Michele Savonarola

Del felice progresso di Borso d’Este

Edizione cartacea di riferimento:

Del felice progresso di Borso d’Este, Mastronardi, Maria Aurelia (a c. di), Palomar, Bari, c1996 (stampa 1997)

A lo illustrissimo et excelso principo

Borso dilla cha’ da Este.

Del felice suo progresso al marchionato di Ferara

et al ducato di Modena e di Rezio e dil contato di Rodigio.

Libretto di Michele Savonarolla padoano, phisico suo.

Prohemium incipit feliciter.

Bem che piuosore operette mie ad te dirizato ebba, illustrissimo principo e caro mio signore, e quelle dil glorioso nome tuo insignite, le quale tutte bem cognosciuto ho esser state ad te gratissime, nientedimeno, essendome questa operetta dinanti de gli occhi de la mente mia apparuta, connoscendomi in tal mio scrivere a toa signoria non picolo piacere dar dovere, cussì me disponette quella ad te mandare e dil tuo degno nome insignire, concesiaché, a le cose le quale io risento te delectare, sempre prompto e vigile mi ritrove; che certo, segnor mio, biem che seppa le altre mie opere molto ad te haver piazute, pur spero che in lo lezere di questa mazor dilecto assai toa signoria più cha nel lezere di veruna altra ricever debba. E maximamente il perché in tale lezerai il gran triumpho et honore con il quale pervenuto sei al glorioso tuo marchionato e con quanto splendore al felice ducato di Modena e di Regio et al contato di Rodigio e con quanto ornamento quelo scripto ho.

Lezerai ancora in questo nostro volume quanto in te potuto ha la natura e quanta gloria per propria prudentia al mondo acquistato hay e di quanti magni e gloriosi ornamenti doctato ti ha la fortuna, che non se ritrova principo alcuno a cui lei como ad te sì dolce e sì seconda stata sia, per le quale magne docte a Dio, dil tutto Signore, facto sei gran debitore, sì che biem studioso ti debbi cum buone opere a quello gratie grande refferire.

Ancora in questo lezeray le prestante condictione a’ principi pertinente, aprendo il degno suo modo di principare, e cum i soi ciptadini il suo felicemente vivere . Pregote doncha, signor mio, dignar ti vogli questo tale mio libretto, di molte moralità rico, con uno grato animo ricevere e me apresso lui caro tenire, che, se in ello lezendo alcuna cosa ritroverai o minuita o meno che biem scripta, supplico che tal diffecto tua signoria imputare il voglia a la grandeza di lo amore di la mia voluntà che ad te porta, per quelo facta ciecha, la quale sempre arde in tutte quelle cose che ley spiera e crede a toa signoria dilecto dar dovere.

Partirò adonca, con toa grata licentia, questo nostro volumetto in tre parte, tractendo ne la prima del felice tuo progresso al marchionato di Ferara, ne la siconda del felice tuo progresso al ducato di Modena e di Rezo et al contato di Rodigio. Tractaremo, tertio, de alquante nobel cose morale, a’ principi tutti pertinente di sapere, cussì havendo nui tractato dei principati; le quale certo suono degne da quelli essere con grande attentione audite et a loro memoria comendate, il perché suono come una forma dil iusto principare. E tu, entendendo quelle, cussì essere da te observate me spiero toa signoria, quelle aldendo o lezendo, gran piacere ricevere dovere.

Explicit Prohemium

Incomintia la prima parte

Lo illustrissimo padre tuo, Nicolò marchese, il giovene nominato, principo certo di memoria sempiterna degno, spesso spesso, risguardendo Leonello, tuo fratel mazore, e te, essendo vuy fanzulletti, tanto gie delectava il vostro iocondo aspecto, il quale ad ognomo pur troppo grato era, che celar non potea a li astanti il suo gran dilecto che dil conspecto vostro riceveva. Il che biem è da credere che spesso dir dovesse come Homero di Priamo dicea: «Questi garzonetti mei tanto sono de indole iocundi e segnorilli, che degni suono veramente di principato», che tal iocunda indole è come uno inditio naturale di la probità e di la generosità di l’animo di l’uomo. E biem fu vero che non mentite, concessia che ciascun di vui principo e glorioso doventasse. Et essendo adonca quello come padre costrecto da ardente amore dei fiolli, cussì se disponette di farve a tuto suo potere grandi et excellenti nel stato de gli altri homeni, adciò che la vita non fosse da vuy consumata senza vostra gloriosa fama e grande honore, che biem cognosceva esser offitio dil buom padre a tuto suo potere i fiolli dignificare dovere. Il perché, pensendo per lo exercitio de le arme vuy dover montare a mazor stato e farve principi di gran gloria cha per verun altro, cussì ne l’animo se disponette a quello invitarve, sperendo vuy doventar dovere grandi e gloriosi, di gente d’arme imperatori. Ma, essendo pur ancora troppo tenera la età vostra, deliberò in questo tempo mezo che far vi dovevi adulti, di mandarve a scuola per emparar Gramatica. Il che, per ciò meglio exequire, per maestro vi dete Guglielmo Capello , huomo di età perfecta, biem acustumato e di bone lettere docto, che biem entendeva le littere rendere a’ principi docti gran splendore e gloria, che cussì se riducea a memoria la fama di Cesaro Caio, la quale lui facilmente comprendette per lo lezere che già facto haveva nei soi Comentarii, intendendo quello per quelli al mondo facto esser anco glorioso. Che è pur vero di molti esser stato opinione non menor gloria e splendore tal Comentarii a Cesaro nel mondo rendere cha i facti suoy d’arme, cussì, essendo quisti tali di opinione che a ciascuno principo sia quasi come necessario essere di lettere ornato se lui desidera essere di fama immortale, che certo a me pare tale opinione con ogni supportation essere di commendatione degna. E ciò provare e persuadere mi par essere facile assay. Il perché, signor mio, in questa, con toa pace, transgredirò alquanto, pur cussì per mazor dilecto ad te dare. Nui vidiamo che nelle contione, over congregatione d’i populi facte nel conspecto d’i principi, e per semigliante in quelle che facte suono in conspecto di la multitudine di la gente d’arme, i principi e capitani suono quelli ai quali sempre assignato è il primo loco al parlare il perché è di bisogno quelli essere più degli altri e docti et elloquenti, adciò che la brigata, aldendo quelli, cum una admiratione di tanta soa prudentia et elloquentia, cussì sia iudicato per tutti essere di principato e de imperio meritamente degni, che, entendendo loro tanta sua eloquentia cum tanta gravità de sententie, cussì se ebbano a rendere e supportare più facilmente assay il iugo de la servitù sua et a quelli ad ogni soa voluntà più facilmente consentire. Che pur pare esser necessario a’ principi e per semigliante a’ capitani quello che gie piace e che credeno esser cosa più degna a la brigata persuadere sapere, e quello che gie dispiace, quello disuadere; apresso sapere consolare i soi ciptadini; quando sono presi da grande angustia, quelli confortare e drizarli a bone opere. E rivoltendome ai capitani: quando le schiere de la zente d’arme son biem preparate, certo molto giova il prudente, grave et elloquente conforto dil capitano a far quelle più vigorose et ardite assay, come rende anco il gran cridare dil populo i corsieri quando correno assay più veloci e correnti, che tal suo eloquente parlare è a la gente d’arme come il sperone al cavallo. Dove concludo che tutti i principi doverebono essere studiosi a far i fioli eloquentia imparare, che per quella tale se renderanno più accepti sempre ai populi suoy, che quelli cussì saperanno meglio confortare, riprendere e persuaderge quello tutto che desiderarano. E che cosa di questa più prestante può il principo in sé havere? Che certo spesso accade che quello che apresso i populi pare impossibile, il principo per soa elloquentia il rende facile e credibile. Ma voglio qui una codetta aiungere, che tal cose di la eloquentia dicte non puono luoco havere se non serano cum prudentia e rasone gubernate, e poco fructo farano. Imperò biem dice Cato che ad ogni homo è concesso il parlare ma a pochi il savio parlare. Sì che puoco giova a le ciptà la sapientia senza eloquentia, ma la eloquentia senza prudentia a quelle spesso nuocer soleno. Il che è da concludere la eloquentia in sé havere gran forza, che i principi e capitani voleno essere da natura prudenti et havere di la eloquentia l’arte. Non però voglio dire che tuta la età sua in quella imparare consumar debbano, ma biem mi pare esser cosa degna che di quella ne siano tanto docti che grave et eloquentemente sapiano satisfare a l’offitio di la eloquentia, ora persuadendo, ora confutendo, ora obiurgando , ora consulendo. Ma forsi dirai come Socrates philosopho, che dice la eloquentia esser a l’uomo da la natura concessa, il che queluy che per natura è tale, non ha di bisogno di quella altramente emparare. Dico che è vero in gran parte. Di la quale la toa signoria e magnamente doctata e da quella sente grande ornamento et utele ricevere. Ma voglio seppi che questa naturale da la accidentale riceve grandissimo splendore et aiuto, che la naturale è gran fundamento di l’accidentale; e come la bella vesta e i belli ornamenti rende la dona al vedere più iocunda assai, cussì l’accidentale per la naturale se fa a lo audito più grata e più iocunda, che certo la naturale è uno freno a l’accidentale, che, come il cavallo per lo freno se governa, cussì la elloquentia accidentale per la naturale. E questo quando cum prudentia è coniuncta, che biem dico: chi manca de eloquentia naturale may non si ritrova per lettere emparate esser biem elloquente. Sì che molto è da esser comendata la naturale in uno principo, il quale per longa pratica sua essendo naturalmente prudente, cussì doventa elloquentissimo senza arte. E qui non voglio, signor mio, che me apelli gnatuone se te reponerò nel numero di quilli, che pur voglio toa signoria sapere alquante fiate io fenzere dovere per adornamento dil libretto nostro, come è di costume d’ogni scriptore che libro compone, sì che, se io cussì fenzendo usarò alcuna fiata parole adulatorie et ornate, quelle ascrivere le vogly a lo ornamento dil dir mio e non a gnatonaria, come toa signoria biem entenderà. Io forzato mi ho di scrivere il vero, il perché so ad te cussy più piacere che se scrivesse il falso.

Suono adonca i studii de le lettere da non esser pretermetuti dai fioli de’ principi, che pur vidiamo li homini litterati ne le ciptà fra gli altri come stelle risplendere. E questi tali non se voriano ritrare da tal studii inanti l’anno decimo octavo, che cussì fermati et habituati nei detti de’ philosophi, potessino senz’altro doctore rivoltare i volumi de li autori più difficilli e quelli per sé soli entendere, che certo le lettere preparano li animi generosi a virtù et a biem operare, et anco, come dicto ho, per le lettere le arme ricevano gran splendore.

Voglio ritornare, signor mio, a quel pensiero che dicto habiamo de lo illustro tuo genitore, il quale era circa de vuy fratelli, dicendo quello che dice Virgilio di Enea: «Omnis in Ascanio cura parentis erat», che tuto il pensiero di Enea era in Ascanio suo fiolo. Et avegna che l’animo suo fosse che vuy fratelli più presto dar vi dovesti a lo exercitio de le arme cha a le lettere, nientedimeno, cussì dimandendo la età vostra, come dicto è, pur a quelle emparare vi sollicitava, sperendo per quelle vui alquanta parte di eloquentia imparar dovere. Ma, pur havendo il suo final proposito a le arme, anco in tal tenera età vostra vi drizava ad imparar di scrimia, a cavalcare, a giostrare o ver bagordare et a somegliante opere fare, per le quale vuy vi rendesti più habilli e più prompti ne l’armezare, et perciò vi teneva maestri avantezati. O troppo grande diligentia d’un padre a’ fioli! Essendo adonca pervenuti a la età de li adulti, de anni sedeci o circa, cussì nutriti di gran prudentia naturale, se deliberò ne l’animo suo di mandar Leonello al signor Brazo, signor di Todi e di Perosa, strenuissimo imperatore di molta gente d’arme, e cussì quello gie ponete ne le sue braze, raccomandandogielo como proprio fiolo. Il quale gie mandò cum una nobil compagnia, con piuosuor cavalli e biem im punto, mandendo con lui il generoso e strenuo cavalero messer Nanni de Strozzi, fiorentino, suo amantissimo compagno, i quale da quel segnore e nobil imperatore forono lietamente ricevuti e con magne offerte. Ma te ti conzuò con la illustrissima signoria di Vinesia, cum cavalli trecento, di quelli facendotte nobel conductore. E questo il perché biem cognobbe la gran prudentia di to padre tu havere per natura altro governo nei facti d’arme cha Leonello, e quello più di te essere a le lettere inclinato, non havendo il cuor suo come te caldo. Che, pervignendo a la età de anni dicenove, cognoscendo il savio Senato de’ Venetiani e quello tanto cauto de’ Fiorentini, ambi dui inseme colligati, la gran prudentia tua naturale, la tua experta aptitudine ne lo armezare, cussì se deliberorono di farte imperatore di mille doxento cavalli. Certo cosa è pur de admiratione degna, uno garzone da tanti sapientissimi Senati essere in tanta altezza rilevato. O garzone al mondo facto tanto felicie, a cui succeduto è tanto duono de la fortuna! Non sey tu da essere a Scipione assimilato, il quale, in la età soa tenera di anni vintidue, fuò dal Senato romano del suo exercito, in Affrica mandato, ellecto degno imperatore, il perché fuò dapoi Scipione Africano nominato? Passato dapoi alquanti zorni, apresso di L’Aquilla, ne l’Abruzuo, fuò il segnor Brazo rotto da messer Antonio Caldoro, e da lì a zorni duy, morto da Ludovico di Michilazi. Il perché Leonello ritornò a Ferara.

Da può la ritornata sua, fuò tractato di dargie dona, il che data gli fuò per moglie la fiola dil marchese di Mantoa. Havendo adonca Leonello più cha te datosse a le lettere et essendo a quelle naturalmente inclinato, cussì ritornò al studio de le lettere, dendo opera a quelle quando il tempo gie serviva, che pur occupato era per lo stato, havendo sopra di sé quello gran cargo. E piacendogie molto più lo exercitio de le lettere cha quello de le arme, per satisfare a tanto suo desiderio e quello più degnamente compire, se elesse in suo preceptore Guarino Veronese, a nostra età de li oratori principo, huomo certo, e per costume e per doctrina, di gran riverentia degno, e sotto di luy militò molti anni, sì che di buone lettere e di eloquentia accidentale reuscite molto docto.

Ma il perché, illustre signor mio, statuito ho questo nostro volume, oltra il tuo contento, che spero tu ricever dovere, esser anco fructuoso e di piacere a tuti i principi che in luy lezeranno, cussì supplico pacientemente sopportar mi vogli se alquante fiate transgrederò in qualche utele e iocunda cosa, non però dal proposito nostro molto lontana.

