Francesco Vettori

 

SOMMARIO

DELLA ISTORIA D’ITALIA

1511-1527)

 

 

 

Edizione di riferimento

Francesco Vettori, Scritti storici e politici, a cura di Enrico Niccolini, Bari, Gius. Laterza & figli tipografi  Editori • Librai 1972

 

 

 

EPISTOLA DI FRANCESCO VITTORI

A FRANCESCO SCARPI, SUO GENERO,

SOPRA IL SUMMARIO DELLA ISTORIA SEGUITA IN QUINDICI ANNI.

 

[8r] Sogliomi qualche volta maravigliare, Francesco carissimo, e dannare la oppenione di alcuni uomini i quali, o per essere reputati dotti o per qualsivoglia altra causa, biasimano e sprezzano quelli che istoria, o qualunque altra facultà, nella loro nativa lingua scrivono. Né perciò sono io sì temerario, che non indichi che siano da lodare et ammirare quelli che ottimamente in lingua latina compongono. Ma questi sì rari sono che, a mio iudicio, fanno molto meglio coloro che, non volendo fare esperimento di sé stessi in cosa tanto difficile, nella loro propria lingua scrivono. In che sono imitatori di Iulio Cesare, d’Ottavio Augusto e di Crispo Salustio, li quali non in greco, ma in latino composono; sì come ancora fece Marco Tulio, li cui libri tanto sono letti e celebrati, e così tanti altri degnissimi autori, li quali del continuo noi con ammirazione leggiamo.

Onde, trovandomi questa primavera alla villa ozioso, pensai di scrivere non intera et iusta istoria, ma brieve et eletto sommario delli successi dal fine dell’anno MDXI insino al principio del MDXXVII in Italia, quantunque cognosca non essere possibile non parlare ancora di quello che è occorso fuori d’Italia perché le cose, delle quali si tratta, sono in modo collegate insieme, che male si può scrivere di quelle d’Italia, omettendo l’altre interamente. E certo in questi quindici anni si sono trattati negozi importantissimi e da considerare in essi la varietà della fortuna.

Et a te tale libro ho voluto mandare, non solo perché ti amo e perché mi sei genero, ma ancora perché conosco che ti diletti assai di leggere libri e latini e toscani. E, benché io non abbi scritto con quella eleganzia e forse diligenzia che si converrebbe, voglio nondimeno pigli, in compenso di questo, che ho scritto con verità, et essendo stato alieno da ogni assentazione et avendo in modo fuggito il sospetto di essere tenuto adulatore, che dubito di non avere errato. Però che essendo accaduto fare menzione di Paulo mio fratello, uomo e prudente et animoso, la ho fatta tanto parcamente, quanto mi è suto possibile; similmente di Lodovico Canossa, veronese, già vescovo di Tricarico et oggi di Baiosa, il quale è così nobile, buono e degno prelato come ne abbi conosciuto un altro; così di Filippo Strozzi, perché è noto quanto mi sia amico, non l’avendo commendato dallo ingegno, dalla memoria, dalla nobiltà, dalle lettere, dalla fede, dalla gratitudine e da molte altre parti, le quali [8v] laudi tutte con verità se li possono attribuire.

Saranno forse alcuni che mi calunnieranno come troppo affezionato alle azioni di papa Clemente VII, alli quali io rispondo non avere detto cosa che non sia vera, mettendo a questi in considerazione essere molto bene possibile che ad alcuno uomo duri molto tempo la laude della virtù nelle sue operazioni e manchili di poi, o per mutazione di fortuna, alla quale sono tutte le azioni umane sottoposte, o vero per essere suta maggiore la comune opinione di lui che la vera essistenzia della virtù sua, sì come il più delle volte interviene. Non sarà alcuno che nieghi che Pompeo Magno non fusse tenuto uomo prestantissimo in pace et in guerra. Nondimeno, chi leggerà l’Epistole di Tulio ad Attico, vedrà, quando cominciò la guerra civile con Cesare, quanto Tulio lo indicava essere allora alieno da quello uomo che era già stato, il quale, non volendo ascoltare condizione alcuna di pace, non ordinava la guerra, non provedeva i danari, non genti, anzi era irresoluto e quasi attonito, sì come il successo di esso finalmente dichiarò. Io credo che chi ha a scrivere il vero, debbi lodare o biasimare le azioni di uno principe, secondo quelle meritono laude. Et io ho commendato le azioni di Clemente, quando, a iudicio mio, sono state commendabili e così le ho dannate, quando sono state dannabili. E chi queste essaminerà sottilmente e sanza passione, lo arà in gran parte escusato di molte cose delle quali comunemente è vilipeso.

Potrei avere descritto più distintamente l’ordine delle battaglie, notato il numero delli uomini morti in esse, i nomi propri de’ luoghi dove siano suti li conflitti, l’orazioni fatte da’ capitani alli soldati, ma, come ho detto, il proposito mio non è suto di scrivere intera istoria, né ancora sono sì arrogante che, quando volessi pigliare tale provincia, mi persuadessi di posserla perfettamente assolvere.

Leggi, adunque, questo summario di quindici anni, e, quando ti satisfacci, serbalo, facendolo comune a chi ti pare, quando no, lo potrai supprimere da poi che lo arai letto. E così non arò preso indarno questa fatica, perciò che, sì come è vero, così ancora è costante fama a presso delli boni autori, che la istoria, in qualunque modo scritta, sempre diletti. Sta’ sano.

E quando tu non l’appruovi in modo iudichi sia da farne parte altrui, se arà dilettato te, resterò satisfatto.

 

 

[9r] 1512

 

Poiché l’essercito di Luigi XII, re di Francia, che avea per capitano monsignor di Foes, ebbe rotto e fugato presso alle mura di Ravenna l’essercito di Ferrando re di Spagna e di papa Iulio II, guidato da don Ramondo di Cardona viceré di Napoli, parve che la fortuna, come instabile, subito si mutasse. Et essendo morto nella giornata combattendo arditamente monsignor di Foes, e rimanendo lo essercito a essere guidato da più capi, de’ quali erano alcuni italiani che subito, come è il costume loro, furono in discordia, e quando era a proposito seguitare la vittoria e constrignere il Papa a pigliare le condizioni dal vincitore o fuggirsi di Roma, essi, consumando il tempo in dissensioni e dispute, perderono la occasione e lui, rassicurato, prese animo et in pochi giorni fece scendere i monti a ventimila fanti svizzeri.

I quali, uniti con le genti d’arme de’ Veniziani, collegati seco e col re Ferrando, assaltorono lo stato di Milano con tanto impeto, che li Franzesi furono constretti a ritirarsi di Romagna per far pruova di difendere quello stato. Et essendo in odio a tutti i popoli e crescendo del continuo la discordia de’ capi Sanseverini e Triulzi, l’essercito franzese non confidò tenere la campagna né li passi de’ fiumi né le città, ma fuggendosi del continuo, come fugge la nebbia dal vento, e l’inimici seguitandolo, in pochi dì lo cacciorono di quello ducato e loro ne restorono signori. E parendo a’ collegati avere acquistato onore et utile grandissimo, pensavono come potessino conservare e l’uno e l’altro. E convennono di fare una congregazione a Mantoa, nella quale si trovassino il vescovo Gurgense, locotenente dello Imperatore in Italia, il viceré don Ramondo per il re Ferrando e li oratori del Papa e Veniziani.

Dove convenuti et avendo più giorni consultato, sendovi ancora ambasciadori delle leghe de’ Svizzeri, deliberorono che fusse restituto nello stato di Milano Massimiliano Sforza, figliuolo di Ludovico che morì prigione in Francia, il quale era stato gran tempo in Alamagna appresso lo Imperatore. Et in tal partito tutti li collegati pensorono avere la satisfazione loro in particulare. Et il Papa prima considerò che, sendo uno duca di Milano debole, potrebbe disporre de’ benefici ecclesiastici a volontà sua, che è quello che i moderni pontefici stimano assai. Gurgense, non avendo molto riguardo al futuro, considerò trarne danari di presente per il patrone e qualche parte ancora per sé. Il Viceré, sappiendo che il re Ferrando voleva nutrire uno essercito in Italia altrove che nel Regno di Napoli, considerò che lo potrebbe alloggiare in quello stato e trarne ancora danari [9v] per suvvenirlo. I  Svizzeri pensorono avere da detto Duca ogni anno pensione in pubblico et in privato e che il Duca fusse signore in parole e loro in fatto. I Veniziani, avendo una repubblica stabile, iudicorno che uno giorno si potrebbe porgere occasione che, sendo un principe debole in quello stato, facilmente ne diventerebbono signori.

Deliberorono ancora li sopradetti collegati che, non sendo rimasto in Italia chi tenessi le parti franzesi eccetto la Republica Fiorentina, che si usasse ogni opera et ogni industria di mutare quello stato, stimando ciascuno de’ collegati avere nella mutazione di esso quasi le medesime commodità che si dicono di sopra dello stato di Milano. Il quale assettorono in questo principio così a caso, tanto che Massimiliano Sforza venisse d’Alamagna.

E poi il Viceré con circa seimila fanti spagnuoli e mille cavalli, fra di leggieri e grave armatura, prese il cammino verso Toscana con ordine che il cardinale de’ Medici, legato di Bologna, scappato delle mani de’ Franzesi per loro inavertenzia ché lo aveano prigione, venisse con lui. E dava voce volere levare lo stato di mano al popolo e restituirlo a detto Cardinale che ne fusse capo e lo amministrasse con quello ordine di republica che solea già fare Lorenzo suo padre.

Era in questo tempo Gonfaloniere di Iustizia Piero Soderini, il quale era suto creato a vita insino l’anno 1502, quando si riordinò alquanto la città: uomo certo buono e prudente et utile, né si lasciò mai traportare fuora del iusto, né da ambizione né da avarizia. Ma la mala fortuna, non voglio dir sua, ma della misera città, non permesse che lui o che altri vedessi il modo di ovviare alli insulti de’ collegati o, se pure da alcuno fu veduto, non li fu prestato quella fede che era conveniente.

Perché li Fiorentini non potevano avere soccorso dal re di Francia che avea perduto non solo lo stato e la reputazione in Italia, ma si pensava che avessi avere molestie di là da’ monti. Né si potevono difendere con le forze proprie, le quali erano troppo deboli rispetto a quelle delli avversari, e però era necessario venissino a composizione. Né accadeva mandare a Gurgense, come mandorono, oratore messer Ioan Vittorio Soderini, perché lo Imperatore non avea in Italia uno cavallo, né accadeva mandarne al re Ferrando in Ispagna, come mandorono messer Francesco Guicciardini, perché, avanti che si fusse fatto la proposta et avuto la risposta, era necessario che il giuco fusse finito. Né doveano confidare potere rimuovere il Papa dalla fantasia sua perché era nimico, e forse con qualche ragione, non dico a’ Fiorentini ma al modo del governo, e che [10r] non avea altri soldati fuora di quelli che teneva il duca di Urbino, il quale lo obediva quando voleva.

Ma, se li Fiorentini si volevano liberare da questo assalto, bisognava accordassino col Viceré, avido e per natura e per necessità, e, quando li fusse suta data qualche somma di danari per lo essercito, e qualche cosetta da parte per lui proprio, sarebbe venuto a condizioni dalle quali i Fiorentini non arebbono avuto causa discostarsi.

Ma erano allora uno napolitano, per il Viceré, ambasciadore in Firenze et uno spagnuolo a Roma, per il re Ferrando, i quali con arte dicevano in privato a chi li volea udire che li Fiorentini non aveano da temere delle forze del re Ferrando, perché il Viceré conosceva benissimo che lo animo di papa Iulio era di cacciare così il suo re d’Italia, come avea fatto il re di Francia, e che ogni volta che si mutasse il governo di Firenze e venisse in mano del cardinale de’ Medici, che egli, sendo Cardinale, dependeva dal Papa et in ogni altercazione s’accosterebbe più presto al Papa che al suo Re, e però che il mutare lo stato di Firenze sarebbe uno accrescere vigore al Papa, il quale il Viceré sapea certo che intra poco tempo era per esserli inimico.

Il Papa, ancora che per natura fusse alieno dal simulare, questa volta, o con arte o pure per l’ordinario, diceva al cardinale de’ Soderini et a messer Antonio Strozzi, oratore apresso a lui pe’ Fiorentini, che non avea manco odio contro alli Spagnuoli che contro a’ Franzesi e che pensava a ogni modo trarli d’Italia; e che, quando il cardinale de’ Medici rientrasse in Firenze, che egli dependerebbe da quello a chi fusse più obligato e che sarebbe più obligato a chi avesse usato in favore suo le forze, il quale sarebbe in fatto il Viceré; e che non farebbe tale pazzia d’accrescerli potere, quando lo intento suo era d’abbassarlo.

Queste erano le parole che erano dette in privato a’ Fiorentini. Nondimeno il Viceré era già a Bologna con lo essercito, et in irenze era opinione che lui non avesse a venire più avanti contro a quella. Et era tanto questa fantasia fissa nell’animo delli uomini (i quali il più delle volte s’accordano mal volentieri a credere quello non vorrebbono) che, proponendosi nel Consiglio Grande da’ Signori provisione di danari per potere riparare con essi allo impeto dell’inimici, non si otteneva.

Parlandosi poi in pratiche strette, chiamate da’ Dieci preposti alla guerra, se era da cercare convenzione col Viceré, tutti quelli vi si trovavano dicevono questo essere l’unico rimedio alla salute della Città. Preponendosi poi nel Consiglio delli Ottanta, si deliberava il medesimo. Ma [10v] come si veniva a pratiche più larghe, li uomini, chiamati a quelle, non volevano sentire parlare d’accordo: e le pratiche larghe erano necessarie perché non si poteva fare accordo sanza somma di denari e li danari si avevono a vincere per il Consiglio Grande. E però era quasi di necessità che una parte di quelli uomini, che si avea a trovare nel Consiglio a vincere i danari, si trovasse ancora a deliberare dello accordo.

Passa il Viceré con l’essercito Bologna, viene con lui legato il cardinale de’ Medici, vengono fanti comandati e pagati del Bolognese, vengono artiglierie: et allora li uomini in Firenze cominciorono a credere et a temere. Ragunasi il Consiglio, vinconsi i danari; i Dieci soldano e comandano fanti; creonsi oratori per mandare al Viceré. Ma avanti che queste cose fussino in fatto, l’inimici erano intorno a Prato, dove erano dentro quattromila fanti, tra pagati e comandati. Né l’inimici ne aveano più che otto e non aveano piu che due pezzi d’artiglieria da battere mura, nondimeno, in mezzo giorno, feciono una piccola apertura per la quale i fanti spagnuoli, atti molto a salire, entrorono dentro e tutto lo messono a sacco. E feciono prigioni i soldati e li abitatori, e non solo li uomini, ma le donne e li piccoli fanciulli, e vi amazzorono circa cinquecento, benché la fama andasse di numero molto maggiore.

Come questa nuova si intese in Firenze, non vi fu uomo sì animoso che non invilisse e si perdesse. E le parole di messer Baldassarre Carducci il quale, insieme con Niccolò del Nero, come ambasciadore della Città avea parlato al Viceré dopo la presa di Prato, accrebbono assai il terrore. Perché egli, tornato la sera medesima, volendo riferire quello avea essequito avanti i Signori e molti cittadini che erano in Palazzo, come quello al quale pareva avere bene l’arte oratoria, tanto accrebbe la vittoria delli inimici, tanto fece grande la occisione de’ soldati fiorentini, con tante lagrime deplorò il sacco, il sangue, gl’incendi, gli stupri, i sacrilegi fatti a Prato, che a ciascuno pareva avere già i rabidi inimici non solo nella città, ma nelle proprie case, e che i medesimi casi, o più atroci, succedessino quivi. E si può dire certo che messer Baldassarre, inimico de’ Medici, operasse più nella tornata loro in Firenze, che qualunque altro reputato a essi amicissimo.

 

Perdessi Prato a dì 24 d’agosto e li cittadini tutti restorono attoniti, e certi, che si trovavono danari da poter vivere fuori, si partirono della città e ne menorono le donne e li figliuoli. [11r] Et universalmente per ciascuno uomo di bona mente si parlava che era da pigliare quello accordo col Viceré che si potea avere. Ma lui, elato per la vittoria, dove prima si satisfacea con danari sanza rimettere i Medici, dopo quella voleva fussino restituiti e nella patria e ne’ beni loro e maggiore somma di danari. E benché Piero Soderini fusse consigliato da qualche uomo affezionato alla libertà di pigliare ogni condizione, pure che l’essercito inimico si discostasse, la mala fortuna della città lo ritraeva da fare quello che conosceva essere a beneficio d’essa: perché se li Medici erano rimessi con le leggi, non arebbono avuto più auttorità di quelle, ma, sendo rimessi con le forze, potettono disporre d’ogni cosa.

