio omnipotente per suoa misericordia se degne di perlongarge la vita a fructo di l’anima tuoa, al pacifico e iocundo vivere di la re publica tuoa, a gran dilecto e consolatione de tutti i toy servitori e di me in spetialità, sempre pure a suoa laude e gloria sempiterna. Amen.

Explicit opus Michaellis savonarollae Patavi,

quod principum qualitates aperit et eorum bene vivendi modus.