E cussì, con toa gran pace, descenderò a movere una dubitatione, la quale spiero a te serà iocunda de aldire et anco sarà a tuti i principi delectevolle.

Succedit dubitatio notabilis

Quale opinione è di comendation più degna,

o quella dil padre o quella del fiolo,

che l’ pare il padre più le arme cha le lettere commendare,

dico anco nei principi.

Per far tal cosa essere più chiara et ad te più delectevole assay, cum supportatione de’ mazori mei, dirò in questa forma. Primo, che ’l principato è uno offitio con dignità coniuncto, il quale è da essere exequito dai principi ne le re publice, semoto ogni amore, odio, ira e presio, adcioché cum gran quiete d’i populi e cum gran iustitia quelle debbano imperando biem rezere e gubernare, cussì ogni soa opera drizendola secundo iustitia e recto iuditio, non intendendo de fare, né volere, nuomà cose iuste, havendo sempre in mente de drizare, a tuto suo potere, i populi suoy al culto de Idio, aciò che ebbano casone de vivere quiete, pacifice e beate. Ma dirò, sempre con pace tuoa, ciò i principi biem far non potere se prima loro non se faranno spechio de’ buoni costumi, nel quale tutti i populi suoy se ebbano a spechiarse, che dice il proverbio: «Capra mal castigata mal castiga becho ». Si che, se serà buom spechio di biem vivere, farà i boni doventar migliori, a’ cativi darà casone di vergognarsi dil suo male adoperare, e de cativi buoni doventare.

E quivi, come per exemplo di tal dir nostro, adurò il segnor da Padoa passato, il quale molto grandemente accusava il sumptuoso vestire de’ principi, dicendo questo tal vestire essere come cosa assay vana et inutile e più a le done pertinente cha a li homeni. Apresso, che questo tal vestire non era altro in li principi che passare di vanità gli occhi di soy ciptadini et a quelli dar dilecto con gran sua iactura. Per la qual cosa se ritrazeva da tale sumptuoso vestire, vestendossi di panni pur di lana e humele assay, senza oro né perle, adcioché, per suo exemplo, cussì i ciptadini suoy non se argumentasseno di vestire delicatamente, né anco le sue donne. Il che, tutta la ciptà discorreva pur con veste humele e di poco presio, senza rechami né prede pretiose.

Et essendo più intrinsecamente domandato il perché ciò faceva, che pur parea a la brigata di ciò errare, rispondea: — Io ciò fazo aciò faccia richi i mey ciptadini de dinari —, che cussì gie parea tanto ornamento e sumptuoso vestire far stare i ciptadini oppressi con puoca monetta et esser come un vago impoverire la brigata.

Ancora dicea: — Tanta gloria è vana che di tal vestire escie, è principio di rendere l’uomo superbo, cum tanta ambitione, facendo l’uno l’altro dispresiare e cussì nascere discordia et odio fra ciptadini —.

Ancora: — Tal vestire, drieto di sé, conduce luxuria per cotal suo pavonezare, che biem si ritrovano alcune poverete da vanagloria tente, le quale per una bella vesta lasseno cengliar la mulla —.

Apresso, temendosse de’ suoy vicini, che potenti troppo erano, diceva: — Se gie vegnisse voglia di farme guera, che aiuto dar mi poteriano tal veste pretiose? Non è meglio che ritrove i mey ciptadini pieni de ducati cha de veste, con i quali me poterano molto meglio e più axevolmente soccorrere?

Ancora diceva: — Quelli che di rendita viveno, per tal vane spese, sempre stano in buca de’ lupi usurari,.e i poveri, volendo con i richi comparere, cussì più delicatamente se vestono. E per tal spesa, muore da puo’ da fame a casa la moglie con i fioli, pur sempre sparegnando e persimonizendo il manzare e il bere per satisfare al debito contracto per tal suo vestire, e spesso tal vesta va a lo ebreo. Da poi le donne, vagezandosse cum tal riche veste, le cerchano di mostrarle e vanno più spesso intorno che non farebono se le fusse vile. Il che, i moschoni le seguitano, cussì rendendosse più ioconde e vage per tanto suo ornamento, e quelli più spesso le beccano. Or sono inteso. Basta —.

E di ciò facendo fine, non laudo tal sua opinione in tutto, che certo in ogni cosa se vuole haver modo e mesura, e di luy anco a suo luoco di sotto se ne aricorderemo, che pur principo era e come principo se doveva ornare, che non pare esser conveniente mettere il basto de l’aseno al cavallo, né anco la sella a l’aseno, come a’ nostri zorni se pratica.

E per rimover alquanto di tedio che me par sentire toa signoria haver ricevuto di tal longo mio disgredere, qui apresso riziterò pur a tal proposito, una solatevole risposta che in quel tempo fece meser Meleduxe Forzatté, nobel cavaliero e gran zintilhuomo padoano, da tua signoria biem cognosciuto, caro compagno di lo illustre tuo genitore. Essendo lui da quel principo electo ambasciatore al re di Franza, como nobil huomo e di animo generoso, per meglio e più honoratamente potere comparere dinanti la maestà dil re, se fiece una vesta di setta negra a la guisa di Franza, stretta cioè e curta.

Il che, venendo la maitina a corte in questa vesta, la brigada vedendo quella, tutta se meravegliò di tal spesa, e l’uno dicea a l’altro: — È bella vesta, ma è troppo stretta —.

L’altro dicea: È troppo curta —.

E luy, aldendo tal parole, si rivoltava a quelli, dicendogie: — Como stretta o curta? Al corpo de Idio, la tiene moza ottanta de Melliga. Non so se curta sia o strecta —.

Volse dire che ’l gi’ era intrato quasi tutto il rendedo de quello anno de le possessione suoe.

E lassendo tal cosa, ritorniamo a le cose lassate di sopra, dicendo che di tal dir nostro seguita che a’ principi s’appartiene di esser di natura prudenti, cussì biem sapendo ordinare le cose presente et haver l’ochio a le future, spesso riminendo per la mente quello che gie poteria facilmente adicontrare, adciò che non gie sopragiunga lo insperato infortunio e dapoy dicano: — Non li credea —.

Debbeno spesso aricordarse de le cose passate, adciò che, per exemplo di quelle, doventeno più prudenti, e cussì, più prudenti facti, sapiano soy ciptadini più prudentemente rezere o governare, e loro ancora. Che certo non è possibile la re publica esser biem recta se ’l principo non è bem prudente. La qual prudentia senza virtù esser non puote.

Et ad acquistare più facilmente tutte tal cose che dicte habiamo, meglio se adoperano le lettere cha le arme, sì che biem dicete coluy che scripse: « Huomo senza scientia è come provinzia senza leze». Il perché Averoys, il gran commentatore di auctorità, di Alexandro scripse: «L’uomo di lettere ornato tanto è diferente da quello che de lettere mancha quanto l’uomo vivo diferente è dal morto». E Platone, in consonantia di tal sententia: «Beato seria il mondo se i sapienti rezesseno». Per la qual cosa ancora aricordiamo che i principi con gran diligentia studiar debbono che i fioli se deano al studio de le lettere, il quale conduce l’uomo più facilmente a la vera sapientia. Che, segnuor mio, lo ornamento de le lettere nei principi rendono, come vidiamo, a quelli gran splendore, che certo suono di quelli un gran texoro, essendo gran preparamento ad acquistare ogni altra virtù cum gran gloria, che, lezendo loro i libri d’i prudenti e savii homini passati, nei quali ritrovano tanti nobel consegly e dicti prudenti, per tal lezere se rendono più prudenti, come adviene al garzone, che per conversatione di boni e docti homeni, di buono diventa migliore e più docto assay. Sì che tal principi docti, lezendo e greci e latini, mandendo tal historie, consegli e documenti a memoria, sanno da puo’ meglio e più prudentemente se rezere e i populi suoy governare. E di questo nostro tal dire habiamo a concludere che se ’l principo è da natura prudente e non sia cussì docto ne la lettera, che alora tale debbe una de le doe cose fare, o haver persona docta sempre apresso de luy, la quale continuamente gie leza, o che ebba in vulgar scripto tale historie e documenti e in quelli tal libri continuamente lezere, dico continuamente, cioè nel tempo che a lui comodo se gie ripresenta.

E vogly, pregotte, signuor mio, a la memoria rivocare quanto splendore e quanta gloria recevuto ha e tutavia receve Alexandro Magno per haver havuto sempre apresso di sé Aristotile e per havere la doctrina di quello con gran diligentia observata. O principi moderni, considerate biene dentro da vuy se ’l vostro principare è somegliante a quello morale e philosophico di Alexandro e se di tale expectati tanta gloriosa fama quanto luy per il suo conseguitato ha!

E con ogni supportatione e pace dil tuo illustre padre, quello alquanto acuserò in questo luoco, che gran fallo fece, non facendote proseguitare più longamente il studio de le lettere, essendo tu di tanta prudentia naturale ornato e di memoria grande, cum tua tanta promptitudine de inzegno, che certo haresti di le lectere conseguitato al mondo gran splendore. Biem mi credo non dover dir cosa a le orechie dissona, dicendo che ’l principo in principato posto che di prudentia mancha, è come uno sterlino nel calculo d’i merchadanti posto, il qual vale uno bagattino, e spesso è messo in luoco de uno migliaro de’ fiorini. O quanto realegrar se debbano i populi, i quali recti suono dal principo prudente, di la quale prudentia meraviosamente doctato sey! Che la prudentia è quella che il principo driza in virtù et in ogni altra opera laudevolle e in gran benivalentia d’i soy ciptadini, in gloriosa fama, in odio dil nome tyranneo et in ogni altro buom fine. Sì che, segnuor mio, biem sey tenuto quella nel tuo regimento adoperare. E che cosa più degna di questa esser può nel principo?

Apresso, non voglio tacere che non dica ogni glorioso principo questi beni exteriori e temporalli a la fortuna subiecti apresiar non dovere, né per sua grande habundantia renderse felice, che certo per questi tale non è però megliore, come né anco il cavallo non è megliore per havere belli e richi fornimenti. Non debbe questi tanto amare che ’l perda il nome di principo, rivoltarse cioè a’ soi ciptadini e quelli depredare como tyranno, anci debbe de’ soi proprii beni più presto a quelli soccorrere, contra di quelli rendendosse magnifico e liberalle, sì che i beni temporalle il principo amar debbe, in quanto per quelli se rende virtuoso.

Et havendomi tanto la prudentia laudata nel principo, forsi dimanderay: — E che cose a luy fare alpertiene, che questa tal prudentia cussì biem usar la possa? — Ti rispondo cum Aristotile che otto suono tale in numero, cioè memoria (et è la prima); l’altra, providentia; terza, intelligentia; quarta, rasone; a le quale seguitano solertia, docilità, experientia e cautione, che certo queste suono le parte di la prudentia principale.

Debbe havere il prudente memoria de le cose passate, non che mutar le possa, ma adciò che per quelle le future meglio disponer seppa, che il più de le fiate le cose passate se asomegliano a le venture. Imperò Exopo: «Praeteriti ratio scite futura facit». Debbe esser providente in queste cose future che cussì, quelle cogitendo, ricerca le vie megliore per le quale possa meglio disponere e i periculi futuri fugire et evitare. Debbe intelligentia usare, che studio dar debbe in saper le leze al regimento necessarie; sapere le consuetudine, le quale fanno al biem essere e pacifico vivere di la re publica sua, sempre drizendo i populi in commendabil fine. Et imperò è di bisogno il principo esser molto rasonevole, adciò che biem entenda che cosse convene a tal leze e consuetudine per conservatione di quella. Convene esser solerte e docile, che essendo in tanto culme de dignità, è de bisogno che luy studie a ritrovare i mezi per i quali il populo pervenir possa ai beni suoy desiderati. E, non essendo l’uomo per sé solo tanto sufficiente como bisognaria, imperò è di bisogno che se faza docile, cussy havendo il conseglio d’altruy, che la proprietà di l’uomo prudente è non dispresiar i consegly, ma sempre voluntiera aldire e asentire ai consegly de ly homini autentici e probati. E devendo intendere il principo le consuetudine particulare di la gente a luy comessa, cussì fa di bisogno luy di le cose del mondo experientia havere, che è una doctrina di quelle particulare, adciò che le seppa in miglior fin drizare, che certo né il principo, né il medico, biem che seppano le regole di l’arte, non puoteno conseguire di suoa opera degna laude senza exercitio et experientia. Imperò tutti i principy e medicy vorebbono essere di età perfecta e di la antichità tocare; et imperò è dicto che bisogno è che cauto sia il principo, il quale senza capilli canudi mal cauto esser può, che dinanti di quello, di zorno in zorno, gie suono proposte bosie cum verità mescolate, che mal se cognoscono se l’uomo non è biem savio, cauto et experto.

E dovendo i principi, per tal suo regimento gravoso, ricevere a l’anima et al corpo di le molestie assay, cussy è honesto che alquante fiate se ebbano a seperare da quelle e darse a le cose a loro grate e di sua grata recreatione, o cazendo o uselendo o in altra guisa di piacere; ma in tutte tal cose gie vole havere tal moderamento, che facte siano senza nocibilità de la re publica suoa. Che se si ritroverà uno principo giovene che da tal cose se ritraza per satisfar meglio al regimento suo, havendo luy tanta licentia, certo serà degno de principare, togliendo ciò per vero segno tutto il suo pensiero esser in buon governo de la re publica soa. E di tal cosse voglio haver dicto assai, se dirò che veruno principo prudente esser può che se crede esser savio e de luy troppo extima se fa.