Attesesi il giorno a condurre le genti a piedi et a cavallo nella città et alloggiarli, il che generò maggiore spavento perché li soldati licenziosi, e parendo loro che i Fiorentini ne avessino necessità, facevono ruberie et insulti, come è costume d’essi.

Aveva la Signoria, quando l’inimici entrorono nel paese de’ Fiorentini, fatto ritenere in Palazzo circa venticinque cittadini come amici de’ Medici, dubitando che non suscitassino qualche tumulto nella città. Alli 31 di agosto quattro giovani nobili, i quali furono Bartolommeo Valori, Paulo Vittori, Gino Capponi e Antonfrancesco delli Albizi, andorono al Gonfaloniere la mattina per tempo e li dissero che era necessario pigliasse partito e non tenesse la città in pericolo di andare in preda come Prato.

E rispondendo loro il Gonfaloniere parole grate et umane sanza venire a conclusione e volendosi partire da essi e ritirarsi in un’altra stanza, Antonfrancesco, e più giovane e più ardito delli altri, lo prese per la veste e disse che prima che partisse da lui, voleva che relassassi li cittadini che la Signoria avea fatti ritenere. Lui, sendo troppo rispettivo e dubitando non avere a far male ad altri o che ne fusse fatto a lui et iudicando che, se si veniva al sangue, dovesse seguire la ruina della città, fu contento licenziarli. E pensando che avendo questi quattro giovani, e massime Antonfrancesco, preso tanto ardire, che non mancherebbe loro animo a tentare più oltre, mandò subito Niccolò Machiavelli, secretario della Signoria, per Francesco Vittori, fratello di detto Paulo, il quale era deputato dalli Dieci commissario sopra i soldati. Et avendo inteso quello era seguito in Palazzo, né potendo essere contro al fratello sanza manifesto pericolo, né volendo per modo alcuno essere contro al Gonfaloniere et al Palazzo, voleva montare a cavallo per partirsi della città.

Ma faccendoli [11v] Niccolò la ambasciata per parte del Gonfaloniere, n’andò subito a lui e trovandolo solo et impaurito, lo domandò quello voleva operasse. Il Gonfaloniere li rispose che era disposto partire di Palazzo pure che fusse sicuro di non essere offeso. Francesco li rispose che li pareva che avesse sì bene governato il tempo che v’era stato, che non voleva già essere in compagnia di quelli ne lo traevano. Ma pregando lui et instando che operasse si potesse partire sicuro, Francesco, presa la fede da quelli che li erano contro di non lo offendere, lo condusse a casa sua, dove lui volle più presto andare che alla propria abitazione. E la notte medesima lo cavò di Firenze per lo sportello e lo accompagnò con venti cavalli leggieri insino a Siena, sendo stato prima privato detto Gonfaloniere da quelli magistrati che s’hanno a intervenire a detta privazione secondo li ordini della Città, dove si pensò subito comporre col Viceré.

Et a questo effetto furono mandati a lui a Prato oratori messer Cosimo de’ Pazzi, arcivescovo di Firenze, Iacopo Salviati e Paulo Vittori. E la città si ordinò in quello tumulto il meglio che la possette: e fu creato Gonfaloniere per uno anno Giovambatista Ridolfi, e si fece che i Medici potessero tornare, e si accordò col Viceré di darli ducati centoquarantamila, i quali lui avesse a distribuire ancora alli altri collegati, secondo convenissino. E si ebbe da detto Viceré commodità a pagarli in mesi e promisse lasciare il castello di Prato e rimuovere l’essercito del paese de’ Fiorentini.

 

Tornò Giuliano, figliuolo di Lorenzo de’ Medici, il primo in Firenze. Et in effetto, non parendo a quelli cittadini d’età che si ricordavano di Lorenzo suo padre che il governo fusse assettato a loro proposito, persuasono et al Cardinale et a lui et a messer Iulio, figliuolo di Giuliano, che si dovea fare parlamento e pigliare il governo da vero, ché altrimenti e loro e li amici vi stavano con pericolo. E furono tante le persuasioni, che spinsono il Cardinale a fare forse quello non arebbe fatto, perché alli 16 di settembre, fece pigliare il Palazzo, e la Signoria venne in ringhiera a fare parlamento. E fu data ampia auttorità a quaranta uomini che si chiamorono della Balla, i quali subito feciono nuovi Otto di Guardia. E Giovambatista Ridolfi, gonfaloniere, rinunziò il magistrato e non volle stare più che due mesi: e si ridusse la città, che non si facea se non quanto voleva il cardinale de’ Medici.

È chiamato questo modo di vivere tirannide. Ma, parlando delle cose di questo mondo sanza rispetto e secondo il vero, dico che [12r] chi facesse una di quelle republiche scritte e imaginate da Platone, o come una che scrive Tomma Moro inghilese essere stata trovata in Utopia, forse quelle sì potrebbono dire non essere governi tirannici; ma tutte quelle republiche o principi, de’ quali io ho cognizione per istoria o che io ho veduti, mi pare che sentino di tirannide.

Né è da maravigliarsi che in Firenze spesso si sia vivuto a parti et a fazioni e che vi sia surto uno che si sia fatto capo della città, perché è città popolata assai e sonvi di molti cittadini che arebbono a partecipare dello utile e vi sono pochi guadagni da distribuire. E però sempre una parte si è sforzata governare et avere li onori et utili e l’altra è stata da canto a vedere e dire il giuoco. E per venire alli essempli e mostrare che, a parlare libero, tutti i governi sono tirannici, piglia il regno di Francia e fa che vi sia uno re perfettissimo: non resta però che non sia una grande tirannide che li gentilomini abbino l’arme e li altri no, non paghino gravezza alcuna, e sopra li poveri villani si posino tutte le spese; che vi sieno parlamenti nelli quali le lite durino tanto, che li poveri non possino trovare ragione; che vi sia in molte città canonicati ricchissimi de’ quali quelli che non sono gentiluomini sono esclusi. E nondimeno il regno di Francia è iudicato così bene ordinato regno, e di iustizia e d’ogni altra cosa, come ne sia un altro tra Cristiani.

Vieni alle republiche e piglia la Veneta, la quale è durata più che republica alcuna di che si abbi notizia. Non è espressa tirannide che tremila gentilomini tenghino sotto più che centomila e che a nessuno popolano sia dato adito di diventare gentiluomo? Contro a’ gentiluomini, nelle cause civili, non si truova iustizia, nelle criminali, i popolari sono battuti, i nobili riguardati. Ma io vorrei che mi fusse monstro che differenzia è dal re al tiranno. Io, per me, non credo certo che vi sia altra differenzia se non che quando il re è buono, si può chiamare veramente re, se non è buono, debbe essere nominato tiranno.

Così, se uno cittadino piglia il governo della città, o per forza o per ingegno, e sia buono, non si debbe chiamare tiranno: se sarà malo, se li può dare nome non solo di tiranno, ma d’altro che si possa dire peggio. E se noi vorremo bene essaminare come sieno stati i principii de’ regni, trovereno tutti essere stati presi o con forza o con arte. Né io voglio entrare ne’ Persi, [12v] Medi, Assiri e Giudei, ma la Repubblica Romana era ordinata nella pace e nella guerra.

Cominciorno Silla e Mario, duttori di esserciti contro alli esterni inimici, a voltare le forze l’uno contro all’altro; e Silla rimase superiore e tenne occupata la città per forza tanto quanto volle. Cesare, similmente, d’imperatore di essercito diventò dittatore e signore di Roma; e così sono seguiti dipoi li imperatori che si leggono. Et essendo declinato il dominio romano per avere Costantino condotto la sede dello Imperio a Bisanzio, in Italia sono surti molti principi, secondo che ha dato la occasione. E per coprire meglio il nome del principato, si hanno fatto investire da uno imperatore che è stato in Alamagna e che non ha avuto altro di imperatore romano che uno nome vano.

E però non si debbe chiamare tiranno alcuno privato cittadino quando abbi preso il governo della sua città e sia buono, come non si debbe chiamare uno vero signore di una città, ancora che abbi la investitura dallo imperatore, se detto signore è maligno e tristo. Ma io sono uscito alquanto fuora del proposito.

 

Ridussesi, come ho detto di sopra, il governo di Firenze nel cardinale de’ Medici, ancora che vi fussero i magistrati e leggi ordinate. Il Viceré, avendo quasi avuto la maggiore parte de’ danari gli dovevono i Fiorentini per lo accordo, ritirò le sue genti verso Lombardia. E fu gran cosa che in una città, alterata tanto di governo et essausta per le continue spese, si trovassino tanti danari che, dove i Fiorentini erano debitori di ducati centoquarantamila in tempi, li ridussono a cento sedicimila e li pagorono di contanti.

E giunto il Viceré in Lombardia, attese a pigliare certi castelli che rimanevono nella ducea di Milano in potestà de’ Franzesi, e Massimiliano Sforza venne d’Alamagna e di volontà de’ collegati fu fatto duca di Milano.

 

1513

In Firenze questo nuovo modo di governo era a molti insoportabile. E congiurorono Agostino Capponi e Pietropaulo Boscoli di amazzare Giuliano de’ Medici. E furono scoperti perché feciono una scritta, dove scrissono i nomi di quelli che credevono, seguita la occisione, si avessino a scoprire in loro favore, ancora che prima non la volessino loro conferire. Et ebbono sì poca avvertenzia, che se la lasciorono cadere; et, essendo ritrovata, fu portata al Cardinale; e, conoscendo lui in essa essere nomi di uomini tutti sospetti, dubitò di quello che era. Et essendo stata conosciuta la mano, ordinò fussino presi non solo Pietropaulo et Agostino, ma tutti li altri che erano in su detta [13r] scritta, pensando che tutti fussino nel medesimo errore. E tutti furono essaminati; ma solo furono trovati in colpa notabile Agostino e Pietropaulo i quali dalli Otto furono condannati a morte. Delli altri, qualcuno ne fu confinato, perché per le loro essamine si conobbe malissimo animo verso i Medici, alcuni furono absoluti, benché tutti quelli che per questo caso furono condannati e confinati, alla creazione del cardinale de’ Medici in Papa, che seguì poi intra non molti giorni, furono liberi et absoluti.

 

Papa Iulio in questo tempo, elevato dalla prospera fortuna, disegnava di crescere il dominio della Chiesa il più che poteva. Et avendo publicato il Concilio Lateranense per destruere il Conciliabulo (che così lo chiamava), cominciato l’anno avanti da certi cardinali favoriti dal re di Francia, fece estrema diligenzia di condurre a detto Concilio il vescovo Gurgense, locotenente dello Imperatore in Italia e che lo governava come voleva. E si usava dire in quel tempo non che il primo uomo che avessi in corte sua lo Imperatore fusse il Vescovo, ma che il primo che avesse il Vescovo a presso di sé, era lo Imperatore. E tanto operò col prometterli di farlo cardinale, con donarli danari et altri doni, con promettergliene in futuro, che lo condusse a Roma. Et intervenne nel Concilio et in nome di Massimiliano imperatore lo aprovò; e convenne che il Papa avesse Parma e Piacenzia, le quali soleano essere della ducea di Milano. Et il Papa avea trovato di nuovo certi scartabelli antichi per li quali volea mostrare avervi su ragioni lasciate alla Chiesa dalla contessa Matilde. Né li bastava Parma e Piacenzia, ché disegnava sopra Ferrara.

E fatto venire a Roma Alfonso da Esti, duca, sotto la fede di Prospero e Fabrizio Colonna, per trattare convenzione, dopo che lo ebbe accolto gratamente, cercò di ritenerlo. Il che inteso da detti signori Colonnesi, feciono fuggire detto Duca, il quale, per uno grande circuito di miglia, si ridusse a casa e restò nella indignazione del Papa, e non solo lui, ma li signori Colonnesi, per opera de’ quali era fuggito.

Convenne ancora il Papa con Gurgense, poi che l’ebbe fatto cardinale, di dare ducati trentamila a Massimiliano, e che lui dessi la investitura di Siena a Francesco Maria della Ruvere, suo nipote. Il che quando s’intese a Firenze dette grande sospetto e si cominciò a dubitare che non volesse colorire nel nipote quello che Papa Alessandro avea disegnato nel figliuolo. Ma, mentre minacciava Ferrara e voleva pigliare Siena, fu sopravenuto [13v] dalla morte, sendo stato malato di febre qualche settimana: e morì a dì 13 di febraio. Uomo, certo, più fortunato che prudente e più animoso che forte; ma ambizioso e desideroso di grandezza oltre a modo.

Sendo suti pontefici Alessandro et Iulio tanto grandi, che più presto si potevano dire imperatori che pontefici, è da credere che ciascuno delli principi cristiani, e massime di quelli che avevano che fare in Italia, conosciuto quanto importasse il papa, era per fare ogni opera di avere uno pontefice amico.

E per questo i cardinali, che n’erano allora in Roma ventidua, e perché pareva loro che la Chiesa avesse uno bello dominio e loro essere signori grandi, perché avevono entrate eccessive da potere spendere in loro voglie e non avevono cura né di guardare fortezze né di tenere contenti i sudditi come gli altri signori, sollicitavano quanto era possibile la futura elezione, la quale dovea farsi sanza simonia, secondo una bolla avea fatto publicare nel Concilio papa Iulio, quattro giorni avanti la sua morte. Né arebbono voluto i cardinali che si fusse differito tanto, che vi potessino venire i cardinali di Francia, i quali, per avere inditto il Conciliabulo, erano suti privati da Iulio, acciò che, venendo, non seguisse qualche disordine nella elezione. E però feciono l’essequie di Iulio, secondo il solito; poi subito entrorono in Conclavi venticinque cardinali, ché ne erono venuti tre che si trovavono fuori non molto lungi.

Fu openione di molti che il cardinale di San Giorgio fussi eletto papa perché, non si potendo usare simonia, come si era fatto in qualche elezione passata, li fautori suoi feciono fare uno capitolo in Conclavi, che disponeva che tutti li benefizi di quello che fusse eletto pontefice si dovessino distribuire per rata ne’ cardinali che si trovavano presenti alla elezione. E questo feciono perché, avendo il cardinale di San Giorgio benefizi assai, et essendo pure nel collegio cardinali, a’ quali, secondo l’avarizia loro, pareva essere poveri, tirati dalla avidità della distribuzione, eleggessino lui. Ma, sendo stati due pontifici terribili et avendo fatto morire cardinali, avendone incarcerati, et a quali avendo tolto la roba, e chi avendo avuto a fuggire, e chi stato in continuo sospetto, era entrato nelli animi de’ cardinali tanto timore di non eleggere uno papa di simile sorte, che unitamente crearono Giovanni cardinale de’ Medici. Il quale sino allora avea sempre mostro di essere uomo rimesso e liberale o, per meglio dire, prodigo di quello poco che avea, et avea saputo in modo simulare, che era tenuto di ottimi costumi.

Aggiunsesi a questo che, sendo in Italia [14r] potente il re Ferrando e disegnando il re di Francia di nuovo tornarci, pareva necessario, a volere mantenere la grandezza della Chiesa, che fussi creato pontefice di autorità: et avendo il cardinale de’ Medici il governo di Firenze, si poteva indicare che, essendo eletto pontefice e coniungendo la potenzia de’ Fiorentini con quella della Chiesa, avesse più presto a mettere timore ad altri, che a temere d’alcuno.

Giovòlli ancora molto a essere eletto la destrezza et industria di Bernardo da Bibbiena suo secretario, uomo astutissimo e faceto, e che era stato molti anni in quella corte e sapeva molto bene li omori non solo de’ cardinali, ma di qualunque loro amico e familiare, in modo che condusse fuori del Conclavi alcuni di loro a promettere, e nel Conclavi a consentire a detta elezione, contro a tutte le ragioni. Fu publicato pontefice il cardinale de’ Medici a dì 11 di marzo 1512 che correva l’anno trigesimo ottavo della età sua, e si fece chiamare Leone x, con tanta letizia di tutti li uomini di Roma, che non si potrebbe esprimere, con tanta espettazione di bontà e prudenzia, che difficilmente potette in successo di tempo corrispondere alla openione concetta di lui.

 

In quelli pochi dì che la sede stette vacante, il viceré di Napoli occupò Parma e Piacenzia, il che dispiacque assai a tutti i cardinali; e come fu creato il nuovo pontefice, lo stimolarono a volerle riavere. E sappiendo il Viceré che il re Luigi preparava essercito per mandare a ripigliare lo stato di Milano, indicò non essere a proposito che il Pontefice fusse male satisfatto di lui e convenne restituirle, con volere però dal Papa ducati trentamila e promessa di difenderle dal re di Francia. Il quale Re pensò non essere bene che Italia, in questa nuova creazione del pontefice, si stabilisse e riordinasse. E però con prestezza fece essercito e mandòllo di qua da’ monti verso il ducato di Milano; et ordinò capitani di esso il signor Ioan Iacopo Triulzi e monsignore della Trimoglia, uomini reputati prudenti et esperti nell’arme.

Massimiliano, signore di Milano, sendo nuovo nello stato et uomo uso più presto in corte che ne’ campi, né sappiendo come volesse procedere il Viceré il quale, se voleva difendere quello stato, doveva andare verso Tortona et Alessandria, e lui aveva fatto uno ponte a canto a Piacenzia, che mostrava volersi ritirare verso Brescia, deliberò di gittarsi tutto in mano de’ Svizzeri, pe’ conforti massime di Ieronimo Moroni, milanese, nel quale era tutta la fede sua.

Questo Ieronimo andò nel paese de’ Svizzeri, [14v] e con pochi danari e con promesse di più e con molte parole e ragioni ne levò circa diecimila. I quali, giunti a Noara, inteso come lo essercito franzese veniva verso quella città, et ancora che non avessino cavalli, li andorono affrontare con pronto animo e combatterono gagliardamente e li ruppono. La occisione non fu grande, ma la preda fu grandissima. E li Svizzeri liberorono, per allora, lo stato di Milano dalle mani de’ Franzesi e ne ebbono dal Duca, con tempi, quelli premi che vollono. Il re di Francia, con questo assalto, subito si concitò contro lo Imperatore, il re di Spagna e d’Inghilterra e li Svizzeri, i quali tutti a uno tempo da diversi luoghi assaltorono il regno di Francia.

Il Papa, poi che ebbe atteso alla coronazione e ceremonie consuete, le quali fece più suntuose che li altri pontefici e spese grossa somma di danari, pensò che non era bene che il regno di Francia fussi destrutto: e se bene li fu grato che le genti del Re fussino rotte a Noara, perché li pareva che lui li avessi avuto poco respetto mandare ad assaltare Italia sanza fargliene intendere, della quale egli era capo, considerò quanto importasse debilitare quello Regno, rispetto al Turco, quanto profitto ne traeva la corte di Roma delle cose beneficiali, quanto importerebbe quando lo Imperatore o re di Spagna pigliassino qualche parte di quel Regno. E cercò con ogni industria ritrarre il re d’Inghilterra e Svizzeri dalla impresa di Francia e si sforzò trovare modi di composizione tra questi Principi. Et a questo effetto mandò più volte suoi uomini a questo principe et a quell’altro, ma niente giovò, perché il re Ferrando voleva tanto indebolire il re di Francia, che non potesse pensare a Italia, perché, mentre che esso ci disegnava, a lui non pareva possedere sicuro il Regno di Napoli.

I Svizzeri, che in fatto erano signori di Milano, non volevono che lui potesse tornare a ripigliarlo. Lo Imperatore faceva la guerra per piacere, né altro fine ci avea dentro. Il re d’Inghilterra voleva contentare i popoli suoi i quali sono per natura inimici a’ Franzesi. E mentre che tutti i sopranominati si preparavano a fare guerra contro a Francia et il Re a difendersi, i Veniziani sollecitavono il Papa che, sendo loro stati in lega con Iulio, re Ferrando et Imperatore contro a’ Franzesi, che operasse come successore di Iulio, che fussino osservate loro le condizioni; e che, avendo il Viceré tolto Brescia delle mani de’ Franzesi che doveva, per li patti, essere loro restituita.

Leone conosceva essere cosi il fusto e ne parlava ogni [15r] giorno a don Ieronimo Vic, oratore a Roma per Ispagna, e ne scriveva alli suoi nunzi, che erano presso al re Ferrando; et aveva sempre le migliori risposte e parole del mondo, ma non si veniva a conclusione, il che procedeva perché il re di Ispagna voleva nutrire un essercito in Italia, in altro luogo che nel Regno di Napoli. Ma in fine i Veniziani, veduto di essere tenuti in parole, s’accordorono col re di Francia et ottennero da lui che traessi di prigione Bartolomeo d’Alviano, quale era suto preso da’ Franzesi nella rotta di Adda, e lo feciono capitano. E deliberorono fare una buona guerra, per vedere di riavere quello si apparteneva loro con l’arme, poi ché non lo potevono riavere con le parole.

 

In Firenze della creazione del Papa si fece quella festa che si può stimare. E perché li Fiorentini sono dediti alla mercatura et al guadagno, tutti pensavano dovere trarre profitto assai di questo pontificato. Aveva il Papa delli suoi, in Firenze, Giuliano, fratello carnale, messer Iulio, suo cugino, cavaliere di Rodi, priore di Capua, Lorenzo suo nipote. Nessuno di questi voleva stare in Firenze perché Giuliano pensava a grandezza eccessiva, messer Iulio disegnava, con l’essere uomo di chiesa, ottenere dal Papa degnità benefici assai, Lorenzo era uso a vedere in che reputazione era in Roma uno parente di uno papa, ancora che li attenesse poco; sendoli lui nipote, li pareva non si potesse trovare altra stanza più a suo proposito che quella, perché in Firenze era necessitato a vivere con mille rispetti et a Roma non ne avea avere uno al mondo.

Il Papa per niente voleva lasciare il governo di Firenze, perché iudicava, tenendo quello, dovere essere di più autorità a presso a’ principi. E benché li paresse conveniente che Giuliano attendesse lui a quel governo, per essere oramai di età matura et uomo da dovere satisfare a’ Fiorentini, non trovando modo che lui volesse farlo, perché già era ito a Roma e quivi si voleva stare, né indicando essere bene rimuovere messer Iulio dalla chiesa, si ridusse a fare pigliare a Lorenzo detto governo, il quale era di età d’anni venti in circa et era uso a portare grande reverenzia alla madre, perché era stato a sua custodia molti anni, poi che il padre fu morto.

Mandò dunque il Papa Lorenzo in Firenze e mandò con lui messer Iulio: il quale, sendo morto messer Cosimo de’ Pazzi, arcivescovo di Firenze, era successo in quello loco. E si dette principio a ordinare uno governo civile, del quale Lorenzo fusse capo, in quella medesima forma a punto, come avea tenuto Lorenzo suo avo. [l5v]

Et attendeva Lorenzo, ancora che giovane, con grande diligenzia alle cose della città: che la iustizia fusse amministrata equalmente a ciascuno, che le publiche pecunie si riscotessino e si spendessino con parsimonia, che le lite si componessino in modo che ogni uomo ne restava satisfattissimo, e massime perché, sendo l’entrate grande per l’abbondanzia del popolo e le spese non molte, i cittadini erano poco affaticati di danari, che è quello che piace a’ popoli, perché l’affezione che loro hanno al principe procede dalla utilità.

 

Pensorono alcuni cittadini, i quali si tenevono savi e reputavano che il bene della Città consistesse in estendere assai li confini et in avere più una terra et uno castello, di molestare i Lucchesi per provare di ridurli in servitù, o almeno riavere da loro Pietrasanta, la quale altra volta era stata de’ Fiorentini, ma era suta poi perduta nella passata del re Carlo. E non si accorsono quanta infamia dettono al Papa a presso a tutti li uomini, e quanto sospetto messono alli principi a farlo acconsentire che, ne’ primi mesi del suo pontificato, i Fiorentini assaltassino, sanza causa alcuna, i Lucchesi vicini e confederati e che vivono in pace et in libertà sotto le loro leggi e con le loro arti.

Et in che modo potevono i Fiorentini ricordare poi al Pontefice che ponessi freno alle immoderate cupidità del dominare per la Chiesa e per li suoi e pigliassi essemplo dalli pontefici passati, i quali tutto quello che avevono acquistato per li loro attinenti con grande infamia pericolo e spesa, in pochi giorni, alla morte loro, era ritornato alli primi signori, quando loro erano suti i primi a incitarlo acconsentire cose non convenienti? E quando loro lo dovevono confortare che arricchisse li suoi di possessioni e danari, e così aiutasse li altri cittadini a conseguire benefizi et offizi, e che li mercanti potessino guadagnare in vendere le loro mercantie a Roma et altrove, e che si rispiarmassino l’entrate publiche per estinguere li interessi che pativa il comune, loro, mossi da una certa vanità, entrorono di sua volontà, benché fusse volontà sforzata, in assaltare i Lucchesi da più bande con genti comandate. E feciono prede nel paese loro con assai danni di essi e con poco profitto loro e di quelli che rubavono.

I Lucchesi, trovandosi arse le ville e predato il paese, ricorsono a Roma a dolersi al Papa et a’ cardinali. Et in su queste querele, furono consigliati dalli amici loro di rimettere le differenzie aveano co’ Fiorentini nel Papa. Il quale fece loro levare subito la guerra da dosso et indicò che dovessino restituire Pietrasanta a’ Fiorentini con certi capitoli, come per il [16r] lodo appare.

E veramente il Papa malvolentieri permesse che i Fiorentini nocessino a’ Lucchesi, ma si lasciò persuadere a quelli che, intendendo poco, dicevono che, lasciando offendere i Lucchesi, acquisterebbe in Firenze grandissima grazia.

 

Don Ramondo viceré, in questo tempo, vedendo i Veniziani essersi collegati con Francia, deliberò di perseguitarli con aperta guerra; e loro si armorono di maniera che pensorono di potere non solo difendersi, ma offendere l’inimici.

Il primo assalto che fece loro il Viceré fu a Crema, quale è molto vicina allo stato di Milano, et oltre alle altre difficultà, aveva peste grande. Nondimeno, per industria del signor Renzo da Ceri, si difese e l’inimici se ne levorono con danno e vergogna. Corse il Viceré dipoi assai del paese de’ Veniziani, et essi sempre si andavono difendendo. Ma, trovandosi lo essercito spagnuolo una volta in uno luogo tra Padoa e Vicenzia, dove era costretto o morire di fame o ritirarsi per difficile camino in Alamagna, Bartolomeo d’Alviano, troppo ardito capitano et al quale pareva quante più volte era rotto più fama acquistare, volle apicciare il fatto d’arme.

Li Spagnuoli, disperati, combatterno valentemente e, per opra massime di Prospero Colonna, ruppono le genti venete et amazzorono e presono più loro capi. E potette poi il Viceré andare liberamente per tutto il paese veneto e, per più pompa e gloria, andò insino a Menstri, donde sparò qualche tiro d’artiglieria verso Venezia.

 

In Francia ancora si faceva grandissima guerra. Et il re d’Inghilterra avea passato il mare e si era congiunto con lo Imperatore. E con gente grandissima assediorno Terroana, avendo prima presa Tornai sanza difficultà, e presso a quella dettoro una rotta a’ Franzesi. Ma la obsidione di Terroana durò bene quaranta dì e, benché fussi presa, ritardò assai l’impeto delli Inghilesi e Todeschi. Et in questa dilazione lo Imperatore, che per natura era vario e quanto oro era al mondo non aria potuto riparare alle sue spese, venne a qualche altercazione col re d’Inghilterra e, sanza mettere più tempo in mezzo o pensare più oltre, se ne tornò in Alamagna.

Il re d’Inghilterra, per questo, et ancora perché avea fatto grande armata per mare e mandatala a Fonteravia, con intenzione che il re Ferrando avesse a muovere per terra da quella banda, vedendo la cosa andare in lungo, restò male satisfatto e richiamò l’armata sua. E questo fece tanto più volontieri perché li Svizzeri, i quali secondo la composizione tra loro collegati, con ventimila uomini assaltorono la Borgogna e messono la obsidione a Digiuno, dove era [16v] il capo per Francia monsignore della Trimoglia che fece sì gagliarda difesa, che detti Svizzeri, diffidando poterla sforzare o per qualsivoglia altra causa, accordorono con monsignore della Trimoglia con convenzioni onorevoli et utili per loro, e ritornoronsi subito indrieto.

La quale convenzione il re Luigi non volle né ratificare né osservare. Onde, come è detto, Enrico re d’Inghilterra per li modi del re di Spagna, dello Imperatore e de’ Svizzeri, conobbe che lui era quello che spendeva sanza profitto e che li altri collegati facevano quello volevano, sanza tenere conto di lui; ritirò lo essercito di là dal mare e volse l’animo allo accordo con Francia. Et essendo morta di poco la regina Anna, moglie del re Luigi, s’appiccò pratica tra questi duo Re d’amicizia e parentado e si fermò l’uno e l’altro. Et il re Enrico dette al re Luigi, vecchio et infermo, Maria sua sorella, giovane e bella. E come fu detto allora, Luigi trasse d’Inghilterra una achinea che caminò sì forte, che in pochi mesi lo portò fuor del mondo.

 

 

1514

 

Lo avere permesso il Papa che li Fiorentini offendessino i Lucchesi e la stanza di Giuliano suo fratello in Roma, con avere lasciato il governo di Firenze, dette sospetto a tutti principi, grandi e piccoli, che avevono che fare in Italia, perché il re Ferrando dicea: « Poiché Giuliano ha lasciato lo stato di Firenze, che è sì bella cosa, bisogna che abbi fantasia a cose maggiori, che non può essere altro che il Regno di Napoli ».

Il duca di Milano, di Ferrara, di Urbino dicevono il medesimo. I Sanesi discorrevono: « Se il Papa lascia offendere a’ Fiorentini i Lucchesi, che hanno la città forte, ben munita e d’accordo, tanto più lascerà offendere noi che abbiamo la città debole, poco provvista e desunita ».

Il duca di Ferrara, oltre a questo dubio, era malissimo satisfatto del Papa perché nel principio del pontificato era venuto a Roma et era suto veduto volentieri et accarezzato dal Papa. E si era partito pieno di bona speranza e con promissione che li sarebbe restituito Reggio e fattolo favore con lo Imperatore che riavessi Modona. Et aveva visto il Papa poi non solo non li rendere Reggio, ma comperare Modona dallo Imperatore o pigliarla in pegno per ducati quarantaquattromila.

Ma il duca di Urbino, Giovampaulo Baglioni e Borghese Petrucci, primo cittadino a Siena, mossi dalla sospezione e come più deboli, feciono lega insieme, contr’a’ quali il Papa prese grandissima alterazione e fu del continuo poi inimico loro. Nondimeno essi allora l’escusorono con dire esser fatta per difendere dal signore di Camerino il duca d’Urbino, il quale vedevono esser favorito dal Papa per averli data per moglie [17r] una sua nipote, sorella del cardinale Cibo.

Aveva ancora alterato l’animo de’ cardinali la creazione di quattro cardinali, che il Papa creò sei mesi dopo la sua elezione, contro a’ capitoli che s’erono fatti e giurati nel Conclavi, i quali furono messer Lorenzo Puccio, datario, Bernardo da Bibbiena, tesauriere, messer Iulio de’ Medici, suo cugino, et Innocenzio Cibo, figliuolo di una sua sorella.

E vedendo li uomini che rompeva i giuramenti e che pensava alle guerre e faceva oggi una constituzione nel Concilio Lateranense e domane vi derogava, cominciò a perdere a presso a molti il nome del buono e, benché dicesse l’officio ogni dì con divozione e digiunasse due o tre giorni della settimana, oltre a’ digiuni ordinati, non li credevono più.

E certo è gran fatica volere essere signore temporale et essere tenuto religioso, perché sono due cose che non hanno convenienza alcuna insieme. Perché chi considera bene la legge evangelica, vedrà i pontefici, ancora che tenghino il nome di Vicari di Cristo, avere indutto una nuova religione che non ve ne è altro di quella di Cristo ch’il nome, il quale comandò la povertà, e loro vogliono la ricchezza, comandò la umiltà, e loro seguitono la superbia, comandò la obedienzia, e loro vogliono comandare a ciascuno. Potrè’mi estendere nelli altri vizi; ma basta avere accennato, che più oltre non mi pare mi si convenga entrare.

 

1515

Erano le cose d’Italia e fuora d’Italia in questi sospetti e travagli, quando morì il re Luigi XII, il quale, nel tempo regnò, provò e la fortuna prospera et avversa. E solo si può riprendere che ebbe troppa voglia di ricuperare il ducato di Milano nel tempo che lui, per la infermità, non era atto alla guerra et era necessitato il commetterla ad altri, il che, il più delle volte, è pericoloso.