Ora drieto tanta digna disgressione, ritorniamo a la questione nostra, se da’ principi le arme suono da essere a le lettere proposte. Già declarito habiamo l’offitio dil principo meglio assay adimpirsi per le lettere cha per le arme, il perché, adonca la toga è da principi essere a le arme preferita, che ciò persuadere anco potiamo. Il perché, al debito regimento di la re publica, al principo sempre necessaria è la toga, ma le arme nuomà a certo tempo, sì che biem facilmente concluder si può i fioli d’i principi più presto esser invitati a le lettere cha a le arme. Imperò biem scripto è: «Tutte le ciptà starevano in gran fiore se i philosophi regnasse, cioè se i rezenti philosophasse», che certo apena può queluy errare che biem entende e vole la equità, che pur vidiamo i litterati esser di meglior costumy cha i non litterati. E di tal dire seguita li medeci esser più amati assay dai populi cha li iurista, il perché i medici sono sempre necessarii, o per conservar la sanità o quela recuperare, ma i legisti non suono necessarii, nuomà a certi tempi, cioè di litagare. Apresso diciamo le armi fuoreno trovate in principio per lo biem essere de le re publice, che essendo al tempo che ogni cosa era comuna, come Socrates philosopho ai populi persuadea, cussì non erano le arme necessarie. Ma, come comparseno a campo queste doe cose, meo e tuo, per rimovere le contentione e discordie che di queste tale reussivano, cussì li homini ritrovoron le arme in defensione. Il che, adonca, ritrovate suono a defensione di la re publica e in quella ordenate come in suo fine, et essendo il fi— ne, secondo Aristotele, più degno assai che le cose in quello ordinate, è adonca da concludere la toga esser a le arme preferita. Ma non passendo questo luoco, illustre signuor mio, molto mi maraviglio di Seneca tanto morale e prudentissimo, che luy cadesse in la opinione di Socrates, cussy laldendo meglio esser a le ciptà se ogni cossa fusse comuna, che ’l dice in li Proverbi soy: «Quiete et pacifice viverent homines si haec duo tollerentur, meum videlicet et tuum», che quieta e pacificamente viveraveno li homeni se tale doe cose non fosseno, me’ e tuo, cioè se ogni cosa fusse comuna. E per darte alquanto più piacere, transgrederò in questa opinione, dicendo che Socrate voleva non solamente il pane, vino e somegliante esser comune, ma anco la moglie e fioli, che certo è pur cosa da habominare. E luy se credeva per tal comunità doverse levare ogni offesa e con gran pace la brigata vivere dovere, che ad me pare, pur con pace di tanto huomo, tal sua opinione esser molto da increpare. Il perché non si ritrova tutti li homini esser equalmente prudenti, né anco tutti esser equalmente utelli a la re publica, sì che quelli che più se estimano e che degli altri se credeno esser più degni, cussì voleno esser più honorati e gli altri come inferiori tenere. Il perché nasse fra loro le contentione e li odii. Il che tal comunità con pace star biem non può. E se le moglie fosse comune, ceserebbe l’amor di la moglie al marito, d’i padri ai fiolli, et anco non cognoscereveno i padri luoro fiolli né i fioli il padre. E cussì seviendo, il padre incontrar poteria che amazaria il fiolo, e ’l fiolo il padre, ciò non sapendo, come spesso intraviene ne li animal brutti, che pur li homeni da quelli debbono essere differentiati. Ma considerando io tanta gravità di uno huomo quanta era quella di Socrates, certo me pare tal suo parlare di qualche nobel sententia e grave esser pregno. Il perché, cum supportatione, dirò questa sententia haver voluto Socrates in tal suo dire, che quietamente e beati viverebono li homeni se ogni cosa fusse comuna, quanto cioè a l’amore e cura, che ognuomo amasseno le altrue cose e de quelle facesseno come de le suoe proprie, risguardendole e da dano e da vergogna. Ma il perché li homeni pur han posto amor e cura al suo proprio e non a quel dil compagno, imperò dice Seneca: «Questo tuo è mio », cioè che dil tuo non ho cura né quello amo quale el mio, cussì suono casone di far vivere li homeni senza quiete e pace. Che altro dir non volse nomà che la vera amicitia fra citadini fa le ciptà vivere beatamente, come expresse vidiamo la lor discordia quelle rendere infelice, che di ciò al presente exemplificar potiamo di Genoa, la quale è in tanta angustia e fatica per la divisione d’i suoi ciptadini nassuta. E pur ritornendo a le arme et a la toga, diremo la toga al principo e per guera e per pace essergie necessaria, ma le arme solamente a tempo di guera, le quale sono come il brazo e le mane membri dil corpo, da natura producti per difendere il capo e li altri membri da li suoy inimici. Chi è adonca sì insano che dicesse la mane e il brazo esser dil capo e di gli altri membri tutti più degno e di esser più ellecto? Il che, signuor mio, più decente cosa è al principo, e dico assay, esser biem litterato cha buom imperator di zente d’arme. E imperò dice Seneca che veruno altro cha l’uomo litterato meglio sa comandare e rezere; il perché, queluy sa biem comandare e gubernare che ha creato i princìpi e che dei princìpi facto ha iuditio, come facto hanno philosophi prima. E ritornendo a Socrates, pur sperendo a tua signoria piacere dare, luy constituendo la ciptà, quella partiva in cinque parte: la prima facea il principo; la segonda i consigliery; la terza li homini bellatori, cioè d’arme, i quali al tempo di guera havesseno a defender la ciptà; la quarta era li artifici; la quinta i rurali. Sì che constituiva le arme membro e il principo capo, dal quale il governo di tutto descender dovia. E questa tal sententia Pheleas philosopho confirmava, subiungendo li homeni d’arme essere brazo e mane di la ciptà. E per provare il principal proposito nostro, che la toga cioè sia da esser preferita, diciamo che non è cosa che da l’uomo debba esser tanto desiderata come è la felicità, et essendo il studio de le lettere via a quella, cussì drizendo l’uomo a buone opere, a buom fine e finalmente in virtù e secondo quella vivere; e le arme, spetialmente di nostra età, drizendo li homeni a robare, a far tradimenti, omicidii, stupri e simil grande mali, cussì da ogni principo è molto più da esser desiderato lo ornamento de le lettere cha di lo armezare. Et imperò i fioli d’i principi suono più presto da esser invitati a le lettere cha a le arme. Apresso, le lettere ensegnano come l’ uomo se de’ biem governare e rezere, che chi non sa se medesimo biem governare, mal governarà altruy, e chi non sa biem se imperare o ver segnorezare, mal segnoreza altruy. Queluy biem se sa segnorezare che sa sottoponere le sue concupiscentie a la rasone e i soi sentimenti domare, che non è decente cosa che queluy che non sa tenere in sé i moderamenti di biem vivere, sia facto iudice di la vita di altruy. Adonca ai principi che debbono altrui governare, rezere et amonire, cussy gie sono le lettere molto più cha le arme necessarie, che il principo savio, sopravignendo il tempo de la guera, cussì congregarà i suoy consigliery e con quelly se conseglierà, come fa ne’ le cose ardue di la re publica. E se diray tutty i populi più honorano i capitani e le zente d’arme cha i litterati, dico prima che absolute ciò non è vero che tutti ciò fazano. Ma se pur i vulgari ciò fanno, questo adviene il perché non intendono la dignità di la virtù, fazendo più estima assay d’i biem de la fortuna. Ma quelli che di virtù hanno qualche cognitione honorano le lettere de degno honore. E se honorano da può le arme, ciò fano per paura o per vergogna, e la riverentia facta tale non è da esser chiamata honore. Il perché, come dice Aristotile, «Lo honore è la exhibition di riverentia in premio di virtù facta», che certo bem demente è la opinion dil vulgo, il quale crede l’uomo più risplendere di quello d’altruy cha del suo proprio. E forsi la opinione dil vulgo de’ essere preferita a quella d’i philosophi, i quali voleno lo honore esser premio di la vertù sola, sì che solo l’uomo virtuoso è degno di honore, non dico solamente il litterato, ma ogni tale ornato di vertù? E se honor se fa ai principi et altri in dignità posti, ciò se fa il perché ogni dignità di sua natura in sé include virtù, che le dignità sono trovate per esser date a quelli che le meritano, e questi tali suono quelli che la vertù adorna, a Dio drizata, la quale mai l’uoma non abandona, né per forza a quello può fir tolta come i beni di la fortuna, che oggi l’uomo è rico et in gran stato, domane cadde et è in gran povertà, come de zorno in zorno vidiamo. Et imperò Bias philosopho, essendo Athene, sua ciptà, posta a sacomano, confortato dai soy che sieco portar dovesse qualche cosa per il suo sovegno, rispose: — Io porto ogni cosa dil mio meco, che quello che lasciato ho a casa non è mio, ma era di la fortuna, e quello che la fortuna ne dà non è nostro —. O fortuna, pur di te dico in questo luoco, tanto che a me pare, se luoco alcuno hay e possanza ne le opere humane, maxime tu le hay nei facti d’arme! Sì che i principi drizar i fioli a lo exercitio de l’arme è quelli a la fortuna riccomandare, di la quale per nulla l’uomo fidar se debbe, cumzessia che sta sempre su la rotta instabile, movendo quel di sotto, di sopra e spesso fazendo l’aseno in sedia montare e il cavallo aseno diventare. Ma la toga rende li homeni più splendidi e beati, dove per quella altramente risplende il principo cha per le arme, che certo il principo togato è come una stella al mondo resplendente. E per tanta soa modestia di vita, tanto cresse l’amore d’i populi a quello, che la gente a luy comessa la tene con tale amore, sotto timore, non meno di quello che faria la gente d’arme. Il perché la modestia tanta dil principo è al populo come un freno di non lassare i populi in li vitii discorrere, sì che il vero amore pare di forza superar le arme et ogni altro tormento.

E cussì assai ieiunamente expediti di tal dubitatione, mi rivolterò a lo illustre Nicolò, tuo padre, il quale, essendo da Philippo Maria, di Milano duca, con grande instantie pregato che andar volesse al governo dil suo stato e quello havendolo in padre ellecto, tanta proferta non sapendola denegare, cussì anduò, lassendo il governo dil stato suo ne le mane di lo illustre Leonello, tuo fratello, essendo tu in facti d’arme. Adivene che, di tanta sua exaltatione essendogie invida la fortuna, sempre instabile, cussì la vita comutò con la morte. E, approsimandosse a la morte, fece testamento, lassendo di tal stato governatore e segnore Leonello solo, pur raccomandandogie i fratelly suoy tutti. Et intendendo Leonello sapientissimo tanto suo governo e di tanto cargo haver di bisogno di savio e prudente et affidato conseglio, cussì te rivochoe da le arme per due casone: la prima, adciò che ’l te dimostrasse quel vero amore che luy ad te sempre portato haveva; e secundo, aciò che quello stato suo governasse cum maturo e fidiel conseglio, il quale non dubitava da te expectare. Che certo, tal suo amore verso di te sempre havuto, biem te ’l dimostrò nel tuo primo giongere a luy, che da gran dolceza di cuore, di lacrimare, di abrazarte e di basare saturare non si potea, cussì da tanta alegreza rimanendo come huomo senza lengua.

Et essendo per certo spatio di tempo passato Leonello privato di la moglie, che da Mantoa conducta havea, tiecho si consegliò di tuor moglie. Il che, deliberasti che ’l tolesse la figlia di Alphonso re di Catelonia e di Napoli, la quale certo nobele e prudente madona era, che cussì desiderava Alphonso quella a luy dare, intendendo la grande virtù di Leonello. E concluso che fuò il parentato, ti mandò cum una nobil copia di zintilhuomini e di honorata fameglia a quella desponsare e a condurla a Ferara, facendo di te e fidendosse come di se stesso. E ritornato che fusti, facte le gloriose noze, con quelli vixisti anni nove o circa, cum grande amore e pace, tuttavia manezando i facty del stato come proprio Leonello, sì che non dui, ma uno principo haveva il stato suo, che il voler di l’uno era quelo di l’altro.

Essendo in tanto gaudio e piacere, la fortuna, nimica d’ogni bene, havendove invidia, percosse Leonello di una ferita mortale in Belriguardo, loco amenissimo. Il che, da puo’ quella, nel trigesimo septimo zorno, comutuò la vita con la morte. Di cui la morte cum quanto dolor di cuore e cum quante amare lacrime tu piangesti! Lasso ai lectori facilmente iudicare, che di lacrimare e di dolerte manchar non sapevi. O quanto pianzuto fuò da il populo ferarese tuo e da li altri tuoy populy! Certo li lamenti e le voci penetravano il ciello, tutti gridendo: — O infelice nuy, quanta perzeda fata habiamo, havendo perduto il glorioso principo, padre nostro, non tanto signore! — Pianzevano le donne e i fanciulletti cum tanto clamore che la ciptà era tutta piena di voce meste di gran tristeza, e certo biem pianzevano la morte di uno degno e glorioso principe. Ma, da l’altra parte, vedendosse i membri, cioè i ciptadini essere rimasti senza il capo glorioso, murmuraveno fra loro di la electione dil principo loro.

E per dare di questo lezere più piacere a toa signoria, cussì fabrichendo, descriverò uno nobele Conseglio, secondo il mio picolo iuditio, molto da bene, come far se doveria in ogni degna electione di principo che elezer se debbe. E pregote, segnor mio, d’aver vogly patientia se, inanti che narre la conclusione di la electione, narerò pur a tuo ornamento e gloria prima tutto quello che dicto et agitato fuò in quelo Conseglio, che mi spero tal narratione esser dovere non picolamente ad te non solamente grata ma ancho iocunda et ai lectori delectevole molto, che biem entenderai quanto iocunda, grata e felice fuò una tal tuoa electione.

Congregato adonca che fuò tal Senato nostro di Ferara, essendo miser Francesco di Moro, doctor di leze, spectato tuo ciptadino e de grande auctorità havuto nel populo, essendo anco il più degno dil Consiglio, cussì nel primo luoco se levò a parlare e incomenciò a dire:

Ornatissimi ciptadini mei, biem so ognuno di vuy sapere ormay la morte dil principo nostro messer Leonello certo da nuy esser sempre pianta e lamentata, come facto habiamo. Il che, a quella tale non gie essendo più rimedio alcuno, mi pare che ormay dibbiamo retenire li ochii nostri dal pianto e quilli aperire cum buona e grande prudentia a risguardare di trovare a tanta nostra perzeda buon remedio, che a me mi pare siamo conducti come nave nel mare senza governo. Et è adonca di bisogno che ciascuno di nuy pona tutto il suo pensiero circa la futura electione, la quale al presente far dobiamo, e dire, in tal caso nostro, ognuno il suo parere con vero cuore, postponendo ogni bene proprio, amore, odio, ira et aspectato premio, che pur è vero che di questa re publica fioli tutti siamo, sì che nuy questa nostra madre come veri e buoni fioli drittamente debbiamo consegliare. Il che, a tutty fo pregiere, e tante quante io so e posso, voglia ciascuno tutto il suo inzegno aciò adoperare, il perché la buona e cativa electione è per venire sopra di nuy e d’i fioli nostri, sì che apritigie biem gli occhi —.

E proseguitando dicea: — Ogni re publica, ciptadini mey, se vuole rezere a uno de duy modi, o per rezimento de uno principo solo o per rezimento de piuosuori ciptadini, a tal rezimento dal populo electy. Il che mi pare che in questa nostra electione che far aspettiamo, prima discutere dobbiamo se ’l è meglio che la re nostra publica sia per uno principo governata o per piuosor ciptadini cussì electy. E dapoy che piazuto vi ha che occuppe nel dire il primo luoco, cum supportatione di tutty, in tal dubitatione dirò quelo che ’l mio assay facil iuditio sente, posponendo ogni odio, ira, amore et ogni proprio bene, havendomi non tanto al presente ma zà fa multi anni tal cosa per la mente mia ruminata, acorrendome piuosor rasone per questa parte, che meglio e più honorifica cosa è a la re publica esser governata per il principo cha per moltitudine de’ ciptadini, il perché nulla cosa è più prestante in la re pubica quanto è la pace e unione d’i suoy ciptadini, che questo è il felice et ultimo fine di quella. E di ciò habiamo doctrina dal Signor nostro Idio, cussy spesso a’ suoi apostoli e ciptadini annuntiandogie la pace come come cosa prestantissima in ogni moltitudine, dicendo: — Pax vobis —. Ma questa pace meglio se ritruova in li ciptadini essendo la re publica per uno principo solo cha per moltitudine. Adonca meglio è cussy anco nuy uno principo elezere cha rezerse a Comune. Ma che questa pace meglio se ritrove essendo la re publica meglio per uno principo gubernata, il proviamo, il perché nuy habiamo per documento d’i philosophi che l’arte debbe in le suoe operatione seguitar la natura, concessia che la natura non erre per esser da la intelligentia non errante governata, come dice il gran philosopho Aristotile. Vidiamo che la sannità nel corpo humano, che è come il picol mondo, se conserva per coequalità e pace de li humori e spiriti di quelo, e per somegliante, per la pace d’i membri suoy, cioè quando veruno di quelli è distemperato, che tutty da uno membro solo dil corpo hanno dependentia, il quale se nomina il membro regio, cioè che tutti li altri regge e governa, che è il cuore. E, per somegliante, in la re publica è da credere quella dovere esser meglio governata per uno solo principante che per piuosuori. E ciò ne amaistra et insegna il governo che ha tutto il mondo celeste e terrestre, il qual se governa per uno Idio principo solo e non per piuosuori, come credevano i gentilli. Sì che, togliendo nuy da Idio vero nostro Signore, da la natura e da l’arte buono e vero exemplo, cussy pare lo governo de la re publica molto meglio esser recto per uno principo solo cha per piuosuori gubernato. E questo ne persuade ancora la impossibilità aparente di potere fra multi sempre esser vera concordia per tanta varietà di sententie, le quale in diversi homeni diverse se ritrovano, aducendo il comune dicto: «Tanti capi tante sententie». Il perché, in tale e tante diversità, fa di bisogno nascere contentione e discordie, per le quale se lacera il bene de la re publica. E ciò habiamo a’ nostri zorni spesse fiate veduto e come al presente vidiamo ne la re publica di Genoa, ciptà tanto magna, degna e gloriosa, che certo come il reame non può essere biem recto per duy reale, cussì né la re publica per piuosuori. Che io credo che se lo ’nferno se rezesse a Comune, dove gie è una libra di confusione, gie ne seria centenara. Da presso vidiamo la virtù unita esser più forte assay cha quela dispartita; sententia è di tutty i philosophi. Essendo adonca tuta la possanza e il rezimento di la re publica in uno principo solo, cussy quella se renderà assay più vigorosa che se la ritroverà dispersa ne’ multi. E cunzessia che la doctrina per exemplo suol esser più efficace assay, imperò adurò tal exemplo per il dicto nostro confirmare. Non è dubio che piuosor homeni tirante la nave, se quelli nel tirar non se acorderano, cussy quella mal tirata serà; ma se insieme se convenerano, serà molto biem tirata. Adonca, se tanta possanza quanta è quella di tutti quelli che tirano posta fusse in uno solo, non è da dubitare che tal nave più equalmente e meglio tirata seria, che certo, in tante persone tirante, è verissimile che di luoro gie sia uno più forte di l’altro e che tutti cum una equal potentia a quella tirare non concoreno, sì che spesso acade alcuno di quelli impazar li altri nel tirare. Somegliante è da credere intravenire nel tirar il caro dil bene di la re publica, quando per piusori tirato serà. E tal dir nostro anco confirmiamo pur per l’opera di la natura, che nuy vidiamo in la multitudine di tante ave o ver ape, la natura a governo di quelle darge uno principo regale, over re, come scrive il gran Baxegio. Dice che le ave tra luoro elezeno uno re, non per sorte, non per fortuna et a caso, ma fra luoro quello che è dil corpo prestante e di virtù più potente, il quale non ha aculeo ma è solamente di la potentia di suoa maestà armato e per natura pio, et a questo mai non se rebeleno, e, come questo muore, cussy ne elezano uno altro, e star non sano senza re over principo. E se tale non ritrovano, come dice Plinio, alora se riducono sotto il rezimento dil re di un’altra multitudine, per fin che ne ritrovano uno a lor contento, e fra luoro may non se rezeno a segnori né a populo.

E se in contrario dil dir mio aducerete il glorioso Senato di Vinesia, vi risponderò che mi contradicete cum una cornice bianca, la quale facta è bianca e beata. Il perché i cavalli non hanno potuto correre su le porte enee dil ducato suo, ma pur ancora, per servare la dignità de la monarchia, fra luoro elezeno uno principo che è come capo di tanto Conseglio —.

E fornito il suo dire, se levò Pietro Ziro, huomo certo grave e di auctorità grande nel Senato, e deponuto che ebbe la beretta e rivoltati li ochii ad intorno, incominzò a dire:

Non voglio, padri mei conscripti, che creduto sia che quelle cose che dirò dir le voglia per contendere e contradire a quello che dicto ha il mio fratel mazore, ma pregove che siano tal parole havute sempre in buona parte, il perché facilmente entendo vuy tutti biem sapere che per le contraditione meglio e più chiaramente le cose se dilucidano, come dice il Philosopho: « Uno opposito, over contrario, apresso l’altro posto, meglio se reluce», e ciò vediamo per experientia, ponendo il bianco apresso il negro. Essendo adonca tal cosa nostra degna di experientia e lucidità, per il pericolo grande che incorere poterissimo non facendo buona electione; imperò per far quella megliore e più perfecta, con pace di tutti, contradirò a quello che dicto è per il fratel mio, cussy dicendo: nuy vidiamo, per experientia, dui ochii meglio vedere e più perspicacemente che uno, dui intellecti o tri inseme più elucidamente e meglio discutere ogni altra cosa cha uno solo, e cussy di somegliante. Adonca meglio è per la re publica nostra quella esser recta per la moltitudine cha per uno solo, essendo per la multitudine ogni sua cosa meglio e più perspicacemente elucidata, dove Aristotele ne la Politica: «Piuosori principante ne la ciptà suono come uno principo che ebba molti ochii e molte mano». Apresso, è molto da esser observato ne le re publice che ’l biem comune sia preposto al biem proprio. Ciascun principo, sia chi se voglia, è come li altri homeni inclinato per natura più al biem proprio che al comune. Imperò se volga: «Pro nobis bene, pro aliis competenter», sì che concludo più fedelmente e meglio la nostra re publica essere per la multitudine recta che per un solo huomo. Ancora tal cosa persuadeami, che li animi di queloro che governano e reze se puono da ira, odio corrumpere, e de facto se corrumpeno, e la corruptione di tale è casone di la destructione d’i stati, ma a corrumpere uno è più facile cosa cha multi. Pare adonca il stato di la re publica cussì recto per piuosori esser molto più securo. E dicto ho —.

Dietro Piedro si levoe Paulo dal Bondene, huomo certo perito e biem experto, dicendo che luy cadea più presto in la sententia di messer Francesco cha in quella de Piero e quella assay più laudava. E per non parere senza rasone parlare, iungea al suo dire che le rasone dicte da messer Francesco erano quelle che ad ciò dire il persuadea, havendo luy a quelle di Pietro efficace risposte al suo iuditio, ma nientedimeno pur sempre star voleva a la determinatione di la mazuor parte. Dicea adonca, rispondendo a le rason di Pietro:

— Io biem confesso dui ochii meglio vedere cha uno e duy intellecti più perspicacemente intendere e discutere e uno huomo più facilmente poterse corumpere cha duy e tri, et anco ciascuno amare il bem proprio etcetera. Ma io dico che cussy elezendo un principo dobbiamo biem guardare che ne eleziamo uno il quale ebba di molty ochii e de molte mane e de molti intellecti, come dice Aristotile, e questo serà tal principo, il quale desidera saviamente di bem rezere e biem governare il populo a lui comesso. E dimandato chi serà quello, respondo: quelluy il quale apresso di sé harà savii, buoni e fidati conseglieri, con il conseglio d’i quale se rezerà in le opere suoe, tutte quelle exequendo sempre con gran prudentia, e cussy non se lasserà corrumpere per odio, ira e d’altra cosa. Sì che concludo, al mio picol iuditio, che un principo elezere dobbiamo e non rezerse a comunità, ma che siamo cauti e diligenti in fare tale electione e tutto il nostro sapere circa de ciò rivoltare, che questa cosa cum sì porta gran peso. Ho dicto —.

Nel quarto luoco se levoe Nicolò da Rippa, huomo molto enzegnoso e di lettere ornato, et incomenciò a dire:

Ornatissimi ciptadini e padri mei, io me aricordo haver lecto in la Politica di Aristotile quale è meglio o tuore uno principo per successione di sangue o per electione. E questa tale dubitatione vi porgo dinanti, non senza gran casone, il perché biem so tutti vuy sapere lo illustre Nicolò, già principo nostro, haver lassato molty fioli, dei quali ciascuno seria di principato degno. E ricordendosse nuy di tanto suo amore havuto a la re publica nostra e a tutti nui e di tanti benefitii da luy recevuti, cussy ad me parerebbe che uno de queli è quello che facesse più al proposito nostro elezere doveressimo in nostro principo, che pur è verissimile che ciascuno di questi, per lo inato amor patrio, cum più vero e dolce cuore rezerà la re publica nostra che verun altro, come di ciò havuti habiamo la experientia nel glorioso e pacifico rezimento de lo illustre Leonello, il quale cum tanto amore ne ha gubernati. Ma è pur vero che contra tal iuditio mio mi occorrerà una persuasione pur rethorica, et è questa: il principo che per electione è constituito, se eleze cum arte et cum prudentia, ma quello che è tale per successione, dato è dalla fortuna. Cuncessia, adonca, che ogni cosa tale facta per prudentia sia preeligibile di quella facta per fortuna, cussy concluder dobbiamo meglio esser che nuy constituamo uno principo per electione. E ciò conferma la auctorità dil Savio, dicente che ’l principato non si debbe dare al sangue, ma a la vita, cioè a la vertù. E considerando io che fra questi tali heredi biem ne ritroveremo uno e virtudioso e molto da bene e di principato degno, cussì, quelo elezendo, satisfaremo a la electione e al sangue insieme. Il perché mi pare da concludere che fra questy uno elezere dobiamo in nostro principo glorioso. Voglio cum queste mie poche parolle e cum supportatione haver dicto tanto —.

Se levoe dapoy, nel quinto luoco, cum una gran modestia, maestro Nigrisollo, de Tullio fiollo, huomo certo tutto morale e in medicina e in le liberale arte molto docto, il quale nel Senato haveva grande auctorità, e per la suoa facundia et eloquentia, quando parlava, sempre stava tutto il Senato cum le boche asserate e le orechie molto aperte, quello sempre longamente senza alcun tedio, cum gran dilecto aldendo. E cum una voce risonante incomenzò cussy a dire:

Sapientissimi et ornatissimi padri mei, essendo gravemente lo illustre Leonello infermo, io domandai messer Michele, suo medico principale e caro mio fratello, quello che di lui sperava, e me rispuose che senza alcuno dubio per fina pochy zorni era per morire. Il che, subito in la mente mi vene questa tale disceptatione, al presente da nui agitata, la quale, oltra il gran dolore che di tal risposta recevetty, tanto me molestava la mente, che in ciò pensendo, parea ad me non ritrovar riposso, né zorno né nocte, sì che per fina al presente ho molto più assai vigilato cha dormito. E rivoltendome per l’anemo maturamente tal cosa con molte rasuone, pur sempre mi concludea molto meglio essere, per la re publica nostra, quella da uno principo fir governata cha da la multitudine d’i ciptadini. Ma in quello elezere era di bisogno far un gran scruptinio, cioè prima bem investigare le conditione le qualle debbe il principo havere, e se tale se ritrova in alcuno, non è da pensare sopra la electione di quello, che certo, quando uno fosse tale, degno seria non tanto dil principato di Ferara, ma dil principato di tutto il mondo. E biem che non havesse tutte quelle qualità che narreremo al principo necessarie, havendo la mazor parte e le più principale, al mio parere quello anco seria da esser electo in nostro principo. E per dare ampla materia a ciascuno di vuy di far buona electione, cum supportation di tutti, narerò le conditione le quale haver debbe uno degno principo e quelle aprirò, adciò che da ognomo meglio enteso sia, pregandove tutti cha mi voglia haver per supportato se nel parlar mio serò alquanto longo e tal mio dire non ascrivere a presumptione, che certo tal cose in brieve parole e bene dir non se puono. Vogliate, pregovi, biem considerare quanto tal cosa degna è di longo e maturo scruptinio, che pur mi sforzerò con più breve parolle che poterò, quelle a le reverentie vostre aprire. Mazuori fratelli mei, io ritrovo, rivoltendo i volumi d’i philosophi, XIV conditione, le quale debbe havere ciascun degno principe, e la quintadecima, la quale acciede a grande ornamento e dignità a tutte le altre.

E seguitando in lo numero di quelle, dico che al vero e degno principe alpertiene esser prudente da natura, iusto, temperato, forte, liberale, magnifico, magnanimo, di honor amativo, humile, mansueto, amicabile, verace, iocundo et eloquente, con le quale, se si congionge la beleza e formosità dil corpo suo, cussy tutte se rendeno più grate e più iocunde a’ populi. Imperò biem dicea Virgilio: «Gratior et pulchro veniens de corpore virtus». E quel principo che tutte queste harà, o in la mazor parte, cussy se renderà tutto studioso e solicito al bene di la re publica suoa. Queste adonca tal splendide vertù, in lo principo degno necessarie io con suo ordine proseguitarò di una in una, adciò che saltim da li homeni docti de lectere siano meglio entese, e per tal suo intendimento possiamo descernere e meglio aprovare la electione che dil principo far dobbiamo —.