Per la morte sua venne il regno, secondo l’ordine di Francia, a Francesco duca d’Angolem, giovane d’anni venti, dotato dalla natura di tanta bellezza, quanto altr’uomo che fusse in Francia, e di più ingegno e memoria. Et avea consunta l’età sua in essercitarsi in arme et ancora non alieno dalle lettere, ma era bene alieno da tutti i vizi, sobrio, temperato, continente; e benché abbi provato qualche volta la fortuna avversa, si può connumerare tra li principi eccellentissimi.

Questo, nel principio prese il regno, deliberò assaltare la ducea di Milano. E se bene pensò che alla difesa di quella avessino ad essere collegati Papa, Imperatore, re di Spagna e Svizzeri, pensò ancora che le leghe, che sono di tanti pezzi, non sono mai d’accordo, [17v] se non in parole. E nondimeno tentò ancora avere qualche parte in Italia e rinnovò la Lega che avea fatta il re Luigi co’ Veniziani e cercò di rimuovere Genova dalli altri collegati, dove era doge Ottaviano Fregoso, il quale il Papa avea favorito assai che tornasse in stato e mai pensava si dovesse partire dalla volontà sua.

Ma Ottaviano, pensando potere male tenere Genova sanza l’amicizia di Francia, rispetto al navicare, et inclinando per molte ragioni che, venendo Francesco in Italia con essercito, dovesse essere superiore ai collegati, si accordò e, di Doge, diventò governatore per il re di Francia, il quale volle la signoria della Città, come era solito avere Luigi.

 

Il Papa, intendendo le preparazioni di Francia, stava molto ambiguo che partito dovessi pigliare. Et essendoli preposto che dovesse dare per donna a Giuliano, suo fratello, Filiberta, sorella del duca di Savoia, la quale era sorella della madre di Francesco che avea grande auttorità a presso al figliuolo, inclinando molto Giuliano a detto parentado, come nobilissimo, vi consentì ancora lui, benché non li pareva conveniente perché conosceva tirarsi dietro spesa insopportabile. Pure stimava, da altra parte, di potere per questo mezzo ritenere il Re, con le parole, dal venire in Italia e, quando non lo ritenesse, se bene li fusse contro, trovare nella vittoria più facili condizioni.

Stette il Papa così dubio qualche settimana perché, accostandosi a Francesco, vedeva che, se era vincitore, restava a sua discrezione e, se perdeva, conosceva che ne seguiva la ruina sua manifesta, et esserci ancora un’altra cosa: che il Re potea farlo scoprire e poi non volere o non potere passare, e lui trovarsi solo in preda de’ collegati. Nello accostarsi alla Lega conosceva che, quando avesse vinto, non lo poteva tanto offendere, perché erano più collegati et era impossibile tirassino tutti a uno segno, e, se uno lo volesse offendere, l’altro lo difenderebbe. Ma dubitava assai che la Lega non avesse a succumbere perché considerava il medesimo ch’el Re, che queste leghe di pezzi non fanno mai cosa buona.

Aggiugnevasi che lo Imperatore e re Ferrando non erano in Italia e, come lo avevano imbarcato, poco penserebbono alla guerra et a lui resterebbe il pensiero e di contentare i Svizzeri e della maggior parte delle altre spese che si avessino a fare. E se egli ne mancava, dubitava che li collegati non li diventassino inimici, i quali già lo avevono sospetto rispetto a’ Fiorentini, che per l’ordinario sono inclinati a Francia, e per il parentado che avea fatto di nuovo con Savoia. Né li pareva potere stare di mezzo perché temeva che li Svizzeri, che erano già sull’arme, [18r] uniti col Viceré, non li togliessino subito Piacenzia e Parma, e che non paresse loro che la sua neutralità fusse il medesimo che dichiararsi in favore del re di Francia.

Finalmente, dopo molte ambiguità e suspensioni, si risolvé entrare nella Lega et opporsi a Francia. E la principal causa che lo inclusse a questo fu che, essendo accordato Ottaviano Fregoso, stimato tanto amico suo, a’ Svizzeri entrò sospetto che non avesse fatto tale accordo di volontà del Papa, e minacciavono, se non si dichiarava, farli la guerra subito. Et il cardinale Sedunense gl’incitava, come quello che era desideroso di novità e non li pareva essere suto remunerato dal Papa secondo meritavono l’opere sue nel Conclavi, si che si collegò più presto per timore che per elezione.

Fatta questa dichiarazione et intendendosi del continuo che il re di Francia sollecitava, i collegati cominciorno a fare il medesimo. E feciono scendere dodicimila Svizzeri, i quali pensorono tenere a Susa, et il signor Prospero, capitano delle genti del duca di Milano, andò con la compagnia sua verso i monti, et il Viceré, che era a Verona, a piccole giornate s’inviò con le genti sue a piè et a cavallo verso Cremona, et a Verona, in suo luogo, andò Marcantonio Colonna, soldato del Papa.

Soldò ancora il Papa più altri capi, e Colonnesi et Orsini e Savelli et il duca d’Urbino e, per l’ordinario, avea Guido Rangoni; et a tutti dette danari. E il dì di san Pietro dette il bastone a Giuliano suo fratello e lo fece generale capitano della Chiesa, il quale era più presto da corte che da guerra. E lo fece inviare verso irenze et ordinò che tutte l’altre genti sue, a piede et a cavallo, lo aspettassino a Piacenzia, dove si dovea fare la massa di tutto lo essercito.

Lorenzo de’ Medici, nipote del Papa, il quale, come io dissi di sopra, come cittadino governava Firenze, intendendo come Giuliano suo zio, nello sposalizio della moglie, avea promesso al conte di Ginevra, fratello di detta sua moglie, che farebbe opera che sarebbe capitano de’ Fiorentini con gran soldo, gli parve che, succedendo, avesse a essere con diminuzione dello onore suo e che li Fiorentini avessino a restare male satisfatti e del Papa e di lui di essere fatti spendere, quando Loro gli dovevano rispiarmare. E pensò di ovviare a questo disegno con fare eleggere capitano sé con intenzione, però, di non volere né genti né denari, ma gli bastasse solamente il titolo, acciò che il Papa e Giuliano si astenessino dalla impresa. Né ancora prese questo partito sanza la volontà del Papa il quale, [18v] quando egli gnene conferì, vi fece molte difficultà, ma in ultimo concluse che quando il Consiglio delli Settanta vi acconsentisse volentieri, che egli ne resterebbe satisfatto, stimando che tale Consiglio non l’avesse acconsentire.

Ma Lorenzo, avendo prima parlato con molti di detto Consiglio e mostro la causa per la quale cercava di essere soldato, ottenne subito il consenso di tutto il Consiglio, il che dispiacque assai al Papa, pure bisognò che avesse pazienzia. Ma disegnò che le genti che avea Lorenzo in condotta in nome, avessino a essere in fatto e ne richiese la città. Lorenzo, vedendo il consiglio suo non succedere perché, dove volea ovviare alla spesa, vedeva bisognava spendere e, dove non voleva che le genti de’ Fiorentini si scoprissino contro al re di Francia, conosceva che, mandandole in Lombardia, seguiva contrario effetto (il che era grande preiudizio alla città, sì per i molti mercanti fiorentini che sono per il regno di Francia, i quali malvolentieri vi potrebbono stare et essercitarsi in faccende, quando la città fusse contro a Francia; sì ancora perché, accadendo che il re di Francia vincesse, dubitava, avendolo offeso, non cercasse torgli lo stato), però fece rispondere al Papa che li Fiorentini non manderebbono le genti sanza capitano, sappiendo che il Papa non acconsentirebbe che lui si partisse di Firenze et ancora non lo manderebbe in campo, dove fusse capitano Giuliano, dubitando non avessino a essere discordi.

Leone, avuta questa risposta, non sapea che partito si pigliare. Ma accadde a punto che Giuliano de’ Medici non fu stato due giorni in Firenze che s’amalò di due terzane, le quali lo afflissono in modo che presto fu conosciuto che il male sarebbe lungo e pericoloso e per questo non era possibile cavalcassi. Onde il Papa si volse a dare il carico che avea dato a Giuliano a Lorenzo. Il quale lo prese malvolentieri, sì perché dubitava che, andando contro al re di Francia, la città non avesse a incorrere la indegnazione di esso e li mercati ne avessino a patire; sì ancora perché conosceva che il titolo che avea preso di capitano, perché la città non avessi spesa né di lui né d’altri soldati, faceva il contrario effetto: et a lui non poteva occorrere cosa più molesta, che dare spesa alla città. Pure, costretto dal comandamento del Papa, ordinò le genti et alli 16 di agosto 1515 sì parti di Firenze insieme col cardinale de’ Medici, che andava a pigliare la legazione di Bologna et ancora era legato in questa impresa.

 

Il re Francesco in questo tempo aveva sollecitato il passare suo, né aveva fatto fare allo essercito né alla artiglieria il cammino di Monginevra, che conduce [19r] a Susa dove erano i Svizzeri, ma l’avea condotta per un’altra montagna, chiamata l’Argentiera, luogo difficile, non che a passarvi uomini e cavalli et a condurvi artiglieria, ma alle capre. Nondimeno la potenzia di uno principe grande, quando vi concorre la volontà, supera ogni difficultà.

Passò con lo essercito suo quello monte e condusse artiglieria e cavalli. Et alli avversari pareva sì impossibile che passasse, che stavano sanza scolte o velette o guardia alcuna e tenevono il campo sparso in più parti, in modo che, sendo alloggiato Prospero con la compagnia sua a Villafranca in Piamonte, distante dal luogo dove lo essercito franzese scese circa miglia sedici, ancora che fusse avertito che li Franzesi erano di qua da’ monti e che facesse buona guardia, non tenne conto di tale avertimento. E certi franzesi a cavallo, con trattato di quelli del castello, furono condotti in detto luogo e trovorono Prospero a desinare e presono lui e tutti li suoi, sanza trarre fuora spada.

Questa presa dette animo grande a’ Franzesi e, per il contrario, invilì i collegati e ciascuno di essi, in particolare, cominciò a pensare a’ casi suoi. Lorenzo, locotenente del Papa, venne avanti a maggior giornate possette e li Fiorentini mandorono con lui commissario Francesco Vittori. E la massa delle genti del Papa si congregò a Piacenzia, dove si trovorono, tra il Papa e Fiorentini, circa seimila fanti et ottocento uomini d’arme.

Il Viceré condusse ancora lui il suo essercito a Piacenzia di quattrocento uomini d’arme e quattromila fanti e fece lo alloggiamento in sul Po, lungi uno miglio dalla terra dove Goro Gheri, pistoiese, governatore di Piacenzia, aveva fatto fare uno ponte in sul Po perché li esserciti potessino passare in qua e in là, secondo il bisogno.

Francesco, poi che fu sceso nel piano di Lombardia et ebbe preso Prospero, fece tentare i Svizzeri d’accordo perché in fatto i gentiluomini franzesi non arebbono voluto venire a giornata con loro, i quali da molti anni in qua avevono acquistate tante vittorie, che erano reputati invincibili.

I Svizzeri prestorono orecchi, e massime quella parte ch’era contraria a Sedunense, la quale fu si gagliarda che minacciò di amazzarlo e lui, impaurito, se ne fuggì a Piacenzia. Ma praticandosi poi tra Franzesi e Svizzeri il modo della composizione et essendo quasi fermo, per poca cosa si ruppe. Et intendendolo Sedunense, col favore de’ suoi partigiani e di qualche cavallo del Papa che condusse seco, ritornò in campo de’ Svizzeri e li riunì e condusse in Milano. Questa pratica de’ Svizzeri col Re tenne molto sospesi il Luogotenente et il Viceré perché dubitavono non si condurre [19v] a Milano, e che i Svizzeri uscissino loro a dosso con uno accordo, e che, dall’altro canto, lo Alviano con l’essercito veneto passasse il Po in Mantuano et assaltasse Parma e Piacenzia, terre in quel tempo deboli et inclinate a’ Veniziani, che li sarebbe facile a pigliarle, e loro si ritrovassino in Milano rinchiusi a discrezione del popolo e non avere essercito da potere combattere con la terza parte dello essercito franzese.

Francesco, intanto, prese Noara e Pavia d’accordo con chi ne avea la guardia e mandò Ioan Iacopo Triulzi verso Milano, pensando che il popolo voltasse. Ma non riuscì perché li Svizzeri erono sì forti in Milano, che tenevono il popolo in timore, onde il Re fu constretto a voltarsi a pigliare tutte le terre e luoghi che erono intorno a Milano.

Il che quando il Viceré intese, sollecitava Lorenzo a passare il Po insieme con lui per ire a occupare Lodi, avanti che li Franzesi lo pigliassino. E questo dicea non perché la sua intenzione fusse così, ma perché Lorenzo negasse il farlo per potere sempre scusare sé e caricare il Locotenente, quando Milano si perdesse. Perché conosceva molto bene che il rinchiudersi in Lodi era andare a perdita manifesta, perché non v’erano vettovaglie, per essere stata di pochi dì messa a sacco dal signor Renzo, quando egli partì da’ Veneziani per ridursi a’ soldi del Papa (e volle monstrare, sendovi ancora l’utile suo, servire ai padroni insino all’ultimo con fede), né era possibile condurvene perché li Franzesi, per essere superiori di numero e di valore, di cavalli e fanti, erano signori della campagna, né poteano sperare di essere aiutati dalli Svizzeri, i quali erano a Milano e, sempre che lo essercito del Papa e del Re fusse uscito fuora per cercare vettovaglie e si fusse incontrato con li avversari, sarebbe stato prima rotto, che li Svizzeri lo avessino inteso.

Nondimeno il Locotenente, conosciuta l’arte del Viceré, disse essere di pronto animo a volere passare il Po. E la sera fece passare la più parte delle genti della Chiesa. E volendo fare passare quelle de’ Fiorentini, Francesco Vittori commissario, alla entrata del ponte, li protestò che li signori Fiorentini non intendevono in modo alcuno che le loro genti andassino a offendere il re di Francia e che erano bene contenti che le difendessino Piacenzia e Parma, terre del Papa, e che stessino a quella guardia, ma non intendevono procedessino più avanti, e che, se egli voleva passare il Po, lo facesse come Locotenente del Papa e non come capitano de’ Fiorentini, e che per niente conducesse seco genti loro, e che, passando, li protestava [20r] che non correva più soldo né a lui né alle genti.

A Lorenzo parve questa proposta animosa e tanto più che non l’aspettava da Francesco commessario. Et avendo fatte passare le genti della Chiesa et essendo passato il Vice<ré> con le sue et alloggiate tutte in su la riva di là da Po, pensò essere bene indugiare la mattina sequente a passare lui e deliberare intanto quello voleva facessino le genti de’ Fiorentini, dubitando massime che Bartolomeo d’Alviano, intendendo che Piacenzia fusse restata sola, non l’assaltasse. E però la notte ordinò circa mille fanti che restassino a guardia di quella e lui determinò passare non come soldato de’ Fiorentini, ma come locotenente del Papa. E giugnendo al ponte con le genti a piedi et a cavallo in ordinanza, trovò che il Viceré era ridotto di qua da Po e le genti sue del continuo seguitavano il ritirarsi.

E perché lui stava ammirato di sì subita mutazione, il Viceré li fece intendere che avea fatto questo perché avea inteso che li Franzesi il dì davanti avevono preso Lodi e che, se loro andavano inanzi per ripigliarlo, i Franzesi erano tanto superiori di forze, che, quando li assaltassino, non vi era remedio a non essere rotti, e che li Svizzeri di Milano non sarebbono a tempo soccorrerli, per essere a piedi e discosto, e che alloggiare di là da Po non era sicuro perché, se si levasse voce che li Franzesi venissino avanti per assalirli, lo essercito loro entrerebbe in tanto timore e confusione, che, avendosi a ritirare per uno ponte solo, da sé medesimo si disordinerebbe e metterebbe in rotta, ma che il modo di vincere la guerra era che li Svizzeri venissino verso Piacenzia e si fermassino in su la ripa di là da Po, e subito le genti del Papa e spagnuole passassino et uniti insieme andassino a trovare l’inimici, e sarebbono sufficienti a combattere e vincere.