Era, come è dicto, sempre nel Senato tanta la auctorità di questo huomo e la suoa eloquentia e facundia ad ognomo grata, che biem mille anni parea a ciascuno che nel dir suo proseguisse. Il che, per tanta suoa dolce expectatione, may non parea il suo dire troppo longo. Proseguitendo, adonca, dicea che bisogno era che ’l principo da natura fosse prudente, cumcessia che la prudentia drize ogni altra vertù et ogni atto humano in buom fine, e che di ogni tale operatione quella sia il temone; che, come dicto habbiamo, il principato è uno offitio honorato cum dignità coniuncto, il quale ha a governare la gente a luy comessa, e quella in buon fin drizare. Imperò Aristotile: «Quelli estimemo prudenti i quali sanno ad sé ed altri biem provedere»; che certo il principo è come patrone di la nave e il populo è la nave, la prudentia come il temone, e come il patrone con il temone driza la nave dove vole et al termene che vole, cussy il principo fa il populo con suoa prudentia, quello gubernendo come vole. E di la prudentia voglio da me tanto dicto sia, essendo stato tanto di ley dicto de sopra, e questo iungerò, che molto alpertiene al principo recognoscerse esser de Idio ministro e il popul suo in quello drizare, che chi Idio biem non cognosce e quello non teme, non può esser prudente, dicendo il propheta: «Initium sapientiae est timor Domini».

Dicevamo, segondo, che iusto esser conviene, adciò che per iniustitia suoa de principo non divente tyranno, e che il felice suo stato non si riverse, che la iustitia è quella che parturisse la pace e la concordia d’i ciptadini. E che bisogno è al principo persuadere la iustitia, che biem so ciascuno sapere la iustitia, come dice Aristotile, esser di le virtù tutte la più preclara et in ciascuno principo maxime necessaria, cuncessia che ogni principo nominato sia vero custode de la iustitia, come il pastore de le pecore? E chi pur non tacerò che non aricorde Idio, dil tutto principo, esser la summa iustitia?

Vuole esser di temperantia ornato, che non è cosa che tanto renda il principo ignominioso quanto la intemperantia sua in ogni suo acto, che quello rende a’ populi odioso e senza riverentia havuto, aricordendo in questo luoco Sardanapallo, principo intemperato.

Debbe esser forte, adciò che in tanta suoa licentia di peccare non se lasse venzere a la dolceza di le voluptà, il che, de virtuosa forteza vestir se debbe, adciò che nel tempo di le guerre se ebba ad exponere senza timore ai pericoli et arsaltar le cose ardue pur per biene et utilità di la re publica suoa e cum suo forte animo rendere i populi vigorosi e forti.

E che dir debbo de la liberalità, la quale, biem che sia da esser laudata in ogni huomo, maxime è da esser laudata nei principi, come in queli anco l’avaritia è da esser più vituperata che de la liberalità? Pur tanto dirò che la è in ogni principo molto necessaria, et in questo luoco non tacerò che non dica queluy esser liberale il quale dà con l’anemo libero, a cui il dà tanto quanto il debbe secundo il merito, e dà a la persona che tal dare o ver duono merita, e dà per rispecto di bene non di male, e che in tal dare non il promove delecto voluptuoso né tal voluntà, ma solamente il merito e la vertù di queluy a chi il dà. E per tal dire concludo esser molto difficile al principo tenir la liberalità suoa, per sì facto modo che alquante fiate non casche in prodigalità, che certo tanta licentia di pecare quanto hanno i principi e di poter seguire ogni soa voluntà, havendo denari e robba assai, è gran incitamento a condure facilmente l’uomo in prodigalità. Et è sì forte e potente che per experientia vidiamo i principi farse prodigi, daendo il suo a chy non il merita e cussy dando più che non doveriano. Et anco tal duoni la mazor parte fanno pur per voluntà, senza rasuone, e spesso per amor lascivo, che pur vidiamo tal gnatoni, histrioni, homeni di cativa conscientia esser da luoro premiati per suoe vane opere o per qualche cativo aviso da lor dato, o per qualche cativo obiecto che a luoro delectano, non dico però di ruffianezo, che il liberalle biem mesura la quantità dil duono, la virtù di queluy a cuy il dà e il fine buono. Il perché cussy dona e dà, che certo spesso sia meglio per luoro che non havesseno tanta robba, né tanta licentia, sì che il buom principo debbe esser liberale, non prodigo, e dar e donar a’ buoni che il duono meritano, e da sé scazare tal gnatoni, buffoni e homeni vitiosi, e volere dai vertuosi e non da questi vitiosi fama e gloria expectare. Che ’l principo debe esser come il padre di fameglia, il quale ha moglie, fioli e servi e la casa debitamente governa, che la re publica è la moglie dal principo sposata, i ciptadini suono suoy fioli, la ciptà è la casa e i servi; che ’l buom principo debbe haver buona cura di la moglie quando è inferma che non muora, come il buom marito, e debbe studiar ai suoy mancamenti. E come il marito veste et adorna la moglie e non la lassa andar strazata, cussy debbe il principo la re publica ornare e non permetere che quella strazata sia, e, per somegliante, cura dee haver di la casa, che non piove, che non ruine, quella adornendo e substinendo, suplendo a’ suoy manchamenti, ai servy dare e donare, distribuendo tal duoni secondo i meriti e le persone, e in lo dare sempre haver mesura. E di questo nostro dire, biem pare esser manifesto come la liberalità è spetie di iustitia, il perché a ogni principo iusto apertiene esser liberale, non prodigo, adciò che le spese non sopravanzie la intrata, che, sopravanzendo, finaliter de liberale non divente avaro. E per tal liberalità i principi apresso li altri populi acquistano buona fama e gloria e suono dai soy meglio amati. Dico buona fama, che, dendo a’ buffoni e ioculaturi e a’ maldicenti e vitiosi, acquistano infamia et odio dai suoy e da’ li straney, che certo non so laudare quelli che fanno molti doni per acquistar fama vana da’ vani homeni, che il più de le volte ciò fanno per una obstentatione cha per voluntà e spesso per vergogna, adciò che dicti siano benefici, che certo è pur uno simulare, il quale è più coniuncto cum una vanità cha cum liberalità et honestà. E forsi vuy, preclari ciptadini, me acusate di tanto mio dire de la prodigalità, ma ciò facto ho il perché ho voluto ciascuno entendere dovere la mazor parte d’i principi essere o prodigi o avari, cussy ritrovendossene pochi che tengano il mezo, cioè che liberali veramente siano.

Dicessimo, apresso, il principo conve nire essere non meno magnifico che liberale, che la magnificentia consiste in l’operare come la liberalità in dare, che queluy è magnifico che fa le opere magnifiche. La quale magnificentia i principi prima dimostrar debbano inverso il culto divino, come a construere magnifici templi, ogni altra cosa al culto divino pertinente liberalmente e magnificamente adimpire e per somegliante ne la ciptà suoa fare, facendo magnifiche cose a sua perpetua fama e gloria pertinente, vivere, vistire magnificamente, e tal suoe opere magnifiche in li subditi suoy degni e che ciò hanno meritato extendere e communicare. Sì che certo non so laudare quello principo che veste troppo humilmente, siandogie tal vestire attribuito a parvificentia et avaritia. Ma pur dice Aristotile che, queluy che in tal opere magnifiche più expende che non porta la suoa facultà et excede la qualità d’i suoy rendidi, se nomina benasos, cioè fornace e fuoco, cussy mandendo el suo in fumo, che è vitio e non virtù.

Vole ancora il principo esser magnanimo, la quale magnanimità più resguarda lo honore cha le cose, il che biem nominar se può virtù di honor amativa, di la quale li extremi poneno philosophi esser pusilanimità e presumptione, che queluy chiamato è pusilanimo il quale per parvità di animo se smarisse in le gran cose; presumptuoso è quello che in le gran cose se intromette, quelle non potendo adimpire, i quali Aristotile nomina ventuosi, che la magnanimità sede fra questi estremi, repremendo la pusilanimità, moderendo la presumptione. È adonca la magnanimità circa i grandi honori e virtù, che da veruno, spetialmente da’ principi, non è più da esser dignificati i beni exteriori cha lo honore, cumcessia che questi tali beni siano instrumenti a conseguitar honore. L’uomo magnanimo se expone ai gran periculi e non perduona a la vita per conseguitar grande honore e fama, puoco extimando i beni exteriori E ciò maximamente fa quando intende per tal suo exponere la vita conseguitar cosa a Idio molto piacente, quale seria morire per la fede, o di extrema utilità a la sua re publica, come serebbe quella dal sacomano liberare. Questo cotale magnanimo è vero amatore di la verità, non ficto, non doppio, come esser debbe ogni principo di principato degno, il quale esser debbe buom exemplo ai soy populi, rendendolli veraci, e debbe sempre stare in dare e retribuire ai soy secondo loro meriti con liberalità, come dicto è.

Debbe il principo esser dil suo honore amativo, non però tanto che di quello dovente ambitioso, sì che il para tutto il fine suo ponere in essere honorato, ma sempre debbe esser desideroso di far cose di honor degne.

Vuole essere humile, cumcessia che ’l Signor dica: «Beati li humelly, d’i quale è il reame dil cielo», che biem a quello re celeste i terrestri conformar debbonse. L’huomo humelle in le cose sue honorifiche non cerca più honore di quello che vole la rasone, ma se pone fra la superbia e la deiectione, di la humiltà dui extremi, sì che repprime e dispresia la superbia e modera la deiectione, la quale nel vestire non moderava il principo padoano di sopra aricordato.

A la magnanimità gi è annexa la humiltà, che ’l magnanimo non estima né fa gran caso de le laudatione de li homeni. Chi adonca vole esser magnanimo conviene sia humille. Ma io comendo molto che ’l principo sempre tenga sì factamente il culto dil suo stato et in tanto honore che non cada in contempto d’i suoy populy.

Molto al principo conviene la mansuetudine, la quale è mezo fra la ira et irascibilità, che l’uno e l’altro extremo modera, che il principo per ira non debbe esser molto precipite a vendetta che para tal suo punire esser da luy facto per vendicarse, ma quelli tali delinquenti debbe cum mansuetudine corezere, che la ira, come dice Catone, in tal punitione alcuna fiata impaza il vero iuditio.

Alpertiene al principo esser amicabile, che la amicabilità è una benivola conversatione et è una vertù, la quale prepara tutte le opere de li homeni e il suo tutto parlare ad una honesta conversatione, la quale se puone fra la superhabundantia e defecto, che alquanti suono i quale se mostrano esser troppo amichevoli, come gnatoni, blanditori e troppo sotiali. Alquanti suono che da tal compagnia se ritragono, come i desviati, che suoli vadeno, e alquanti agresti e rusticali che con li altri huomeni né vogliono né sanno accompagnarse; sì che al principo apertiene sapere moderare tal extremi, che per troppa sua familiarità non cada in contempto e somegliante per farse troppo salvatico. Questa tale amicabilità spesso sole esser accompagnata di simulatione e di falsità, da le quale il principo più che puote ritraher se debbe, dico più che puote che certo, al mio parere, quello conviene spesso simulare per multi scandali evitare.

Se debbe il tuto degno principo enzegnare di essere verace, che la verità è virtù troppo degna, dove il Salvatore, di sé medesimo parlendo, dice: «Ego sum via et veritas». Questa tale reprime i manchamenti e modera la iactantia, che vidiamo li homeni partirse da la verità il più de le fiate o per troppo laudarse o per troppo vilirse. Ma più cha in veruno altro la verità debbe locarse nel principo, il perché la bosia più in lui despare, come la machia in lo più nobel vestito, che il principo è il spechio dil biem vivere d’i suoy populy. Né veruno certamente biem vivere può, nuomà coluy dil quale la verità è a la vita consona, per la qual cosa è summamente decente al principo attendere quello che ’l promette. Ma inanti che ’l prometta tal cosa, debbe prima biem masticare, adciò che, non attendendo, sia dai populi bosadro riputato, che certo le bosie in uno principo suono la morte di la sua bona fama.

Debbe il principo esser iocundo e iocundità ritrovare a tanti suoy affanny, che, come dicto habbiamo, l’arte debbe la natura imitare. Vidiamo che drietto tante fatiche havute da l’uomo il zorno, la natura haver introducto la nocte, adciò che in quella se riposse. Cussy anco debbe il principo fare drieto suoy tanti affanni di l’anemo, ritrovar qualche cosa che a quello iocundità e piacere daga, come uccellare, cazare o a qualche solacevole ioco iuchare, come di sopra è anco aricordato. E in questi solaci fa bisogno che se ebba sì a moderare, che quelli non ritorne in nocumento a la re publica suoa, che questa iocundità è una vertù da Aristotile eutropellia nominata, la quale ha a moderare i giochi, lo uccellare, cacciare e somegliante, et anco ha a corezere la paucità de ’quelli, che, se il principo a tal iocundità non se desse, seria dai populi non principo ma come agreste huomo riputato. E se debbe anco il principo guardare che tali suoy iochi non siano puerili, ma modesti e liberali, né suono tal iochi da esser riputati vanni quando cussy suono ordinati a buom fine, cioè in relevamento e recreatione di tanti suoy affanni, adciò che da puo’ si ritrove il principo più vigoroso et ardente al bene de la re publica. Ma se per tale recreatione se distrahesse da le bone opere, certo quello seria de reprension degno. E di questo luoco togliamo che le parolle iocose et facty iocosi non suono sempre da esser accusati, come spesso fanno alcuny agresti religiosi, che anco di Zuane evangelista se leze che con i discipuli suoy a certa hora dil zuorno iocava a trar cum l’arco, e ciò vedendo, uno rustico se meravigliò di luy, il perché enteso haveva di la sanctità suoa grande. E ciò vedendo Zuane in spirito, chiamò ad sé il rustico e dimandollo se tutto il zorno trar se poteria con questo arco. Rispuose che no. Dimandò il perché. Respose che ’l se rumperia o se snerveria. — Cussy — gie disse Zuane faria anco il corpo nostro se sempre stessimo in oratione —.

Apresso iungerò che i principi debbono discorrere le contrate di la ciptà, adciò che se rendino iocundi a tutto il populo. Apresso, che como boni padri di fameglia dezeno circuire, vedendo se la casa sua (cioè la ciptà) ha o no le mura, o in le strate, o in le case alcuno diffecto, se manazano ruina o somegliante, e quelli deffecti corezere dendo alturio a’ poveri et impotenti, e non circuire per vagezare e far despiacere ad alcuno suo ciptadino. E per tal casuone credo fosse introducto il cavalcare de’ segnori per le ciptà.

Dicea di sopra la eloquentia essere nel principo molto necessaria, specialiter quella che è da natura, che anco di l’accidentale, per arte acquistata, vole esser docto, a che ciò cum questa preclara e divina virtù seppa i populy suoy biem confortare a le cose necessarie e utele a la re publica e quelli consolare ne le suoe adversità, e quelli rendendoli animosi ad ogni altra cosa, e cum quella i seppa refrenare da le cupidità suoe inhoneste, da le suoe iracondie e somegliante cose, come cadde di zorno in zorno nei populi. E che cosa esser può di questa in uno principo più prestante cha cum una grande admiratione da quelloro che l’alde parlare esser riputato degno di principato? E che cosa più gloriosa esser in luy può cha sapere doctamente dimandare, più saviamente rispondere e in tal cose a generare di sé una grande admiratione apresso i populy suoy? Che certo li homeni e le campane suono per simel muodo laudati, li homeni per il suo dolce et elloquente parlare e le campane per il suo suave suono, che pur certa cosa è che il savio et eloquente parlare induce li auditori a meraviglia. Il che, biem pare questa eloquentia esser accomodata ad ogni cosa, imperò è nel principo necessaria.

Et a queste quatordexe conditione nel principo necessarie aiungo la quintadecima, la quale è grande ornamento de tutte le altre, rendendo a quelle apresso i populi gran splendore. E questa è la bellezza e formosità dil principo, che certo tal spetiosità rende l’uomo et ogni suoa cosa più grata assay che se bruto e disformato fosse, come di sopra è stato aricordato di auctorità di Virgilio: «Gratior et pulchro veniens de corpore virtus ». Ma forsi direte: chi havesse un tal principo se potria laldare di havere una cornachia biancha. E dove si ritroverà alcuno tale? Vi rispondo che forsi se ne ritroverà uno, e non senza gran casone tante cose suono in questo luoco aricordate. E se pur non havesse tutte queste conditione e havesse la mazuor parte e principale, cussy me pareria de non pensar altro nuomà quello in nostro principo elezere.

Voglio di le conditione dil principo haver dicto tanto, adciò che, essendo cussy biem aperte e dechiarite, la brigata seppa miglior electione dil principo futuro fare, che a tanto longo mio dire non mi ha conducto la doctrina d’i mey mazuori ma la imperitia d’i menori. Spiero di esser stato sì biem enteso in tal mio dire, che drietto di me serà qualcuno che ritroverà tal conditione in uno huomo, il quale non dubito a tutti piacerà —.

Drieto maistro Nigrisollo levavassi Antonio Gaio, il quale, levendosse cum una gran gravità, che pur de lettere huomo era, incomenzò a dire:

Prestantissimi mazuor mey, hora mi par questa tal nostra futura electione esser stata nel Senato vehementemente e cum gran lucidità aperta, sì che mi pare facilmente concludere che la mazuor parte concorra in questa sententia, molto meglio essere per la re publica nostra quella esser dovere governata per uno principo che per pluralità de’ ciptadini, in la qual sententia io concoro per le rasone le quale hanno composto quasi tutti vui. Et affirmendo tal sententia, dico più che biem guardare dobbiamo e con gran diligentia che nuy eleziamo uno principe di le conditione aricordate, biem docto e saltem de le piuosore e de le principale. E il perché mi pare esser stato dicto assay in generalle, hora mi par tempo che nuy descendiamo a le particularità. E non facendo altra mia scusa, cussy io incomenzerò, cum pace di tutti, aricordare uno in particularità, il quale secundo il mio iuditio, è di tal quindece conditione aricordate tutto ornato o saltem in gran parte e de le principale. Apresso che ha la sextadecima conditione, la quale a molti spiero dover piacere; apresso che ha una septimadecima, che mi rendo conto moverà li animi di molti a quello elezere in principo nostro.

Amantissimi mazuor mei, biem so esser stato aricordato che ’l principato dar se vuole per electione e vertù e non tanto per sangue, e questa tal sententia al presente non voglio riprobare, ma voglio biem questa laudare, che se tale electione nostra far potiamo per electione e virtù e per successione di sangue, che nulla di tale puote esser megliore. E rivoltendome adonca a la persona de lo illustre Borso, dil sangue d’i nostri principi passati, cussì me pare in lui ritrovare le qualità nel principo necessarie et aricordate apresso la successione dil sangue, sì che, facendo in luy nostra electione, parme, salvendo sempre ogni meglior iuditio, che quello in nostro principo elezer dobbiamo, che, discorrendo le conditione dicte, le quale da Aristotile son quindeci aricordate, io in questo degno huomo ne ritrovo dexedotto, como chiaramente entenderete. Il perché, adonca, è huomo che questo nostro principato e mazuor assay degnamente merita. Voglio adonca, cum brevità di parolle, quelle in vostro conspecto narrare, adciò che al luoco mio sia meglio e più degnamente satisfacto e che la brigata entenda se di ciò facto ho buom iuditio.

E seguitando l’ordine posto per il fratel mio mazuore, mastro Nigrisollo, incomenciarò da la prudentia suoa, la quale per il dir mio chiaramente se comprenderà. E prima dirò di la prudentia di quello circa il culto divino, che è la prima parte di la prudentia. Questui, havendo Idio in gran riverentia e la Giesa sua, come ognuomo estimar debbe, per suo exercitio spirituale ogni zorno dice l’ Offitio entegramente come se prette fosse, e ciò è a tutti vuy noto, che quello per nulla il lassarebbe. Apresso io revoco a la memoria vostra il grande alturio da lui dato a la fabrica dil monastiero dil Corpo di Cristo, il gran suo subsidio facto a quel di santo Augustino, nei quali luochi suono uno centenaro e mezo di verzene che zorno e nocte pregano Idioper il bene di questa nostra ciptà. Taceroglio forsi quello che continuamente fa a quelli devoty de Sancto Spirito religiosi; che per il bem di questa ciptà stanno in continua oratione? Suon forsi tal degne opere da esser dimenticate? O Ferara, quanto debito hay cum questo huomo, che ora è venuto el tempo de recognitione d’i tanti suoy benefitii!

L’altra parte di prudentia, che risguarda le cose temporale, a nuy chiaramente ne puote esser manifesta per la electione di lui facta dal prudentissimo Senato di Vinesia e da quello di Fiorenza insieme colligati, che essendo prima cum luoro, di anni circa dicesepte, suo conductore di cavalli tricento, cognoscendo tanta in lui prudentia suoa, la grande habilità ne lo exercitio de le arme, il suo animo magnanimo, non dubitorono di farlo capitano, di anni dicenove o circa, di cavally mille e dosento. Taceroglio forsi che’l stato nostro nel tempo de lo illustre Leonello fosse per luy in la mazuor parte governato, sì che essendo consueto di principare, certo cussy ne saperà meglio governare, che malgovernare sa chi non è usato di principare? Sì che questuy ha di ciò l’arte e la experientia, le quale nui tutti experto habiamo.

De la sua iustitia singulare voglio vi sian testimonii i vostri ciptadini, i quali erano cum luy in campo, che tutti stavano come religiosi per rispecto de l’altre compagnie.

Sua temperanza n’è manifesta in li acty suoy, cumcessia che in quelli serve modestia.

La forteza di l’animo suo anco quella entesa habbiamo nel tempo che in campo era.

La liberalità sua de zorno in zorno dinanti li ochy suoy dimostrata ne è per li doni facti ai ciptadini et a’ suoy famegli.

La magnificentia suoa bem dimostra in le magnifiche sue spese che tuttavia fa, et anco questa tale, come dicto è, dimostrò ne lo edificare di tal templi, ai quali gie fece cussy magnifico subsidio.

La suoa magnanimità dimostrò cum grande ardire quando era in facti d’arme, non temendo i pericoli per conseguitar honore.

Quanto il sia mansueto, quanto humele, quanto amicabele non mi pare esser di bisogno aprire, cumcessia tal cose esser a nuy tutti più cha manifeste.

Quanto sia iocundo et amabile nui il sentiamo, che certo non dico huomo tanto, ma non è femena né garzone che quello non ame cum grande dilecto, che forsi di la cha’ da Este non fuò mai uno tanto dal popul nostro amato.

Quanto sia eloquente, di la eloquentia naturale, quanto dil corpo spetioso, quanto verace non è necessario ciò provare, che, come dice Aristotile, la cosa per sé manifesta non ha bisogno di probatione. Infine voglio dire quelo che disse Homero di Priamo: «La formosità e beleza di Priamo degna è d’imperio» sì che a me pare in questo huomo essere le quindeci conditione di ogni degno principo.

Apresso habiamo la sextadecima e la septimadecima, cioè la beleza e formosità e la successione dil sangue in luy, che è la decima otava, et, apresso questa, di aricordo degna è la grande obligatione cioè che habiamo e la ciptà nostra a questo huomo per i benefitii da luy recevuti. Il che biem concludere potiamo che la electione di lui facta in nostro principo megliorare non se puote. Adonca in quella procediamo arditamente, senza scrupolo alcuno di dubietà, quello in nostro principo elligendo. Voglio tanto, cum pace di tutti, di tale electione dicto havere —.

In ultimo luoco se levoe Catone, al quale il Senato in gran parte dato gie haveva auctorità di tale electione fare, parendo di voler stare a la determinatione sua, sì che la brigata, cum grande expectatione e desiderio, stava attenta per entendere quello che di ciò luy dir volea. E cussy, levato cum una gran maturità, divolvendo gli ochy dintorno a tuto il Senato, incomenzò a dire:

Amantissimi ciptadini mei, biem facilmente entendo vuy haver posto sopra le mie spalle in gran parte questo gravoso peso, il quale certo prima molto mi aggrevava; ma quando da vuy enteso ho tante chiare e dimostrate rasuone, tante nobel persuasione, cussy de gravoso me facto molto leziero, spetialiter per quello che al presente dicto ha, e saviamente, Antonio al vostro conspecto, che certo, biem che sia di tutti vuy più antico, non mi vergognerò di dire che in me non è cosa di tal materia che da vuy non sia stata veduta e cum gran gravità expedita. Per la qual cosa mi pare che ormay fine imponer dobbiamo a tanto nostro disputare e pervenire a tanta gloriosa particularità per Antonio aricordata. Che, entendendo io tante e tutte le conditione in lo illustre Borso trovare, le quale suono nel digno principo necessarie, iungendo che dil sangue d’i principi nostri passati è composto, cussy concorro ne la opinion de Antonio che lo illustre Borso in nostro marchexe glorioso elezer dobbiamo. E tuty vuy confortar vi vo’ che far dobbiate, che, a tale electione fare, anco muover vi debbe le voce submisse che drieto da me aldo che dicono: — Borso, Borso, Borso —, e quelle che cridano in piaza, che pare dal ciel venire, che per fina i parette cridano: — Borso! —.

Et inanti che compito havesse de dire, incomenzuorono in consiglio cridare ad alta voce: — Borso marchese! Viva Borso nostro principo! — E, ciò aldendo, il populo che en piaza stava aspectendo tal determinatione dil Senato, per somegliante, cridare incomenzò: — Viva Borso!— E tanto era il gran stridore di tal voce, che tutte le contrate propinque di la ciptà resentiano tal rimbombo. Il che, putti, femine et ogni altra persona, chi per la contrata, chi a le finestre, cum vulti aliegri ridendo, cridavano: — Borso marchexe! Borso marchexe! —. E tutti di tale electione Idio ringratiavano.

E sedato che fuò tal rimbombo e gran cridare che l’aere sfendea, subito il Senato ellesse quatro ciptadini di grande auctorità, quelly drizendoli a lo illustre Borso per suoy ambassatori, il quale era a Belriguardo, distante da Ferara miglia octo, dove lo illustre Leonello haveva la vita cum la morte commutato, nel qual Belriguardo gi è uno palazo signorille e meraviglioso, il più bello che ebba in villa alcuno signore christiano. E per aprire suoa magnificentia dirò queste puoche parolle, che in la fabrica di quello, senza le opere manualle, spese il magnifico et illustre principo Nicolò marchexe aricordato centomillia ducati d’oro.

Il che questi ambassatory, il sequente zuorno, tutti vestiti di veste lugubre, andorono a Belriguardo, et essendo apresentati dinanti de lo illustre Borso, maistro Nigrisollo di Tullio, cum una gravità levendo gli ochy e risguardendo il ciello, sublevendo anco le spalle, en quelle strenzendosse, dimostrando il suo gran dolore, cussy incomenziò a dire.

Oratione ornata a lo illustre Borso

per li oratori de la comunità di Ferrara.

Pensato mai non havevemo, illustre Borso, cum tal lugubre veste e cum tanta nostra mestitia e gran dolore dinanti ad te comparer dovere, cumcessia che tuta nostra speranza fusse che lo illustre Leonello, tuo fratello e già principo nostro, dovesse per molty e molty anny a nuy viver dovere, essendo di tanta modestia di vita, di tanta benigna complexione cum il cuor suo caldo coniuncta, che tal cose per natura prometeno pur longità di vita; il perché biem speravimo luy dovere li anni dil padre tuo superare e piú lungamente vivere. Essendone adonca cussy subito da la morte dinanti gli ochy nostri ensperatamente tolto, è da credere ciò esser intravenuto per voluntà de Idio, il quale ha voluto l’anima suoa, che cussy gloriosamente ha vivuto, per i suoy degni meriti, quella nel suo glorioso sino collocare e quella perpetuamente felice rendere e non più lassarla in subiectione di la fortuna. Che certo pur troppo misera cosa è sempre stare subiecto a quella, spetialmente i principi, i quali sempre viveno in gran timore di la fortuna, la quale spesso rende de felice infelice per sua tanta instabilità, invidia e crudellità, che creder anco dobbiamo per tal suoa morte Idio haverne voluto dare tanta alegreza, che, Idio laudendo, dir potiamo: Benedictus ipse qui in Domino mortuus est». Che pur da credere è ciò esser vero, quello havendo tolto in suo felice stato, che, como dice Seneca morale: « Quando la vita di l’uomo è felice, alora la conditione di la morte suoa è optima». Che, drieto di quella, cussy conseguita eterno e glorioso stato, che cum gran gaudio ciò de lo illustre Leonello tuo creder dobbiamo, havendo luy lassato di sé tanto felice nuome e tanta gloriosa fama. Il perché ognuomo il predica beato, che la buona fama di l’uomo, cussy da tutty populi commendata, may non suole mentire. Essendo adonca tanto pianto Leonello et alamentato, lassendo drieto sé sì glorioso nuome, e spetialmente da li homeni prudenti e virtuosi, non è da dubitare quello essere in paradiso, da Idio segniore posto e facto principo glorioso in ciello, che certo non è a’ principi cosa più prestante, né da luoro esser più desiderata, come il glorioso suo nuome, che tal splendor di gloria e di nuome molto più reluce nei principi cha in li altri homeni. Non è adonca da nuy esser pianto, né de suoa morte dolere se debbiamo, e spetialmente, essendo cussy felicemente morto et havendo per tal suo beato vivere ricatato tanto buono albergo, che a luy doverebbe esser intravenuto come a ciascuno il quale lietamente muore, che quelluy iocundamente more, il quale se sente haver menata vita buona, cioè a Idio piacente. Per le qual cose, illustre Borso, ti sapemo confortare de la morte dil tuo caro fratello, cussy alegrar ti debbi e non tristarte et ormay astergiere li ochy tuoy da tante lacrime dolorose e quelli far gietare lacrime di alegreza, cussy entendendo quello ne le sedie eterne regale come degno principo esser collocato; che pur proprietà è dil savio huomo come tu sey de non più dolerse de la cosa suoa quando è perduta, quella cognoscendo non esser più recuperabile.