Né si dovea dubitare che li Franzesi andassino a trovare i Svizzeri perché loro possono fare cammino riparato assai da fosse, delle quali la Lombardia è piena, e dove li cavalli non si potrebbono punto essercitare. Oltre a questo si conosceva chiaro che li Franzesi non erano per venire alla giornata co’ Svizzeri se non forzati: né ancora si avea a pensare che, quando li Svizzeri pigliassino tale partito, Milano si avesse a perdere, perché vi restava la fortezza bene munita, e che si dovea credere che i Milanesi non avessino a mutinare, insino che non vedevano dove la fortuna inclinava. Il Viceré dicea queste ragioni alle quali non si potea replicare, e nondimeno aria voluto che il carico del non passare si posasse sopra ad altri et arebbe voluto essere tenuto lui lo animoso e che altri fusse stato riputato il rispettoso.

 

Mentre le cose erano in questi termini e che [20v] il Locotenente et  il Viceré sollicitavano i Svizzeri a coniungersi con Loro, e che li Svizzeri facevano instanzia che lo essercito della Lega andassi verso Milano, il re Francesco avea fatto il suo alloggiamento a San Giuliano e San Donato, villette fra Milano e Marignano, distanti da Milano circa miglia sette. Né mancava di tenere la pratica dell’accordo co’ Svizzeri e la avea tanto avanti, che il cardinale Sedunense temeva non avesse effetto, perché il Re era ridotto in luogo che, se li Svizzeri stavono fermi, male poteano sperare la vittoria, e per questo stringeva la pratica il più poteva.

Onde Sedunense confortò li Svizzeri della parte sua ad assaltare i Franzesi, monstrando loro, con la sua lingua usa a predicare, molte ragioni per le quali, faccendolo, sarebbono superiori e che lo onore e utile saria tutto loro, né lo arieno a partecipare con altri, iudicando, quello che seguì, che, come li suoi Svizzeri uscissino alla battaglia, li altri non li vorrebbono abandonare, desiderosi e di aiutarli e di essere compagni alla gloria et alla preda.

Uscirono da principio circa seimila e non più, e li altri poi tutti seguitorono. Et alli 13 di settembre s’appiccò la zuffa, che era circa ore ventidue. I Svizzeri, non avendo cavalli e sendo venuti sette miglia ad assaltare i Franzesi nelli loro alloggiamenti, giunsono lassi e trovorono li avversari freschi. Nondimeno, ne’ primi impeti, i Lanzichinech e Guasconi et altri fanti che conduceva Pietro Navarra piegorono e, se il Re in persona non entrava nel mezzo de’ Tedeschi a ritenerli con prieghi et essortazioni e minacci che non fuggissino, la battaglia andava male per lui, ma la prudenzia e fortezza sua riparò a molti disordini.

Durò la battaglia insino a due ore di notte, né si vedea ancora dove la fortuna volesse inclinare. La sera, i Svizzeri, che erano usciti di Milano sanza ordine, ebbono poco o niente da mangiare e bere; la notte stettono allo scoperto armati, sanza mai posare. I Franzesi riordinorono lo essercito e lo rinfrescorono di viveri et indirizzorono le artiglierie dove iudicorono fusse necessario, in modo che la mattina, a bona ora, apiccorono di nuovo la zuffa et in due ore ottennono la vittoria con perdita, però, di alcuni signori de’ primi di Francia, e di assai gentiluomini et arditi cavalieri.

L’Alviano, sendo arrivato la sera a Lodi et intendendo del fatto d’arme incominciato, si partì a mezza notte e, non potendo essere seguito dallo essercito, si spinse avanti con celerità con circa sessanta cavalli e giunse quando già li Franzesi avevono avuto la vittoria, ancora che egli, come glorioso, e così li Veniziani attribuiscono questa vittoria in gran [21r] parte a loro, ma in fatto non vi ebbono participazione alcuna.

La vittoria fu grandissima. Nondimeno i Svizzeri, così rotti, ritirorono l’artiglieria con le loro proprie braccia in Milano e, benché la fama si spargessi che nella giornata ne morissino dodicimila e chi dice di manco dice di ottomila, io ardirei di dire che non passorono quattromila perché, come è detto, ritirorono l’artiglieria, il che non potevono fare se non ve ne fussino restati vivi assai. Et il giorno sequente, in ordinanza si partirono di Milano per ritornarsene a casa, ancora che si partissino molti di loro feriti.

Come la rotta s’intese in Milano, i più intimi e familiari del Duca se ne entrorono in Castello da lui, et il popolo mandò ambasciadori al Re, i quali apuntorono: et il Re diventò signore di Milano e di tutto quello teneva il Duca, eccetto che il Castello.

A Piacenzia, dove era il Viceré e Lorenzo, ancora che fussi poco più distante di miglia trenta dal loco dove si fece la giornata, il fatto s’intese variamente, perché venne la prima nuova che li Svizzeri erano vittoriosi, e durò questa opinione tutto il dì 14 di settembre, la notte poi venne il vero, che lo scrisse Lodovico Canossa, vescovo di Tricarico, nunzio del Papa a presso il re Francesco, il quale non avea voluto lo seguitasse in campo, ma fu contento restasse a Turino.

Ma intendendo Leone che li Svizzeri tenevono pratica d’accordo e nessuno provedere danari altri che lui, cominciò a voltare l’animo a convenire con Francesco e fece che Lorenzo mandò in campo Benedetto Bondelmonti, il quale parlando col signor Ioan Iacopo circa lo accordo, parve a detto signore che, per facilitarlo, Tricarico venisse dal Re, e mandò per lui un corriere.

Tricarico venne subito e giunse in campo poco avanti si cominciasse la battaglia. E, ragionando col Re del modo del convenire, lui gli disse: « Io non posso finire ora il ragionamento, perché sono forzato ire alla battaglia. Se io perdo, il Papa non arà da curare di convenire meco, se io vinco, farò il medesimo che farei al presente, e la vittoria non mi farà sì insuperbire, che io voglia mutare condizioni col Papa.

Quando il Viceré intese il vero a punto, di nuovo metteva animo al Locotenente che era da mandare a’ Svizzeri e confortarli e con danari e con promesse a scendere i monti, e che Francesco per questa vittoria non era più gagliardo che prima. E diceva molte ragioni, se non demostrative, verisimili. Le quali Lorenzo udiva, ma non lo persuadevono, perché in fatto vedeva il nervo della guerra essere la pecunia e che il pondo di provederla restava tutto addosso al Papa, [21v] il che gli era impossibile. Però di nuovo mandò Benedetto Bondelmonti in campo a Tricarico a persuaderlo che concludesse in qualunque modo convenzione tra Francesco e Leone. E certo si può dire che la destrezza et ingegno di Tricarico fusse causa che il Re non procedesse a destruere lo essercito ispano e quello della Chiesa.

E di già monsignore di Lautrec era venuto avanti con settecento lance per fare uno ponte in sul Po, a rincontro di Pavia, e l’Alviano confortava il Re a seguitare la vittoria la quale se lui seguiva, era facil cosa che lui diventasse signore d’Italia. Ma la mala fortuna d’essa, che la voleva riservare a maggiore flagello, non volle che quella venisse in mano di sì bono et eccellente Principe, sotto l’ombra del quale sarebbe potuta riposarsi molti anni in pace, e li fece mettere avanti al signor Ioan Iacopo Triulzi ragioni assai e rispetti, di quelli che hanno i vecchi prudenti, cioè che non era da entrare in nuove imprese perché li Svizzeri, esasperati per questa rotta, scenderebbono di nuovo più feroci che mai, che l’Alamagna si unirebbe tutta, quando intendesse volesse occupare Italia, che il re d’Inghilterra, temendo la grandezza sua, li moverebbe in Francia et il re Ferrando farebbe il medesimo, e che attendesse a godere la vittoria e conservarla.

Ragioni che non sono così vere, come appariscono, perché una vittoria sì grande, come era stata questa di Francesco, avea sì tolto lo animo all’inimici suoi, che non si doveva lasciare loro ripigliarlo, ma era da seguire la vittoria, sanza mettere uno momento di tempo in mezzo e pigliare essempio da Iulio Cesare, il quale fu maestro di sapere vincere.

Ma lo averso fato d’Italia fece che il Re inclinò alla composizione, la quale Tricarico concluse di ordine del Locotenente, perché l’uno e l’altro sapevano che così si contentava Leone. E rimasono al Re Piacenzia e Parma, che soleano essere dello stato di Milano e nella convenzione furono molti altri capitoli, i quali fu fatto tempo al Papa dieci giorni a ratificare. E fatto questo accordo, il Re entrò in Milano e, benché piantasse l’artiglieria al Castello che Pietro Navarro, a chi avea dato questa cura, gli promettesse in pochi giorni la espugnazione di quello, non volle l’ultima vittoria, ma fu contento pigliarlo a patti da Massimiliano, al quale promesse ciascuno anno scudi trentacinquemila di pensione. E preso che ebbe il Re il Castello, si dimesse la guerra e le genti s’alloggiorono per la ducea in vari luoghi, e una parte n’andò in favore de’ Veniziani verso Brescia, sotto il governo del Bastardo [22r] di Savoia.

 

Leone, intesi che ebbe i capitoli, tutti li confermò, eccetto uno che conteneva che quello dovessino pagare i Fiorentini a Francesco, per esserli stati contro in questa guerra, fussi rimesso nel duca di Savoia. Questo capitolo per niente il Papa volle ratificare, dicendo che non era conveniente che lasciassi i Fiorentini a discrezione del duca di Savoia, i quali non aveano fatto guerra contro al Re e, quando l’avessino fatta, erano stati tirati da lui al farla contra loro volontà.

Approvati che furono i capitoli, e messi in gran parte in essecuzione, il Papa ordinò a Lorenzo che andasse a fare reverenzia al Re a Milano. E li Fiorentini vi mandarono Francesco Vittori e Filippo Strozzi, i quali avevano eletto oratori insino quando fu incoronato, ma, rispetto alla guerra, non erano potuti andare. Ebbeno in commissione, insieme con Francesco Pandolfini che era ambasciadore prima a presso al Re, di rallegrarsi che lui fusse venuto al regno e della vittoria ottenuta.

Fece il Re grande onore e carezze a Lorenzo e, per stabilire una ferma amicizia col Papa, deliberò andarlo a trovare insino a Bologna, dove il Papa si conferì con tutti li cardinali e prelati et officiali di corte: et il Re poi venne con la corte sua, che non fu di più che cinquemila cavalli, computati tra questi quelli che portono carriaggi et altri impedimenti. E mostrò Francesco gran confidenzia in Leone, e Leone in lui; e fu alloggiato in Palazzo et incontrato prima da prelati, poi da vescovi, poi da arcivescovi, poi da due cardinali che vennono insino a Reggio, et in ultimo da tutta la corte. Il Re li dette la obedienzia in Concistorio pubblico et alli 13 di dicembre, che fu il dì di santa Lucia, il Papa cantò solenne messa in Santo Petronio, presente il Re e tutta la corte sua. Et alli 15, Francesco si partì benissimo satisfatto dal Papa e compiaciuto di parole e promesse di quasi tutto quello li domandò, che lo pregò, in tra l’altre cose, che restituisse al duca di Ferrara Reggio e Modona, per posare una volta Italia. Et il Papa acconsentì di farlo, pure che li fussino restituiti li danari avea dati allo Imperatore per ricuperare Modona.

Ricercò ancora che perdonassi a Francesco Maria della Rovere, duca di Urbino, la offesa li avea fatta dello avere preso soldo da lui e poi non voluto cavalcare quando fu ricerco, ma tenuto pratiche strettissime con Francia; e fu openione fusse convenuto seco, ma di questo non si mostrava cosa alcuna. Il Papa non volle  consentire a tale [22v] domanda, dicendo che voleva punire i sudditi suoi secondo i delitti.

Tornossi Francesco a Milano, e Leone prima a Firenze e poi a Roma; e Lorenzo seguitò Francesco insino a Milano, dove stette insino che lui partì per irsene in Francia. Et a requisizione de’ Veniziani, non avendo fatto il Bastardo di Savoia effetto, mandò il signor Ioan Iacopo Triulzio con genti a espugnare Brescia.

 

Il Papa, prima che fusse a Roma, fu ricerco dal duca di Ferrara di osservare quanto avea promesso al Re. Et ancora che detto Duca dipositasse i danari che il Papa avea sborsato per Modona, fu tenuto più dì in speranza e bone parole, ma non si venne a conclusione.

 

1516

Francesco se n’andò di là da’ monti in poste e prese il cammino verso Provenza, dove trovò la madre e la moglie ite alla divozione di santa Maria Maddalena. E tornandosene verso Lione, ebbe nuova, in Avignone, come Ferrando, re di Spagna, era morto. Né si può dire non morisse un grande et eccellente principe, perché di piccolo Re diventò grandissimo. È vero che è dannato come uomo di poca fede perché avendo promesso al re Federico d’Aragonia, suo cugino, di aiutarli difendere il Regno di Napoli e mandato in suo aiuto genti per mare, sotto il governo di Consalvo Ferrando suo capitano, a un tratto, quando Federigo credette che tali genti li fussino in favore, li furono contro. Et intese che Ferrando era convenuto con Luigi re di Francia e diviso tra loro quel Regno, onde Federigo fu costretto mendicare in Francia e cercare la misericordia di quel Re, la qual pensò trovare maggiore che quella del cugino. Nondimeno lui si escusava dicendo che Federigo non era sufficiente, ancora con l’aiuto suo, difendere il Regno, e che fu pur meglio con accordo cercare che una parte ne rimanesse nella casa d’Aragonia, che si perdesse tutto; e più, sapeva che Federigo, sanza tenere conto di lui o di suo capitano, teneva strette pratiche con Francia e che lui prevenne avanti le concludesse.

È ancora da qualcuno ripreso d’avarizia. Et io sono forse in errore, ma iudico che non si debbe attribuire questo vizio a un principe il quale non grava i sudditi suoi di essazioni estraordidinarie, non fa accusare oggi questo e domani quello, per estorquere da loro le pecunie iniustamente, non lascia che li ministri suoi succino le sustanzie de’ poveri, per spogliarli poi di quelle quando sono fatti [23r] ricchi, e più presto si astiene dal donare a’  servitori, buffoni, cinedi et uomini di simil qualità. Et uno principe che vive in questo modo io, non avaro, ma liberale chiamerei. Ma interviene che, de’ cento che usano le corti, ve ne sono novantanove bisognosi e che in loro piaceri vogliono spendere più che non possono. E perché il Principe a dare loro inclini, a uno principe rubatore e prodigo, danno il nome di liberale; a uno astinente di quello d’altri e vero liberale, danno il nome di avaro.

È biasimato ancora che si dilettava di giucare. Né io sono tanto ardito che presumessi, contro una opinione inveterata, lodare il giuco, né ancora mi risolvo a dannarlo in uno uomo grande e, se bene uno principe doverebbe sempre stare occupato in offici laudabili et utili alli popoli, quando essamineremo la vita delli principi passati, non danneremo in modo alcuno quelli che, per fuggire ozio e passare malancolia, della quale questa nostra vita è piena, si dilettono qualche volta di giucare, massime se lo fanno sanza venire in collera, sanza fraude e sanza avarizia. E Ferrando intendo che nel giuoco mai si turbava, che giucava liberissimamente e che quasi sempre perdeva, e spesso perché voleva perdere. Et io non so dove uno uomo grande possi mostrare maggior liberalità che nel giuoco, perché è proprio del liberale volere che quello in chi conferisce il beneficio non li sia obligato, né conosca di esserli: e questo accade proprio a uno principe, quando si lascia vincere giucando.

Morì Ferrando pieno di anni, ancora che si promettessi assai più lunga vita. E lasciò erede di tutti li stati suoi, et in Spagna et in Italia et altrove, Carlo, figliuolo della sua prima figlia, nato di Filippo, figliuolo di Massimiliano imperatore, che dovea essere allora di età di anni sedici. Lasciolli ancora il regno di Navarra, la quale avea di poco tolto al Re che la possedea.

Et essendo domandato, alla morte, dal confessore come volessi disporre di quel regno, il quale avea tolto ad altri, rispose che lo avea tolto a chi ne solea essere signore, perché papa Iulio lo avea escomunicato e privato del regno come scismatico; e che s’el Papa era Vicario di Cristo in terra, come lui credeva, teneva con più iustizia quel regno che stato ch’egli avesse.

 

Il re Enrico d’Inghilterra, quando intese che Francesco avea preso la ducea di Milano [23v] e rotto i Svizzeri, pensò di fare dopo la vittoria quello dovea fare avanti pigliasse la impresa, dubitando che non diventasse tanto grande che li fusse formidabile. E con suoi ambasciadori sollevò di nuovo i Svizzeri i quali, benché dopo la rotta avessino ferma certa convenzione con Francia, non erano stati tutti uniti, ma vi erano di loro cinque Cantoni che vollono restare nella nimicizia, i quali furono contenti pigliare danari da Enrico.