Siamo adonca ad te venuti adciò che da li ochy nostri ebbi ancuora a scazare tante lacrime di dolore e quelli riempire di lacrime di dolceza, che ciò fare lievemente poterai se il tuo volere uniray con il nostro. Siamo ad te venuti con il cor pio e vero, supplichendoti che a questa nostra imsperata iactura e gran piaga cum la tuoa sancta medicina soccorrere dignar ti vogly. E per quella da te obtenere, mandati ti siamo ambassatory et oratori dal popul ferarese, sperendo quella da te lievemente obtenere, la quale è che sopra le spalle tuoe poner vogly la bachetta dil rezimento di Ferara, la quale biem cognosciuto hanno per lo passato tu in gran parte portata e substenuta havere, che se rende certo che tanto amore e la grande affectione che a quello hay, ti farà quella facile e lieve a substenere. Il che, concludendo, ancuora ti supplichemo cum ogni nostra forza e dolceza di cuore, quello che domandemo negar non ne’l vogly, adciò che, cussy essendo tu facto nostro principo, ebbi a scaciare ogni moerore dal cuor nostro e mundare li ochy nostry da ogni lacrima dolorosa, che certo nulla medicina di la tuoa megliore trovare non ha saputo. E, repplichendoti, supplichemo ciò far vogly volentiera, adciò che in consolatione et alegreza tiecho viver possiamo in perpetuo. Ad laudem dei. Amen —.

Ornata responsione de lo illustre Borso a quelly.

Non mi rendo puoco obligato, prestantissimi ciptadini, a quella re publica nostra, che in tanto mio dolore e mestitia se ebba dignato di mandarme per ambassatori cussy facti venerabili e sapientissimi homeni e di tanta reputatione come vuy sette, venuti ad me più per consolarme, non tanto cum dolce parolle, ma ancuora cum una grandissima offerta quanta è quella dil governo e dil principato dil stato di Ferara. Ma non potendo per tanto mio gravissimo dolore e continuo fluxo di lacrime, come biem comprendette, rispondere a vuy cum quella longeza e dignità di parolle le qualle in questo caso seriano ’necessarie, cussy ad me darete perdono se cum puoche me asforzerò in qualche parte al debito mio satisfare. Il che, in prima, di ciò referisco gratie grande, tutte quelle che posso, a Idio mio del tutto segnore; referisco ancuora gratie non piccole a quella magnifica re publica et ancuora a vuy, spectati ciptadini. E non potendo io più parlare, vogliati, pregove, di queste mie puoche parolle star contenti e quelle cum grato animo ricevere. Questo peso che vuy me confortati sopra le spalle mie ricevere, io di buom core assumere il voglio per satisfare a tanto amore e suo desiderio quanto quella magnifica communità in verso di me dimostrato ha, adciò che mai dicto non sia di tanto benefitio me esser stato ingrato, apresso che non se dica che per pusilanimità io quello negleto ebba. Sì che, come desideravi, ritorniate alegri e cussy tutti di ciò ralegrar faciate, che vi prometto non temerò fatica alcuna per satisfar al bene di quella re publica, sforzendomi di superare tutty li altri si— gnor mei passati in quella bonificare, riccomandendome sempre a quella magnifica re publica vostra.

E tolta la debita da luy licentia, partivasse li ambassatori, ritornendo a Ferara.

E congregato il Conseglio, cussy referirono la gratissima risposta de lo illustre Borso, e quanto gie fosse dolce e iocunda manifestò le dolce lacrime e vere che dai cori di tutti veniano, che, e piccolo e grande, per alegreza, da pianzere contenere non se potea. Né prima fornita fue tal suoa risposta, che subito le voce incomenziorono l’aere sfendere e il ciello penetrare, gridendo tutty ad una voce: — Borso, Borso! — Alquanti pur in zenochiuni se ponevano, alzando le mane e gli ochy al ciello, Idio sempre rengratiendo, pur dicendo: — Te Deum laudamus —, sì che tutta Ferara dil nome di Borso rimbombava.

E sedato tanto rimbombo e strepito, aluora il Senato ordinò certi offitiali, i quali havesseno per lo zorno sequente ad ordenare il modo che tener se doveva per andar in contra a lo illustre Borso e quello in pallazo d’i segnori usato condure. Il che, ordenoreno che i fanzulleti prima muover se dovesseno cum rame di oliva e zoglie, e quelli seguitar dovesseno le Arte tutte cum i confalloni; i zintilhomeni montar a cavallo e incontra di quello andare. E ciò fuò facto, che tutto il popullo, il sequente zorno, da può manzare, se movette et andarono per fina a san Zorzo, fuora di la terra una balestrata, dove zunto era lo illustre Borso cum i zintilhomeni; et in questo deponete la vesta negra che per il fratel portava e vestite una rossa d’oro, de principo degna, cum una beretta da principo. Montò da puo’ a cavallo sopra un caval bianco come armelino, cussy quello seguitendo i zintilhuomeni et anticipando i fanciulletty, seguitendo il resto dil populo. Entrava adonca lo illustre Borso cum tanto populo e ordene dentro da la terra, ma pur, il perché ancuora il dolore di la morte di Leonello occupava le viscere de alquanti, quelli cussy senza strepito se movevano, ma fanzuletti e il resto di la brigata, sfendendo l’aere, frequentendo le voce, cridavano: — Borso, Borso! Viva Borso marchexe!— chi dicea: — Benedictus qui venit in nomine Domini. Osanna in excelsis —, chi altre somegliante parolle pur di grande alegreza, che tal voce certo mai non manchavano. E pur lo illustre Borso cum gran gravità la brigata seguiva, come prudente, il quale ancora haveva il cuor adolorato per la morte dil caro fratello. E cussy, seguitendo il populo, pervenia cum grande admiratione a la giexia Katedrale, che certo pur era cosa stupenda a vedere per le contrade tante persone, e femine e homeni e fanzuletti, similmente per i balchoni. E vedevi molte matrone, chi dar una goltata, chi tirare, e forte, i capilli per fina a lacrimare a’ suoy fanzuoletti, dicendo: — Aricordate che ozi, che è Zobia, fece la intrata miser Borso dil marchionato di Ferara —.

Or ritorniamo a luy. Zonto che fuò a la porta principale di la giexia Katedrale, lì desmuontuò da cavallo et accompagnato dal vescovo fuò cum gran multitudine di pretti e d’altra gente per fina a lo altaro grande. E subito lì zuonto, se ponette in zenochioni, et elevate le mane iuncte e gli ochy inverso il ciello, rendendo a Idio sempre gratia di tanto suo duono a luy dato, fece a quello tale oratione.

Devota oratione de lo illustre Borso al summo Idio.

— Segnuor mio Iesù Christo, unico e vero di tutty refugio, vero padre e conforto d’i sconsolati, da cui prociede ogni bene et ogni duono, ad te vengo, ad te mi riduco, supplichendote che di me peccatore misericordia haver ti degni e dil tuo sancto lume illuminarme, adciò ch’io possa e seppa d’i tanti benefitii e de exaltatione, quanti non per mey meriti ma per gran gratia toa prestato me hay, farme buon riccognitore. O Signuor mio, che facto ti ho che di me tanto memorioso facto sey, io che son uno vermicello e gran peccatore, che non sum altro che polvere da esser gietata al vento? E il perché, Signore, voluto me hay tanto exaltare e tanto duono dare? O Signuor mio, ad te oratione facio, che di— gnar ti vogly tanta mia exaltatione, a la quale nel presente chiamato me hay, che sempre sia a tua laude e gloria sempiterna et a salute di l’anima mia, e per lo bene dil stato dil populo di Ferara e di tutti li altri che cussì subiecti ad me esser voleno. Et aciò che tal cosa più felicemente adempir puossa, te supplicho, Signuore, cum humil cuore degnar ti vogly armar il capo mio di una armatura forte di iustitia e ponermi in bocha di la verità la dignitade, nel cuore misericordia e pietà e farme cum gran mansuetudine vivere cum i populli, i quali statuito hay ad me esser subiecti. E ciò far vogly, supplichotte, per la gloriosa intercessione di la Madre tuoa sanctissima, mia divota, la quale cussy per me interceder degnar ti voglia. Amen.

E subito drieto tale oratione, si rivoltò a la Nostra Donna, a quella in questo modo facendo oratione.

Giocunda di lo illustre Borso oratione a la Nostra Donna.

Gloriosa e dulcissima Verzine Maria, madre d’i peccatori e vera consolatione d’i sconsolati, vera speranza di cui in te spera, ad te io peccatore e per i peccati miei sconsolato mi riduco, vera speranza mia, ad te facendo oratione e supplichendote, per quelle septe alegreze che dil tuo sanctissimo fiolo havesti, dignar ti vogly effundere, per me peccatore e servo tuo divoto, dolce et efficace pregiere in conspecto dil tuo dilectissimo fiolo, che di tanta mia alegreza et exaltatione mi faza buom ricognitore, non mi lassendo in tal mio principato, che luy dignato se ha di prestarme, caminare per la via de li erranti ma sempre per quella dritta di la iustitia, quella administrendo cum misericordia, a suo laude sempre et in salute di l’anima mia et a iocundo vivere d’i populi ad me subiecti. Amen.

Levato che fuò in piede, havendo facto il condecente onore al vescovo et a tutto il populo, se puose a sedere sopra una katedra, ornata come a principo deceva, sedendo il vescovo sopra la suoa. E da poy, quietato che fu il rimbombo dil populo, lo vescovo se levoe e luy ancuora; dapuoy se ponette in zenochioni dinanti l’altaro cum grande humilità, trazendosse la beretta. Et aluora incomenziò il vescovo cum molte oratione quello benedire, dendogie in l’ultimo di l’acqua sancta; dapoy se ponette insieme cum il vescovo a sedere, ciascuno su la catedra suoa. E cussy, stendo dinanti da quello, se gie apresentorono il Giudice e Savii de la ciptà. E factogie il conveniente honore, Augustino da Villa, il quale era d’i Sapienti Iudice nominato, incomenzò, inverso di quello in questa forma orare.

Oratione dil Iudice de’ Savii allo illustre Borso.

Quanto gratissima stata sia a tutto il popul nostro la tua felice electione, illustre Borso, il qual mi par degnamente nominar potere nostro principe e signore, e quanto quella dolcissima sia, non mi pare che faticar me debba a quella per rasone ad te dimostrare, cumcessia che biem me ne avedo tu facilmente ciò comprendere per la iocundità et alegreza grande, la quale de le faze de tutty nuy uscire cum gli ochy vedi, che certo è pur vero che le faze dimostrano la qualità dil cuore. Ma pur dir voglio tanto, che a questo populo tutto pare al suo gran dolore per la morte de la felice memoria di Leonello havuto, non haver potuto più felice medicina di tal tuoa electione vi trovare, la quale fosse stata sufficiente unguento a tal nostra piaga consolidare. È adonca apresso nuy tutty questa gran speranza come un gran tesoro apresso di nuy reposto, che questa nostra re publica, per la consueta tuoa iustitia, serà sì biem recta e governata, che in questa ciptà nostra ciascuno viverà quiete, pacifice e beatamente, e che per lo tuo felice principare serà Ferrara beata dicta. Il perché speriamo, per lo tuo iocondo e beato rezere, che de molti gloriosi ciptadini de le altre ciptà veranno a questa habitare, che certo non è cosa che renda le ciptà tanto beate quanto fa la iustitia in quelle observata, che faticar non mi voglio ad te quella persuaderte, cumcessia che per longa experientia veduto habiamo tu quella sempre honorata havere, che certo non è cosa in li principi di quella più prestante né esser può. E che cosa è apresso il principo più dolce, né di quella più delectevole esser puote, cha esser da’ suoy ciptadini biem amato? Questa è quella vertù la quale tira cum grande amore i populi ad amare i principi suoy. Che bisogno è che in laude più di quella discorra, rendendo l’uomo che iustitia aministra cussy accepto in ogni gente, che pur certa cosa è che non è opera humana a Idio più acceptabile né più grata de la iustitia, cumcessia che luy è summa iustitia? Amar adonca vogli quella, come speriamo tu far dovere, e come sempre facto hay —.

Et, estendendo la mane, dicea:

— Tuoy, adonca, illustrissimo principe nostro, questa bachetta di iustitia e di la segnoria di Ferara e dil contato, la quale ad te do in nome di questo populo che te creato ha suo glorioso principe e vero segnore, cussy manifestendo per quella il dominio di questa ciptà, al quale tutto il populo ad una voce, nemine discrepante, cum gran gaudio chiamato ti ha; che biem te prego e supplico, segnuor nostro, che questa faci per tutto il mondo sì relucere, che sia come uno dolce e glorioso richiamo, chiamendo i populi de le altre ciptà a venire ad habitare Ferara come casa de iustitia e di pace. Ad laudem Dei. Amen.

E tolto che ’l ebbe la bachetta in mane, cum una gran modestia e gravità, cum gran reverentia se ponete in zenochione, rivoltendosse al tabernaculo di l’ostia sacrata, cussy a Idio rendendo sempre gratia di tanto suo stato e benefitio da quello ricevuto. Dapuoy se levoe in piedi e cum gran modestia e riverentia rengratiò tutto il populo. Il che, il populo tutto, a quello facendo honore come a suo segnuore, levoe la voce in alto, tutty cridendo: — Viva il marchese Borso, nostro felice principe e signore! E cussy, compagnato dal vescovo e da la chierexia, cuin gran multitudine di persone se mosse, pervenendo a la reza mazuore, dove lassato haveva il cavallo, cussy dal populo capezato. E zunto che fu a la porta, tolta cum gran riverentia licentia da quelli che accompagnato l’avevano, a cavallo montuono per più suoa dignità che non haveva nuomà a passar la piaza. E, come arrivato fuò a la scalla dil pallazo d’i marchexe passati, dismontuò dil cavallo, il quale fuò posto a sacomano dal populo, come è di costume in tal caso fare. E in questo tempo ascendete le scalle, pervenendo a la camera, in quella per certo tempo ripossendosse, come honesto era et anco di bisogno per tanti affanny e fatiche in quel zorno ricevuti, e di anima e di corpo. E gietato sopra del lecto incomenziò a dare certi ordeni, pur per la re publica suoa utelli et honesti.