Lo Imperatore, ancora che si dilettava oltre a modo di ordire guerre, s’offerse a Enrico di essere presto a passare in Italia per ricuperare lo stato di Milano, pure che lui gli dessi danari. E lui et Enrico per loro ambasciatori tentorono il Papa, il quale credevono che malvolentieri avessi lasciato Parma e Piacenzia, e li offerseno, quando ripigliassi quello stato, rendergliene. Ma lui non si volle scoprire, dubitando della varietà dello Imperatore, della poca fede e troppa avidità de’ Svizzeri, ma non si oppose al principio con le parole gagliarde, né ancora poi co’ fatti come Francesco arebbe voluto e come li pareva fusse obligato, secondo i capitoli erano tra loro.

Lo Imperatore adunque, avendo avuti danari da Inghilterra, venne in Italia nel principio della primavera dell’anno 1516 e menò circa quindicimila Lanzichinech et altanti Svizzeri pagati pure dal re d’Inghilterra.

Francesco, quando partì da Milano, vi lasciò governatore il duca di Borbone e, sendoli dipoi riferito che detto Duca non avea sincero animo verso di lui, vi mandò locotenente Odetto di oes, chiamato monsignor di Lautrec, uomo essercitato assai in guerra et ardito cavaliere. E vi providde di fanti et, intra li altri, di diecimila Svizzeri di quelli Cantoni che erono d’accordo seco, e mandovvi più gentiluomini della sua corte. Nondimeno i Franzesi non confidorono tenere la campagna né li passi de’ fiumi e sempre si ritirorono in modo che lo Imperatore condusse il suo essercito presso a Milano a tre miglia: e li capitani franzesi, che vi erano ridotti dentro, consultavono già tra loro se era da abandonare Milano e ridursi a guardare le terre di qua da Po.

Lo Imperatore, come intese che il Re avea diecimila Svizzeri in Milano, prese diffidenzia di quelli avea in campo e, ricordandosi quanto facilmente i Svizzeri sono usi a essere corrotti da’ Franzesi, li entrò sospetto non lo dessino pregione come già altra volta avevano dato il Moro e, secondo il suo costume, dette volta indrieto; né lo potette mai persuadere Galeazzo Visconti, nobile [24r] milanese che avea avuto il carico di condurre i Svizzeri, a non dubitare di loro. E la prima ritirata fece a Lodi, dove venne Prospero Colonna, quale era stato pregione in Francia più mesi et, avendo pagato parte della taglia, era suto libero dal Re con certe condizioni. E confortò Massimiliano a non desistere dalla impresa, mostrandoli quanto la Francia fusse essausta di danari e con quanta debolezza i Franzesi erano in Milano, dove era stato qualche giorno.

Ma non fece frutto alcuno, né fu possibile che a passo a passo non si ritirasse in Alamagna, lasciata ancora con poco presidio Brescia, la quale intra pochi giorni s’accordò co’ Franzesi e loro la renderono a’ Veniziani. Seguirono poi li Franzesi di andare verso Verona con intenzione di sforzarla, sì per osservare i capitoli a’ Veniziani, sì ancora perché allo Imperatore non restasse questo piede in Italia, donde spesso potessi fare insulto allo stato di Milano.

 

Il Papa, poi che lo Imperatore se ne fu tornato in Alamagna, pensò di vendicarsi della iniuria li avea fatto il duca d’Urbino nella passata del re di Francia e di torli lo stato. E benché la Duchessa vecchia, quale era suta moglie di Guido Ubaldo, andasse a Roma e raccomandasse al Papa la nipote, moglie di Francesco Maria, e destramente li riducesse a memoria l’obblighi avea con suo marito, non poté fare effetto alcuno. E tanto meno potette operare perché era di pochi giorni inanti morto Giuliano, fratello del Papa, dopo che era suto malato dieci mesi, il quale avea grande affezione e reverenzia alla sopradetta Duchessa, per essere stato, quando era in bassa fortuna, assai onorato da lei e dal marito.

Di questo si può dire che fusse veramente bono orno, alieno dal sangue e da ogni vizio, e si può chiamare non liberale, ma prodigo, perché donava e spendeva sanza considerazione alcuna donde dovessino uscire i danari. Dilettavasi avere a presso di sé uomini ingegnosi et ogni cosa nuova voleva provare. Pittori, scultori, architettori, alchimisti, inventori di miniere erano condotti da lui con tanto stipendio, quanto non era possibile pagassi. Morì in Firenze e furono celebrate le essequie sue con pompa grandissima.

Volle Leone che Lorenzo facesse la impresa d’Urbino, ancora che lui la facessi contro a sua voglia perché conosceva che, come quello stato era facile a pigliare, così era facilissimo a perdere.

Ma il Papa diceva [24v] che, se non privava il Duca dello stato, el quale si era condotto con lui e preso danari et, in su l’ardore della guerra, era convenuto con l’inimici né pensato che era suo suddito, né altro, che non sarebbe sì piccolo barone che non ardisse di fare il medesimo o peggio, e che, avendo trovato il pontificato in riputazione, lo voleva mantenere. Et in fatto, volendo vivere i pontefici come sono vivuti da molte decine di anni in qua, il Papa non poteva lasciare il delitto del Duca impunito.

Non durò Lorenzo molta fatica, né consumò molto tempo in spogliare Francesco Maria di tutto lo stato di Urbino, et in ultimo li tolse Pesero e la fortezza. Et in pochi mesi la terra e fortezza di San Leo, che è tenuta cosa inespugnabile, pur con ingegno fu presa. Né mi estenderò a dire il modo particulare perché, ancora che questo luogo abbi gran fama, non merita però se ne parli a lungo. Francesco Maria con la moglie e figli si ridusse a Mantoa, al marchese Francesco suo suocero.

 

Come lo Imperatore fu partito dello stato di Milano, Carlo di Borbone si ritornò in Francia, né li parve che li fusse saputo da Francesco quel grado di avere in tanto pericolo conservato lo stato di Milano, che li pareva meritare. Rimase governatore della ducea di Milano e locotenente del re di Francia in Italia Odetto di oes, il quale, presa che fu Brescia, attese insieme con lo essercito veneto, che avea per capitano Teodoro Triulzio, a seguitare la impresa contro a Verona per tôrla allo Imperatore, dove era a guardia Marcantonio Colonna, uomo, e per esperienzia e per ogni altra qualità, eccellentissimo nell’arme.

Restò, come io dissi di sopra, erede di tutto lo stato, che teneva Ferrando d’Aragonia, Carlo d’Austria, suo nipote, al quale molti anni inanti era suta promessa da Luigi xii di Francia Renea, sua figliuola, in certo accordo che detto Luigi avea fatto con Ferrando, del quale s’era poi mancato, e per l’una parte e per l’altra, in molte cose. E però pareva necessario che tra Carlo e Francesco re di Francia, se avevano a stare in pace, si venisse a nuova composizione.

E per questo Artù di Buissì, gran maestro di Francia, in cui il Re avea tutta la fede sua, andò a Nojon, ne’ confini di Piccardia, dove venne monsignor di Ceures, il quale avea governato e governava Carlo pacificamente. E dopo molte dispute, venneno a nuove convenzioni e disfeciono il mariaggio, [25r] fatto prima, di Renea, allegando che ella era di troppa età. E Carlo promisse pigliare Luisa, figliuola di Francesco, che aveva due anni et, insino non consumava il matrimonio, dare ciascuno anno a Francesco scudi centomila per conto del Regno di Napoli, la metà del quale s’intendesse appartenesse a Francesco, come in due altre capitulazione fatte tra Luigi e Ferrando si monstrava, e che avesse a essere la dota di detta Luisa. E così fermarono lega, amicizia e parentado.

E perché il verno si approssimava, che renderebbe la espugnazione di Verona più difficile (massime che a difesa di quella erono concorsi quasi tutti li Spagnuoli che erono soliti stare nel Regno di Napoli, uomini cappati et usi a fare la guerra con pochi danari e pochi viveri) però monsignore di Ceures, che iudicava che fusse a proposito che il padrone suo stesse in pace e non spendesse per lo Imperatore, e sappiendo che lui non avea modo di mandarvi nuovi omini né di dare danari a quelli che vi erono, cominciò a trattare con Massimiliano che lui la lasciasse pigliare a’ Veniziani, a’ quali non la liberasse né concedesse, ma, in uno certo modo, chiudesse li occhi e ne cavasse le genti, acciò loro la potessino pigliare, et avessi da loro certa somma di danari e s’intendessi tra lui e Veniziani fatta tregua per tre anni.

E dopo molti omini che andorono a torno, e dopo molte proposte e risposte, si fermò la convenzione nel modo sopradetto. E li Veniziani riebbero Verona, da loro tanto desiderata, donde uscirono circa cinquemila spagnuoli i quali, secondo i capitoli, avevono a potere andare sicuri nel Reame.

 

Leone, come Lorenzo ebbe preso il ducato di Urbino, volle dargliene in titolo et in Consistorio lo fece eleggere duca, avendo, avanti facessi la impresa, privato nel medesimo modo Francesco Maria. Lorenzo per niente non arebbe voluto tale titolo di ducato, perché conosceva che i popoli amano i principi quando ne tralgono profitto e che tre duchi, che vi erano stati prima, avevono avuto i popoli affezionati perché, avendo soldi grossi da questo principe e quell’altro, mettevono del continuo nello stato danari e non ne traevano, edificavono, facevano cultivare, stavano in sul loco, e pascevano molti omini con pensioni e soldi, come fanno le corti. Ma lui, che non era per potere stare in quello stato e che era forzato trarne le imposizioni ordinarie per il soldo de’ governatori et altri officiali, bargelli, guardie di rocche e simili cose, et essendo [25v] il paese povero et i popoli inclinati a’ signori vecchi, e Francesco Maria vivo, vedeva che ogni piccolo tumulto gli faceva perdere quello stato e che da una perdita ne potrebbono seguire delle altre. Ricusò quanto potette. Ma come poteva lui opporsi al zio Papa et alla madre che non restava di incitarlo e sollecitarlo a diventare duca?

 

1517

Francesco Maria, in questo tempo che durò la guerra a Verona  sendo rifuggito a Mantoa, prese stretta familiarità con Lautrech con l’aiuto di Federigo Gonzaga, signore di Bozzolo, il quale si teneva offeso dal Papa e cercava occasione di vendicarsi. Questi due, et insieme e di per sé, instillorono nelli orecchi di Odetto che Francesco avea potuto cognoscere la fede del Papa nella venuta dello Imperatore a Milano; e che questo era uno potente Papa perché, oltre allo stato della Chiesa, avea quello di Firenze e nuovamente disponeva di Siena, donde pochi mesi inanzi era stato per opera sua cacciato Borghese Petrucci che governava quello stato, e messo in suo luogo Raffaello, pure Petrucci, vescovo di Massa, il quale dependea tutto da lui et era nutrito sempre seco, e nel principio del pontificato lo avea fatto castellano di Castello Santo Angelo, che si dà a’ più confidenti amici e servitori che il Papa abbia; e che non era da lasciarlo fermare in modo che potesse congregare danari perché, se ne congregasse, piglierebbe animo di volere cacciare e Francesco del ducato di Milano, e Carlo del Regno di Napoli; e che si voleva molestarlo subito, inanzi che morissino alcuni cardinali vecchi che l’odiavono, e prima che potesse fare collegio da poterne disporre; e che, sanza che rancesco si scoprisse, pure che chiudesse li occhi, pensavano con poca fatica in pochi poterlo condurre in tanti travagli, che arebbe a ricorrere a Francesco e gittarsi tutto nelle braccia sue; e che egli gli potrebbe fare rendere lo stato di Urbino e restituire Reggio e Modona, e farlo lasciare il governo di Firenze e mutare quello di Siena: et in effetto lo ridurrebbe uno papa da farne più presto a modo suo, che da temerlo.

Lautrec, parendoli che nella venuta dello Imperatore il Papa non si fusse portato come dovea, et avendo in odio, per l’ordinario, tutti l’Italiani, e massime i preti, porse li orecchi a queste parole e gustò le ragioni e lasciò che Francesco Maria e Federigo ragunassino i fanti spagnuoli, che uscirono di Verona, e delli altri italiani e, del campo suo, quelli che vollono essere con loro, in modo che feciono assai bono essercito.

Se Odetto fece questo [26r] o permesse con volontà del Re o no, io non ardirei scrivere, perché Francesco affermava non ne avere inteso cosa alcuna et io non posso, né debbo, né voglio non prestare fede alle parole di un tanto Re.

Vennono dunque Federigo e Francesco Maria con detto essercito in Ferrarese, e quivi, con qualche favore del Duca, passorono il Po et erono già in Romagna quando a Roma se ne ebbe notizia vera.

 

Il Papa pensava a ogni altra cosa che guerra et era tanto possibile che lui tenesse mai mille ducati insieme, quanto è possibile che una pietra vada in alto da per sé. Lorenzo era a Roma, malato di doglie che lo tormentavano grandemente. I condottieri del Papa erono poco satisfatti da lui, perché non dava loro danari come arebbono voluto e loro erano disordinati, perché tutti volevano imitarlo nello spendere.

Comincia ad accattare danari, che è cosa che toglie la riputazione al principe nel principio della guerra, solda con essi fanti, danne alli condottieri di genti d’arme. Lorenzo corre così malato in Romagna in poste, dove vanno subito Renzo da Ceri, Guido Rangoni e Vitello Vitelli. Ma non fu possibile vi conducessino sì presto tante genti da potere ritenere che Francesco Maria non entrasse nello stato d’Urbino. Disputossi tra detti condottieri del Papa come era da governare questa guerra.

Lorenzo diceva che in questo principio il Papa avea pochi danari e che il migliore partito potesse pigliare era di soldare quattromila fanti e dividerli per le bone terre dello stato di Urbino, e guardarle bene con levarne ancora li uomini sospetti; e che la stagione non pativa, sendo nel mese di febraio, che li avversari potessino campeggiare terre; e che, come avessino corso un poco pel paese e predato quel poco troverranno, non entrando in bone terre donde possino trarre danari, né avendone Francesco Maria da sé da poterne dare alli suoi fanti, che presto si risolveranno. I condottieri, e massime Renzo, a’ quali nel durare la guerra pareva guadagnare danari e riputazione e ridurre il Papa debole et in necessità, dicevono si facesse essercito grosso, col quale si potesse andare a trovare i nimici e rovinarli perché, quando bene al presente non riuscissi loro altro che ridursi nel Regno salvi, ogni dì moverebbono di questi insulti e porrebbono taglie al Papa, e che nello stato d’Urbino non erano bone terre, e che bastava guardare Urbino.

E mentre consultono e non deliberono e che non si risolveno né Renzo né Vitello chi di loro due vadia in Urbino, secondo che [26v] Lorenzo, locotenente in quello essercito del Papa, aveva  comandato loro, Francesco Maria passò con l’essercito suo et in pochi dì, col favore de’ popoli, ridusse tutto quello stato in sua potestà, eccetto Pesero e San Leo. Et a Pesero pensorono le genti del Papa fare testa. E Leone mandò subito a Milano a dolersi con Lautrec di questo insulto e domandarli aiuto.

Odetto, benché monstrassi dolergnene, dicea che il Papa si avea causato questo male da sé medesimo per avere lasciato passare per il paese suo li Spagnuoli alla sfilata, perché andassino a soccorrere Verona, contro alli capitoli avea col suo padrone, e che lui non manderebbe gente in suo favore, sanza commissione del Re, e che li restavano a presso certe reliquie di fanti franzesi e guasconi i quali, quando egli dessi loro danari, andrebbono in sua difesa.

Quello che era mandato dal Papa, parendoli che lui avesse necessità di soccorso presto, intesa questa offerta, subito li accettò e dette qualche somma di danari a’ capi, promettendo che non indulgerebbe molto a dare il resto. Mandò ancora Leone a dolersi di questa iniuria a Francesco in Francia et a Carlo in Fiandra. Francesco rispose che era presto a osservare i capitoli e che, secondo quelli, era tenuto aiutarlo con quattromila cavalli e seimila ducati il mese, e tanto provederebbe, e che scriverrebbe a Francesco Maria et a Federigo che desistessino dalla impresa. E providde a’ danari e scrisse a Lautrec che mandasse quattrocento lance in favore del Papa.

Lo Imperatore rispose che ordinerebbe alli suoi che si ritraessino da molestare il Papa, ma furono tutte parole. Li avversari seguivono e Lione non arebbe voluto che li quattromila fanti, soldati a Milano dall’orno suo, venissino in suo favore, sì perché con difficoltà potea fare tale spesa, sì perché dubitava non lo ingannassino. Ma Lautrech dicea che sendo restati in Italia a instanzia del Papa, se non li venivono in favore, gli verrebbono contro, e che egli non li potrebbe ritenere. Mandò ancora detto Lautrec dugento lance, delle quattrocento li commisse il Re, in favore del Papa, le quali avevono capi italiani affezionati a Francesco Maria.

 

Leone, trovandosi in una guerra tanto pericolosa et iudicando che Francesco e Carlo li avessino tesa questa rete a dosso per batterlo, pensava a tutti i rimedi possibili per liberarsene, ma si trovava in troppa scarsità di danari, e massime perché la opinione di Renzo prevalse a presso al Papa di fare essercito grosso. E conclusse gran numero di fanti guasconi, svizzeri, spagnuoli, tedeschi et italiani e non potea ragunare tanti danari da potere dare loro una paga a un tratto. E quando avea pagato Guasconi [28r] et Italiani, mancavono danari pe’ Svizzeri, quando avea pagato i Svizzeri, mancavono per li altri.

Aveva questa guerra un’altra difficultà che il paese, dove la si maneggiava, era tutto dedito a Francesco Maria in modo che l’essercito del Papa pativa assai di vettovaglie, e le genti d’arme mandate da Lautrec ne consumavono sanza risparmio per far maggior disordine. Per questo Lorenzo era deliberato tentar una volta la fortuna di venire alla giornata e seguissi come volessi, ma Renzo e Vitello, sopra i quali il Papa avea posata la guerra, dissuadevono il combattere.

Et essendo lo essercito del Papa in sul fiume del Metro copioso di fanti e cavalli, ché vi era venuto oltre alli condottieri sopranominati Gian Paulo Baglioni con bona banda di cavalli, e volendo li inimici passarlo, perché nol passando pativano di viveri, Lorenzo si volle opporre et ordinò la battaglia. E già gli avversari erano entrati nel fiume per passare et avevano grandissima dificultà

Lorenzo, avendo conosciuto l’arte de’ condottieri, mandò Benedetto Bondelmonti a far intendere a Leone quello era seguito, e che, essendo suo locotenente in nome, voleva essere ancora in fatto, e che era bene contento pigliare consiglio con i condottieri, ma voleva poi deliberare da sé medesimo, e che altrimenti non voleva stare in campo, perché vi starebbe con troppo suo vituperio.

E volendo intanto ripigliare Mondolfo, castello del Vicariato, perché vi erono molti viveri, e faccendo, nel pigliarlo, l’officio del capitano e soldato, fu ferito di uno scoppietto nella testa e fu constretto lasciarsi portare per mare in Ancona a curarsi, perché la ferita fu molto pericolosa.

 

Il campo del Papa restò in tanto pericolo e disdetta, che sempre che alcuno di quello si scontrava, o per arte o a caso, con li avversari, ne andava col peggio. I condottieri erano divisi tra loro, i fanti non ubidivano a nessuno et attendevono solo a rubare li amici e farsi pagare, et, essendo di tante nazioni, spesso combattevono intra loro.

Leone, avendo notizia di questi disordini [28v] si volse a mandarvi legato il cardinale di Bibbiena, omo molto destro nelle azioni del mondo, ma della guerra al tutto inesperto. E però in campo non condusse seco riputazione, pure lo riordinò alquanto, ma non di qualità che l’inimici non pigliassino animo a uscire dello stato di Urbino et andare verso Perugia. E sendo stati certi dì intorno a quella, Giampaulo, con accordo, li fece partire perché providde che li Perugini dettono a Francesco Maria scudi seimila. Il quale, ritirato con li suoi, si voltò verso Anghiari et il Borgo, terre de’ Fiorentini, dove trovò maggiore difficultà che nelle terre della Chiesa. Et il Borgo, ancora che avesse le mura deboli e vi fusse una parte che aderisse a Francesco Maria, nondimeno, per diligenzia et animo di Luigi Guicciardini, che v’era commissario pe’ Fiorentini, si salvò.

 

Lorenzo, dopo che fu stato malato tre mesi in Ancona, per la diligenzia de’ medici fu libero. E tornato prima in Firenze e poi andato verso il Borgo, ridusse in modo le genti sue, che l’inimici cominciorono a temere.

Accadde ancora che Carlo e Francesco, come principi grandi, non stavano sanza sospetto l’uno dell’altro e ciascuno di loro dubitava che Leone non tirassi l’altro alla volta sua, e però ognuno di loro pensò essere il primo a levarli la guerra da dosso. E Carlo mandò in campo di Francesco Maria don Ugo di Moncada; e rancesco mandò a Roma monsignor dell’Escù, fratello di Lautrech, e don Ugo praticò con li fanti spagnuoli, che erono con Francesco Maria, e l’Escù fece tenere pratica co’ Guasconi et altri Franzesi che erono in quel campo. E finalmente, con certi danari che il Papa promisse a l’una nazione et a l’altra, si venne a composizione, nella quale si dispose che Francesco Maria lasciassi libero il ducato d’Urbino e se ne potessi tornare sicuro a Mantoa. E seguiti questi effetti, ebbe fine una guerra che dette al Papa grandissimo travaglio e spesa, quale non si crederebbe.

 

E non ebbe solo Leone la guerra fuora, ma ancora in Roma, perché scoperse una coniurazione di tre cardinali, San Giorgio, Petrucci e Sauli, quali operavano levarlo di terra con veneno. E ritenuti in Castello et essaminati, confessorono che lo sapevano due altri cardinali, Volterra et Adriano.

Volterra in consistorio non si scusò in tutto né accusò, ma subito che uscì di Palazzo se ne andò a Fondi. Adriano, ancora lui, benché il Papa gli volesse perdonare, si partì. E l’uno e l’altro di loro pagò certa somma di danari per la necessità della guerra.

San Giorgio ancora fu condannato in danari assai; Sauli messo [29r] in carcere, dove in pochi mesi, per tedio e dolore, morì; Petrucci deposto et incarcerato: e fu openione che in pochi giorni per forza fusse fatto morire.

 

1518

Il Papa, dopo questo, cercò di fare una bona e solida amicizia con Francesco, re di Francia. Et acciò che tutto quello che era successo tra loro per il passato si mettesse in oblivione, fece praticare che Lorenzo togliesse moglie in Francia. E si concluse il parentado per Francesco Vettori, che era oratore pe’ Fiorentini a presso il Re, di Magdalena, figliuola del conte Giovanni d’Alvernia, che era della stirpe di quello Gottifredi Bulioni che fece tante prove oltre al mare, e la sorella era maritata al duca d’Albania. Et erono due sorelle erede che avevono, intra loro due, scudi diecimila d’entrata per anno. E Francesco aggiunse in dote a Lorenzo la ducea di Lavaur, che volle fusse d’entrata di scudi cinquemila.

Fermo lo sponsalizio, sendo nato al Re il primo suo figlio maschio a dì 27 febraio 1517, Francesco ricercò il Papa che fussi suo compare e mandassi Lorenzo a tenere il figlio al battesimo et a fare le nozze. Consentì Leone molto volentieri e mandò Lorenzo subito in Francia in poste, nel principio del 1518. E fu onorato dal Re tanto quanto potesse essere onorato principe, et alloggiato nel castello d’Ambuosa, dove si teneva in quel tempo Francesco, nelle principali stanze vi fussino.

Fecesi il battesimo solenne, fecesi il convito per le nozze sontuosissimo, fecionsi balli, feste e giostre. E Lorenzo si portò in modo che acquistò l’amore di tutta la corte di Francia, ma più di Francesco e della madre. Ebbe soldo dal Re di cento lance, ebbe pensione di franchi diecimila per anno e l’ordine di San Michele. E stato che fu tre mesi in corte e seguito Francesco insino in Angieri, il quale voleva ire in Brettagna, prese da lui licenzia e ne menò la moglie verso Italia.

E prima partissi di Francia, n’andò in Alvemia e divise lo stato col duca d’Albania, suo cognato. Poi ne venne in Italia e fece di nuovo nozze e feste in Firenze. E poi che vi fu stato un mese, andò a trovare il Papa, che era allora a Montefiasconi, e praticò seco di volere lasciare lo stato di Urbino alla Chiesa e non volere essere più capitano de’ Fiorentini e tornare a tenere lo stato di Firenze come cittadino, come sempre era stato il suo disegno.

Ma, mentre trattava queste cose e che era per venire alla conclusione, madonna Alfonsina sua madre, la quale non era possibile volessi che Lorenzo stesse sanza titolo [29v] il di signoria, intendendo tale pratica, acciò che egli non gli dessi la perfezione, li fece scrivere che era in pericolo di morte e che, volendola vedere viva, tornasse subito.

Il bon figliuolo credette alle lettere e si messe in poste e venne sì veloce, che, in capo di pochi giorni che fu giunto in Firenze, s’amalò e, dopo una malattia di sei mesi di dolori insopportabili, morì.

 

1519

La cui morte, iudichino li altri a modo loro, fu di tanto danno alla città di Firenze, che saria difficile a scrivere, perché, sendo giovane, avea tutte quelle buone parte che si debbe desiderare in omo d’età matura: amatore della patria, affezionato a’ cittadini, parco delle pecunie del comune, liberale delle sue, inimico de’ vizi, non però rigido punitore di chi quelli commetteva.

Cominciò a essercitare la milizia d’anni ventitré, nondimeno, in quel tempo stette con li esserciti, sempre dì e notte tenne la corazza da omo d’arme a dosso. Dormiva pochissimo, sobrio nel bere e mangiare, temperato circa il coito. E sì bene parlava come si dovesse alloggiare l’essercito, donde battere una terra, come difenderla e delle altre fazioni che si fanno ne’ campi, come se fusse stato nutrito da teneri anni in quello essercizio e come se fussi stato capitano molti anni. Et era tanto temuto dalli soldati suoi, che, giugnendo a Piacenzia e trovandoli tutti quanti licenziosi, rubatori, sanza legge, sanza freno, in breve tempo li ridusse di qualità che a’ Piacentini doleva quando si ebbeno a diloggiare. E questo fece più presto con le parole e diligenzia, che con rigide crudeltà.

Da’ Fiorentini non era amato perché è impossibile che li omini, usi a essere liberi, amino chi li comanda; né egli la comandava volentieri, ma la volontà d’altri lo spigneva a quello da che la sua lo arebbe ritratto. Facevali ancora molto odio et invidia madonna Alfonsina, sua madre, la quale, sendo donna avara, da’ Fiorentini, che avertono ogni piccola cosa, era tenuta rapace. Et egli, se bene desiderava correggerla, non potea, perché, come a madre onesta e nobile, gli portava troppa reverenzia.

Morì Magdalena, sua moglie, sei dì avanti a lui, avendo partorito una figlia che si chiamò Caterina. Ma di Lorenzo sia detto insino a qui.

 

Carlo, poi che vidde Italia posata, sendo d’accordo con rancesco, volle andare a pigliare la possessione de’ regni di Spagna delli quali era rimasto erede. Né ebbe [30r] però tanta confidenzia nel re di Francia, che si volesse mettere per terra per [1] il suo regno, ma passò per mare, e senza dificultà alcuna prese la possessione pacifica di tutto quello se li aspettava. Ma sendo egli governato da Fiamminghi, e’ quali tutte le dignità et utilità di quelli regni pigliavono per loro, e sendo morto lo arcivescovo di Tolleto, che è beneficio di tanta entrata, quanto ne sia uno altro in Cristianità, lo Imperatore lo dette al nipote di Ceures. E così accadeva ogni dì delli altri.

Li Spagnuoli malvolentieri stavono sotto questo giogo, pure e’ grandi signori iudicavono che le mutazioni non fussino a loro proposito e sopportavono ogni cosa come potevono, ma li populari non potevono avere pazienzia, et usavono parole non convenienti, escusandosi sempre che non intendevono parlare contro al Principe, ma contro a’ governatori.

E’ Fiamminghi ancora, infastiditi de’ modi delli Spagnuoli, sendo e’ costumi molto differenti, confortavono Carlo a tornare in Fiandra. E tanto più li dicevono che lo doveva fare perché, mentre era in Ispagna, successe la morte dello Imperatore suo avo. Et era stata grande altercazione di chi dovessi essere eletto re de’ Romani, perché il re di Francia, discorrendo con prudenzia, aveva fatto ogni conato d’essere eletto, perché pensava, quello che è seguito poi con effetto, che, se il Re di tanti regni in Ispagna e di Napoli e Sicilia, signore di Fiandra e di parte di Borgogna, duca d’Austria e conte di Tirolo, fussi eletto re de’ Romani, cercherebbe per ogni via ridurre Italia in suo potere: e non solo Italia, ma tutta la Cristianità.

Il Papa conosceva questo medesimo e, se bene considerava che quasi il medesimo era per seguire quando fussi eletto Francesco, non si poteva persuadere che li Elettori tedeschi dovessino mai acconsentire di trarre lo Imperio d’Alamagna. E però confortò Francesco a pigliare questa impresa vivamente e non perdonare né a danari né ad altra cosa per conseguire questo suo desiderio, [30v] iudicando che, come Francesco tentava questo, subito Carlo li diventava inimico. E se bene cognoscessi impossibile che egli fusse eletto, perché non fusse eletto Carlo già fattoli inimico, volterebbe il favore a qualche principe d’Alamagna. E questo disegno del Papa riusciva ancora che l’ammiraglio di Francia, el quale il Re aveva mandato a Treveri per condurre la pratica d’essere eletto con lo Arcivescovo, uno delli Elettori, sempre con lettere dessi speranza e quasi certezza al patrone ch’egli sarebbe eletto re de’ Romani, nondimeno il Re non lo credeva et aveva volto il favore suo al marchese di Brandeburg, uno degli Elettori. Et era contento che li danari prometteva a quelli Elettori ch’eleggevono lui, darli a quelli che eleggevono detto Marchese.

Ma Carlo aveva tanti amici e partigiani in Alamagna, per essere stato lo Imperio nella Casa d’Austria più di settanta anni continui, e ne fece condurre tanti in Francfordia, dove si doveva fare la elezione, et allo intorno, che si può dire che ella fussi fatta più presto con le forze, che per l’ordinario, perché non vi fu elettore che ardissi fare parola di eleggere altri in re de’ Romani che Carlo, ancora che vi fussi chi desiderassi assai lo Imperio e per sé e per altri.

Sendo dunque eletto Carlo re de’ Romani et essendo in Ispagna, tutti i Fiamminghi e Tedeschi, che egli aveva a presso, instavono che tornassi in Alamagna. E, benché in Ispagna si vedessino segni di sollevazione, dicevono che la riputazione di tanti stati, aggiunto lo Imperio, farebbe stare ciascuno a segno. Onde Carlo, stimolato da tante persuasioni, si partì di Spagna per mare e pose nell’isola d’Inghilterra per fare una vera unione con quello Re. La quale l’uno e l’altro d’essi pensorono avere fatta, ma durò tanto, quanto ciascuno di loro iudicò essere a beneficio suo.

 

Francesco, intesa la elezione di Carlo, cominciò subito a pensare come s’avessi a difendere, quando egli lo volessi offendere. E, benché la ragione volessi che Francesco dovessi cominciare a muoverli guerra subito, mentre egli aveva la Spagna co’ puntelli e non era solidato nello Imperio, né aveva danari, perché li [31r] aveva spesi in pagare li uomini fece condurre in Francfordia et all’intorno perché dessino favore alla sua elezione, non lo volle fare, perché non volle si potessi dire che da lui nascessi il principio di turbare la pace de’ Cristiani. Ma cercò di farsi amico il re d’Inghilterra e, per avere più reputazione, recuperò da lui Tornai, che il re Luigi, suo antecessore, aveva perduto pochi anni avanti. Poi, per mezzo d’imbasciadori, convennono di parlare insieme.

Et Enrico passò il mare e venne a Calese, e Francesco a Bologna. E ciascuno di loro fece tendere padiglioni ricchissimi in su certi prati e nel mezzo di quelli si parlorono la prima volta, e fecionsi carezze assai. Poi si convitorno, donoronsi, fecionsi giostre, balli et ogni altra maniera di festa. E si partirono l’uno dall’altro con tanta dimonstrazione d’amore, che si pensò che tra essi fussi fatta amicizia sì indissolubile, che altro non la potessi partire che la morte. E per maggiore confermazione Enrico promesse la figlia per sposa al figlio di Francesco, chiamato similmente Francesco. E sendo poco poi nato al re di Francia un altro figlio, Enrico volle tenerlo a battesimo e gli pose nome Enrico.