E per dare più consolatione e gaudio a questo populo di questa felice e nova creatione di tanto segnuore suo, pur mi ha parso cussy in brevità ricapitulare le magne et adorne e necessarie conditione, le quale in uno principo se rechiedono a compimento di quello, nel Conseglio aricordate, adciò che ’l populo tutto biem entenda di quanto principo è questa nostra ciptà dignificata. E questo il perché tutto il populo non fuò al Conseglio, sì che quelle aluora audire non puottè, che certo mi rendo quelle repplichare et in brevità daranno gran dilecto a li auditori, non rendendo tedio alcuno, che pur spero di aiungere qualche cosseta a quelle di laude e di honore dil principo nostro, che seranno casone di accrescere l’amore dil populo a quello.

E seguitendo l’ordine in Conseglio narrato, incomenzerò da la prudentia, pur in brevità expediendo, pigliendo la prima parte di quella, cussy rivoltendome a tutto il populo come persona montata in bancha in mezo la piaza. Bem so tutty vuy fratelli mei haver inteso i magni e grandi benefitii circa il culto divino da luy facty e sì al monastiero di sancto Augustino come al Corpo di Christo et a’ frati di la observantia di San Spirito. Non debbo io ancuora aiungere quel suo secretto magnifico, nel pecto suo per fino a hora riservato, di fondare zioè una nobele Certoxa, che subito, creato che fuò segnuore, quello a suoy revellò, dicendo volergie spendere ducati cinquanta millia ne la fabrica di quella e di rendida dargie ducati mille e cinquecento, e cussy ordenò che a tal suo magnifico pensiero principio dato gie fusse. Il che, ellesse ad tanto edifitio superstite duy notabeli ciptadini suoy, messier Nicolò dal Varro, doctore, e Bartholomeo dai Carri, homeni certo prudentissimi e di grande enzegno e non di menor diligentia ornati, i quali subito elesseno il luoco di la fabrica e bel sito, dendo ordene a le altre cose per quello edifitio erano necessarie. O Ferara, quanto di laude degna sey, havendo voluto esser grata d’i tanti magnifici benefitii da questo huomo ricevuti! Che havendo luy, come diremo, decesepte conditione di vero principo, questa obligatione è tanta, che biem reponere la debbi in luy cum le altre, facendo la decima otava, come dicto è, sì che in questo huomo ne vi trovy tre più di quelle che Aristotile e li altri philosophi connumerano in ogni degno principo. Il perché biem poy star contenta et alegra e Idio rengratiare di tanto tuo degno principo, che pur dirò, cum pace de le altre ciptà, non si ritrovare veruna altra esser da uno sì degno principo segnorezata. Taceroglio luy ogni zorno dir l’ Offitio come prette e quello mai per nulla lassare. O quanto degnamente questa prima parte di prudentia è da lui in execution mandata! Passo a la siconda, la quale anco in lui reluce, cumcessia che nei facti de la re publica sia solerte, cum tanta sollicitudine vogliendo ogni minima cosa particulare passare per il suo scrutinio, adciò che ogni tale sia cum rasuone expedita, sì che non vole alcuna cosa passare senza buom conseglio, cautione et experientia. E di ciò chiari stati siamo nel governo che luy con lo illustre Leonello per lo passato facto ha. Quanto sia suoa iustitia manifestamente se vede, che in li suoy rescripti sottoscrive Fiat ius, cussy admonendo continuamente il podestà che rasuone ardentemente dar debba. E per fare che la iustitia ebba in tutto luoco, cussì ha constituito uno Syndico generale per tutty i luochi suoy, homo prudente, doctore venerabile e biem litterato, messer Ludovico Cocapane da Carpi, il quale ebba tutty i luochi suoy circuire, a ciò che cum tal timore tenga li offitiali in freno, sì che non ardiscano di lassare il caval suo scapuzare. Quanta sia la temperantia suoa, manifesto ne è di zorno in zorno ne le suoe modeste operatione. La forteza suoa, quella, quando in campo era, cussy dimostrò. Ma de la liberalità suoa grande non dimando altro testimonio che vuy, che, facto che fuò segnore, tutti quelly che gie dimandò in dono, a veruno denegò la suoa dimanda, in modo che ad me parea che fusse di prodigalità grandemente di esser accusato. Che biem son vero testimonio, che la sera, a cena ritrovandome con luy, me disse: — Certo mi doglio assay che veruno non ebba havuto tanto ardire che me ebba in dono dimandato la mia guardarobba —. Volea dire che d’i biem de la fortuna facea puoca extima, pur che a’ suoy ciptadini se facesse benivolo e liberale. La magnificentia suoa dechiareno i gran duoni facti a li monasteri dicti, la grande e magnifica spesa in casa suoa sempre usata, e quella che al presente statuita ha, volendo tenire quattrocento cavalli, famegli, cani et occelli in gran copia e tante magne provisione dare, che deliberato ha Zuan Galeaz, uno signor di Faenza, messer Alberto, uno d’i segnur di Carpi, messer Antonio, uno d’i segnur da Corezo, per suoy cari compagni havere e non solamente quelli provisionendo, ma anco molty nobel suoy ciptadini. Non mi extendo a la sua magnanimità et humilità, il perché tutty vuy ne seti buoni testimonii, havendolo più fiate veduto cum una grande mansuetudine a pregiere di una vile feminuzulla esser in la via retenuto, a quella prestendogie cum grande humilitá le orechie.

E il perché le altre dotte di natura al principo necessarie vi suono manifeste, per non venirve in tedio dil mio longo sermone, imperò quelle lassendo, mi rivolterò a la eloquentia suoa naturale, e parte per longo suo exercitio come per arte acquistata. E biem che per maestro Nigrisollo di Tullio di quella a pieno dicto sia, niente di manco in questo luoco a quella adiungerò di lui queste poche parolle: puochi principi ritrovarse, e forsi veruno, a cui tanta gratia de dire per natura concessa sia quanta a luy. E come posponerò tanta suoa spetiosità, certo di principato degna, come disse Homero di Priamo: «Speties Priami digna est imperio?» Che pur mi ardisco di dire che, quando la natura quello produsse, cussy volse produre uno corpo di principato degno. Sì che biem facilmente concluder dovette vuy Feraresi e tutty i populi a lui subiecti de expectare da luy uno salubre e felice rezimento —.

In questo tempo mezo, consegliato con i suoy fidelli e iusti consiglieri, fuò deliberato de mandare una nobel ambassaria al Summo Pontifico, a quello notificare tal suoa gloriosa electione, supplichendogie che quello per auctentica suoa Bulla confermar degnar se volesse, il perché Ferara è di la Giesia camera, a lo imperio di la Giesia romana sottoposta. E facto il scruptinio, di molti ciptadini di tal ambassaria degni, elessero Marco, Mario, Antonio e Scipione, quatro d’i più notabeli ciptadini di Ferara, ai quali fuò imposto che tal zuorno drizar dovessino il suo camino inverso Roma, essendogie prima biem proveduto di danari e lectere di cambio, famegli, spenditore e di cavalli posti biem in ordine. E cussy cavalcorono.

Lassiamo quelli caminare e ritorniamo al principo, il quale dì e nocte stava studioso e sollicito, spesso perdendo il sonno per vacare a le provisione necessarie et utelle per la suoa re publica, che, vedendo il populo tanta suoa sollicitudine e diligentia circa il bene di la republica suoa, cussy stava di tal principo suo troppo contento et aliegro, fra luoro dicendo: — Idio glorioso dato ne ha tal principo quale desideravimo tutty —. Il perché refferivano gran gratia al Dio.

Lasseremo adonca qui per uno spatio il rasonare dil principo e di suoa cura circa la re publica e quello che ’l populo de luy dicea e sì se rivolteremo al mazo de li ambassatori, i quali, come zonti furono a Roma, cercono cum gran diligentia di potere exponere la suoa ambassata dinanti il Summo Pontifico, in publico Concestoro. Il che, per monsegnore di San Marco dito gli fuoe che domane venir dovessino, che gratiosamente seriano auditi.

Venuta la maitina, andorono al palazo e qui, introducti per el cardenal di San Marco, cussy essendo a la presentia dil Papa e di tutti i cardenali, datogie il luoco di exponere la commessa suoa ambassata, Antonio di Tullio, posto in zenochioni cum il capo discoperto, incomenziò in questo muodo orare.

Suavissima oratione al Summo Pontifice

exposta per li ambassatori feraresi da lo illustre Borso mandati

— Et avenga siamo indegni ambassatori, Beatissime Pater, di comparere dinanti la sanctità tuoa et in tanto dignissimo conspecto effundere la nostra debele et insipida oratione, pur confisi di la humanità de la sanctità tuoa, sempre inverso i toy servi usata, cussy biem sperato habiamo nuy indegni ambassatori di quella comunità tuoa, gratiosamente audir doverne, la quale assay humelmente se raccomanda ai pedi de la sanctità toa. Sapiamo bene, Beatissime Pater, tuoa sanctità haver inteso la morte di quello illustrissimo fiol tuo, già nostro principo, a questi zorni passati; per la qual cosa quella comunità, vedendosse essere rimasa come membri senza capo, et essendo tanto desolata, cussì recercuò de remediare a tanta suoa perzeda e qualche buom medicamento a tanto suo dolore ritrovare, per la quale rimasta era come cosa morta. E facendosse cum ogni suo studio circumspecta per quello ritrovare, a ley parso ha non haver potuto medicamento più suave, né più dolce a quel suo tanto affano trovare, quanto stata è la persona de lo illustre Borso, d’i marchesi da Este nato, che, come il nome suo gie fuò aricordato, amantenente di morta se fece viva, cussy sentendo ogni suo dolore dal cuore suo esser partito et essere in luoco di quello entrato una grande alegreza, e spetialiter, entendendo luy chiaramente havere tutte le conditione che ad ogni degno principo se richiedeno. Che oltra di ciò, se levò il popul tutto cridendo: — Borso, Borso! — Ciò vedendo quel Senato e comprendendo quanto luy oltra la prudentia suoa e le altre virtù, docto et experto era nel principato, sperendo la re publica da luy esser sapientemente recta e governata, cum queste vive voce populare, cussy anco, viva voce, senza alcuna discrepatione, lo elessero per suo principo. Per la qual cosa ancuora humelmente supplichemo, cum tutte quelle pregiere e forze che da nuy expectare poy, che questa electione, a quel populo tanto grata e facta cum tante voce, tua sanctità degnar se voglia quella cum tuoa auctorità confermare, sempre a laude de Idio omnipotente e di beati apostoli Pietro e Paulo et a tuoa gloria immortale, significando a tuoa segnoria veruna altra cosa di questa più grata, quella comunità, ad te cara tanto e fidelle, da te expectare non potere —.

Giocundissima a quelly dil Summo Pontefice risponsione.

E finita che fuò la oratione de li ambassatori, il Papa rispose, dicendo.

Ornatissimi ciptadini e fideli nostri dilecti, habbiamo bem entexa cum grato animo la luculente et ornata oratione vostra, rispondendove prima che quella nostra dilecta comunità ne è sempre al cuore, cum gran riccomandatione affixa. Secundariamente, ve diciamo la morte di quello nostro fiolo esserne stata a nuy gravissima, ma havendo tal suoa morte a Idio piazuta per lo suo biem vivere, anco a nuy non ne debbe despiacere. A quello che diciti de la electione, vi rispondemo che quella non vituperemo, ma di la confirmatione di quella vi reduretti dal fratel nostro misser de San Marcho, il quale ve farà la risposta di ciò necessaria, sì che da mo inanti vi havete a lui redure per quella havere —.

Passati adonca che fuò quatro zorni, se redusseno al cardinal del San Marcho, il qual gie fece tal risposta:

Il nostro Signore e tutty nuy cardinalli recevuto habbiamo grande alegreza di la creatione di quello illustre signore, e luy e nuy l’abiamo molto comendata, dicendo fra nuy quella comunità non haver potuto per il suo bem essere più degna, né migliore electione facto havere, per la qual cosa, per compiacere a quella comunità, statuito ha nostro signore quella degna electione cum la Bolla suoa d’oro, cum lieto animo, confirmare. Ma il perché, per molte occupatione che questa preciede convegniristi qui far luonga dimora e gran spexa, vi conseglio il ritornare a Ferara, dicendo a quel fratel nostro e vostro segnore che per lo presente e per lo advenire io voglio che veramente creda che io me constituisco suo buom defensore, e in ogni altra cosa a luy pertinente, la quale in corte se habia ad agitare, esser suo buom scuto e procuratore, e che cussy creder voglia e non altramente, il perché luy sa la longa et inveterata amicitia nostra esser stata sempre ferma fra nuy, e che certo se renda che lo amo di buom cuore, e quello confortatillo da mia parte —.

E il perché havevano in mandatis de obedire a tutto quello che monsegnor di San Marcho i consegliava, cussy se disponeteno di ritornare a Ferara.

Lassiamoli caminare e in questo tempo mezo diciamo quello che a Ferara se facea.

Lo illustre Borso tuttavia, cum gran studio e vigilie, sollicitava le cose utele et honorifiche di la re publica, e cum quello sempre stavano gran multitudine di zintilhomeni a disinare et a cena, ricevendo luy de quelly e quelly de luy gran piacere. E non solamente di tal suoa creatione se alegravano i suoy, ma anco i circonstanti vicini, principi, segnuri e segnorie. Il perché il Senato di Vinesia gie manduò quatro nobeli zintilhuomeni, in quello molto riputati, secondo sua usanza vestiti di veluto cremesino, capuzio e vesta longa per fino a’ pedi di varo fodrata, in muodo de’ doctori, quelli di la morte di Leonello dogliendosse e realegrendosse cum luy di suoa tal felice creatione. Il somegliante fece lo illustre duca de Millano, lo illustre duca de Urbino, la comunità di Fiorenza, il segnor d’Arimino, quello di Cesena, il segnuor di Faenza e quello da Imola, la comunità di Modena, quella di Rezo, i segnori da Carpi, quelly da Corezo, tutte le comunità de’ castelli a luy subiecte, che certo era per tanta multitudine de persone nobele e de dignità Ferara piena, che me parea veder un’altra Roma quando di stato fioriva, che certo non manchava le ambassarie da ogni canto, che pur tutti conveniano in quello che dicto havevano li ambassatori di Venesia, dogliendosse zioè di la morte di Leonello e alegrendosse di la sua creatione.

Ritorniamo a li ambassatori, i quali, zonti a Ferrara, exponeteno l’ambassata suoa, dicendo come erano stati biem veduti e gratamente auditi e come per conseglio de monsegnore erano partiti e cussy speravano per fina a pochi zorni le Bolle dover essere portate.

E qui finisse il glorioso progresso de lo illustre Borso al marchionato di Ferara.