 

In Italia, in questo tempo, le cose erono assai quiete. E dopo la morte di Lorenzo, il Papa volle che a governo di Firenze venissi il cardinal de’ Medici, il quale, per la prudenzia e bontà che aveva dimonstro da’ teneri anni insino a quel tempo, era in quella città et amato e riverito.

 

1521

Poi che Carlo fu tornato in Alamagna, attese a fare le cerimonie consuete et indisse una dieta di tutti e’ principi a Vormacia. rancesco, parendoli avere fermo Inghilterra, desiderava fermare il Papa, el quale, sendoli morto il fratello et il nipote, non aveva da cercare stati per li suoi, ma desiderava bene d’acquistarne per la Chiesa e riavere Parma e Piacenzia e, quando Francesco non li volessi rendere queste, almanco li aiutassi pigliare Ferrara. Il che parendo a Francesco dificile per la qualità del sito e del Duca, che aveva danari assai et intendeva della guerra, e non volendo ancora offendere uno principe, che gli era suto sempre amico, senza iusta [31v] causa, teneva il Papa in parole.

El quale era afflitto da un’altra materia di grande importanza, che era che Martino Luter, già frate di santo Agostino et uomo assai litterato, col favore del duca di Sassonia predicava in quella provincia, in pubblico, che tutti e’ vescovi sono pari al papa e molte altre cose eretiche e scandolose. E la sua dottrina era udita volentieri et aveva molti fautori, non solo in Sassonia, ma in tutta Germania. Lione faceva ogni instanzia che Cesare gastigassi Martino e facessi ogni opera d’estinguere la sua setta; et era da lui pasciuto di buona speranza.

 

Come Cesare fu partito di Spagna, molte città presono l’arme non contro a lui, ma contro a’ governatori, e di quali furono cacciati, e di quali morti. E feciono quelli popoli tra loro intelligenzia e chiamoronla la Santa Giunta. Ma è stata o gran prudenzia o gran fortuna quella di Carlo perché i principi, il più delle volte, quando non fanno le guerre in persona, le sogliono perdere, et a lui non è occorso così, ma sempre che ha commesso ad altri è stato vittorioso.

Era questa Giunta da temere perché e’ popoli, se bene dicono in principio fare contro a’ governatori, come hanno battuto i governatori indicono avere offeso il principe e fanno una aperta rebellione. E’ signori di Spagna, benché fussino male contenti del governo de’ Fiamminghi, temettono tanto che i popoli non prevalessino contro ai nobili, che s’unirono insieme e feciono una gagliarda difesa contro alla Giunta. Et il costume de’ popoli è essere ne’ principii feroci, ma presto raffreddarsi e non essere concordi, e però e’ principi batterono quando una città e quando un’altra, di qualità che in poco tempo ridussono tutta Ispagna a ubbidienzia di Cesare. E d’accordo si pacificorono e rimessono la pena di quelli ch’erono suti capi di questi tumulti alla deliberazione di Cesare, quando egli venissi in Ispagna.

Dove sendo pacificato, li crebbe il desiderio di potere disporre d’Italia e seguitava con ogni instanzia di tirare a sé il Papa e, per gratificarlo, citò Martino Luter a Vormacia dove teneva la Dieta. E, non volendo comparire sanza salvocondotto, gliene dette.

E poi che fu comparso et ebbe disputato [32r] la sua dottrina, l’ammunì  che dovessi tornare alla via vera e desistessi di calunniare il Pontefice e li altri prelati della Chiesa Romana e, quando non lo facessi, minacciò di gastigarlo, aggiugnendo che non li mancherebbe modo d’averlo altra volta nelle mani senza salvocondotto. Luter stette nella sua pertinacia et a Carlo bastò avere gratificato il Papa col fare dannare nella Dieta la dottrina sua; e si escusò di non potere procedere più oltre, rispetto al salvocondotto.

Ma la verità fu che, conoscendo che il Papa temeva molto di questa dottrina di Luter, lo volle tenere con questo freno.

 

Lione, combattuto assai dal re di Francia d’accostarsi a lui, instava in sul volere Ferrara, e Francesco, come dissi di sopra, gli dava parole.

Et in questo tempo, che fu alla fine dell’anno 1520, le reliquie de’ fanti spagnuoli, che erono stati più anni in Italia e poi erono iti a combattere le Gerbe contro a’ Mori per servizio di Cesare, e non potendo fare progresso, se ne ritornorono in Sicilia e poi in Calabria. E si messono insieme e vennono insino alli confini della Chiesa, pensando che Lione s’avessi a ricomperare da loro, come aveva fatto nella guerra d’Urbino. Il Papa mandò loro incontro Giovanni de’ Medici, suo congiunto e nell’arme ardito [e franco], con qualche somma di fanti. E volendo detti spagnuoli pigliare uno castello del Papa in sul Tronto, chiamato Ripatrasonna, furono ributtati con occisione di molti di loro in modo che, vedendo li primi impeti non succedere, se ne tornorono nel Regno alle stanze.

Il Papa, per questo impaurito, deliberò di stare armato e proveduto e mandò messer Antonio Pucci, vescovo di Pistoia, a’ Svizzeri, el quale ne condusse in Italia seimila uomini prontissimi alla guerra. Lione arebbe voluto che Francesco concorressi a questa spesa per pietà e ne lo fece più volte ricercare. Ma egli, dubitando che il Papa non volessi assaltare con essi Ferrara, differiva il rispondere. Né gli pareva possibile che, benché indugiassi a rispondere, et ancora quando avessi negato concorrere a detta spesa, che il Papa ne dovessi pigliare tanta indegnazione, che s’avessi a accordare con Cesare a nuocerli perché Lione non era tenuto di sì poco ingegno, che non conoscessi che Carlo era troppo potente, e che tutti li imperatori che sono stati potenti, quando hanno avuto adito in Italia, sono suti inimici de’ pontefici [32v] et hanno cerco non solo d’abassarli, ma di ruinarli, perché, chiamandosi re de’ Romani, non pare loro conveniente avere il titolo e che e’ pontefici abbino il dominio. Ma sempre le cose non si possono misurare con la ragione.

 

Il Papa, parendoli che Francesco non tenessi conto di lui e mosso dalle persuasioni di don Ioanni Emanuel, oratore per Cesare a Roma, e da Ieronimo Adorno, genovese, e da Ioan Matteo Ghiberti, pure genovese, che faceva in Roma le faccende del cardinale de’ Medici, concluse con Cesare contro al re di Francia.

E li soprascritti gli monstrorono che, subito che egli fussi collegato con Carlo, che la fama sola gli farebbe vincere la guerra, e che non poteva avere poi dubbio alcuno della grandezza di Cesare, perché, secondo e’ capitoli, il ducato di Milano doveva venire a Francesco Maria Sforza, secondo figliuolo del duca Lodovico, el quale Francesco Maria era allora in Alamagna, e che il signore Antoniotto Adorno aveva a essere doge di Genova, e che Piacenzia e Parma dovevono ritornare al Papa, el quale doveva essere aiutato da Cesare a espugnare Ferrara, in modo che per queste convenzioni Cesare non acquistava cosa alcuna in Italia né diventava più formidabile fussi prima. E fu questa lega conclusa in poche parole e furono prima le galee del Papa sopra Genova, che si sapessi l’animo suo.

El quale, volendo poi escusare questo suo partito precipitoso, diceva averlo preso a beneficio della republica Cristiana, ancora che fussi pericoloso per la Chiesa e per lui, perché conosceva il re de’ Turchi potentissimo per avere di nuovo vinto il Soldano e preso il suo regno e per avere ridotto in termine il Sofì, che n’aveva da tenere poco conto, e che era necessario che surgessi uno principe tra’ Cristiani sì grande, che fussi atto a farli resistenzia, e che solo questi duoi re erono atti a farla, Carlo e Francesco. Ma bisognava che l’uno superassi l’altro, perché altrimenti nessuno di loro arebbe tanta potenzia né tanta riputazione, che ardissi opporsi al Turco, e che cognosceva che era più facile che Carlo diventassi superiore a Francesco, che Francesco a Carlo, e che non li pareva inconveniente, per la salute universale di tutti e’ cristiani, mettere in pericolo lo stato della Chiesa. E se [33r] questa era la principale causa che Lione diceva che l’aveva mosso a collegarsi con Cesare, ma io, essaminato le qualità sue e quanto egli conosceva e quanto bene discorreva e tritava e’ partiti innanzi gli pigliassi e quanto desiderassi essaltare la Chiesa, non mi posso persuadere che la ragione detta di sopra lo movessi e che egli non conoscessi certo che la essaltazione di Cesare era la depressione sua, e che per niente la volessi.

Ma la mala fortuna di Italia lo indusse a fare quello che nessuno uomo prudente arebbe fatto. E lo mossono assai le persuasioni di Ieronimo Adorno, al quale il Papa prestava gran fede. Egli era stato assai in corte di Carlo e lo predicava per uomo religioso, cattolico, osservatore di fede, alieno dal sangue, e che non desiderava più in Italia un palmo di terra di quello avessi, e che la guerra che pensava di fare al re di Francia non era a altro fine che per potere vivere in pace e venir seco a una composizione per potere liberamente fare l’impresa contra il Turco.

E se bene Leone non doveva prestare tanta fede alle parole di Ieronimo, che lo dovessino indurre a fare sì grande errore, fu tirato dalla oppenione che aveva che i Svizzeri in ogni evento l’avessino a aiutare perché, poiché fu Papa, dava ogni anno loro scudi trentamila di pensione, perché non li fussino contro e perché, quando n’avessi bisogno, venissino a servirlo, pagandoli. Et indicava che essi non volessino la grandezza di Cesare e pensava che, ogni volta che Cesare non stessi alle promesse, poterlo con le forze loro battere e farlo tornare a segno. E forse gli sarebbe riuscito, se non fossi stato prevenuto dalla morte.

 

Mandato che ebbe il Papa le sue galee a Genova e che non gli successi il disegno di voltarla, gli bisognò venire alla forza aperta.

E Prospero Colonna subito andò in Lombardia, capo delle genti a cavallo di Cesare, contro a’ Franzesi, et il marchese di Pescara, capo delle fanterie, col quale andorono tutti e’ fanti spagnuoli ch’erono nel Regno. Il Papa ancora vi mandò le genti sue a cavallo e fece soldare molti fanti italiani, e la prima impresa fu di porre il campo a Parma.

Francesco, giugnendoli questa guerra a dosso subito et improvisa, non si perdé d’animo, ma pensò di fare e’ rimedi possibili. E subito mandò a soldare Svizzeri, ma, avanti [33v] scendessino, Parma era forte stretta, dove era governatore monsignor d’Ellanson e con lui molti altri signori italiani e francesi. Ma avevono poca gente né confidavono del popolo perché, quando era suddito della Chiesa, era uso a pagare poco.

Durò la obsidione di Parma più giorni et i Franzesi, diffidando guardarla tutta per essere troppo grande e loro essere pochi defensori, abbandonoro la parte di là dal fiume, che guarda verso Piacenzia, dove li inimici facevano la batteria, e si feciono forti drento della terra, in sul fiume della Parma, con ripari et artiglierie et altri ordini. Le genti della Lega entrorono in quella parte di Parma abbandonata e messono a sacco quello poco vi trovorono.

Lione aveva in quello essercito per suo capitano Federigo marchese di Mantova, el quale, per essere giovane, si rapportava a Prospero, capo principale in questa impresa. Entrate che furono le genti in quella parte di Parma, per molti si credeva che in pochi dì si dovessi pigliare il resto e che fussi una gran parte della vittoria. Ma, o che i capi imperiali trovassino la impresa difficile, o che dubitassino che Lautrec o il duca di Ferrara non venissino a soccorrerla e li trovassino imbarazzati tra le mura, o forse perché avessino sospetto che, se avessino preso Piacenzia e Parma per il Papa, che egli non andassi poi nel resto della guerra più rattenuto e gli bastassi avere conseguito il desiderio suo, ritirorno l’essercito da Parma e si ridussono verso Reggio.

 

In Firenze, quando Leone prese questa guerra, fu una mala contentezza universale e cominciò a perdervi l’amore e la grazia, sì per essere la città per l’ordinario inclinata a Francia, sì perché in quel tempo e’ mercanti fiorentini avevono a riscuotere in Francia, tra dalla Corte e da altri particulari, più che ducati settecentomila, et ancora perché e’ corsali provenzali, soldati dal Re, impedivono la navicazione, cosa di molto preiudicio a’ Fiorentini et in publico et in privato, perché e’ Fiorentini sono amatori della quiete, perché vivono d’industrie et essercizi che fanno bene nella pace. E parve loro che il Papa ne tenessi un poco conto a pigliare partito di tanta importanzia e non ne conferire niente, se non dopo la conclusione della Lega. E se bene e’ Fiorentini non intervennono, né con oratori né con mandato, né prestorono [34r] con senso in detta Lega, il Papa, di sua auttorità, promisse che lo seguiterebbono. E però, quando in Firenze s’ebbe notizia che lo essercito della Lega era ritirato, li amici de’ Medici temerono e li altri tenevono li animi ei orecchi levati a ogni novità.

Lione, quando intese quello che avevono fatto e’ capi imperiali, conobbe tardi avere errato et essere entrato in luogo, che era constretto a fare tutta la spesa di questa guerra. E non si trovando danari, né avendo modo di provedeme e sappiendo che in irenze per il Comune n’era congregata qualche somma, per il poco spendere che aveva procurato il cardinale de’ Medici si facessi e per la diligenzia che aveva usato che le pecunie publiche si conservassino, si volse a mandare detto Cardinale in campo, legato e capo principale della guerra, sì perché confidava molto nella prudenzia e virtù sua, sì perché conosceva che egli, per avere onore di questa impresa, era necessitato spendere e’ danari che erono conservati in Firenze, e’ quali insino allora il Cardinale mai aveva voluto acconsentire si spendessino.

Egli vi andò contro a sua voglia e contradisse assai, ma non poté disubbidire. E per ingagliardire il campo in su la giunta sua fece calare diecimila Svizzeri e’ quali, per essere collegati col re di Francia, dicevono che, secondo e’ capitoli avevono con lui, non potevono pigliare uno palmo di terra di quella del Re, ma che tutta quella che il Papa facessi pigliare a altri, potevono e volevono difendere.

 

Giunto adunque il Legato in campo, che fu del mese d’ottobre 1521, consultò con quelli signori capitani come fussi da procedere. E si conobbe, nel consultare, che essi volevono prima pigliare Milano et il resto del ducato, e poi Piacenzia e Parma, e conclusono che fussi da passare il Po, per unirsi il più presto che si poteva con i Svizzeri. A’ quali i Veniziani, benché fussino collegati col Re, non si vollono opporre nelle montagne di Bergamo, perché vollono fuggire di non avere la guerra in casa.

Passò l’essercito della Lega il Po in Mantovano et andò in Cremonese, dove ebbe allo incontro Lautrec con l’essercito franzese el quale, se non era pari di forze, era superiore per molte commodità aveva, delle quali li avversari mancavono. Appressavasi il verno, le piove [34v] erono grandi e se i Veniziani volevono fare un poco di resistenzia a’ Svizzeri, la guerra era vinta per il Re. Non la feciono et i Svizzeri si congiunsono con l’essercito delle Lega il quale, senza tentare Cremona, passò l’Adda in sulle barche et ancora che Lautrec avessi ritirato prima le sua genti di là dell’Adda, per guardare che gli inimici non passassino, è cosa molto dificile guardare da uno essercito venti miglia di ripa di fiume. E passò sopra a Cassano, presso a Milano a miglia venti. Come Lautrec conobbe li inimici essere passati l’Adda, ché procedette assai, perché e’ suoi Svizzeri non vollono combattere contro a quelli che aveva condotti il Legato, ritirò il suo essercito in Milano, e vi condusse Teodoro da Triulzi con parte dello essercito veneto.

In Milano, in fatto, la parte ghibellina è superiore assai, i popoli sono sempre desiderosi di mutazione, chi lascia la campagna e si ritira drento alle mura, perde di riputazione.

L’essercito della Lega, inteso che i Franzesi erono ritirati in Milano, gli seguitò e giunse alle porte poco dipoi che li altri erono entrati drento, in modo che non avevono avuto tempo a distribuire le guardie e fare quelli ordini che si ricercono in una città faziosa e dove s’aspetti il campo. Quelli della Lega si presentorono alle mura e certi fanti spagnuoli furono li primi che entrorono drento, da un luogo dove era un mulino. Seguitorono delli altri, et in effetto, in poche ore, senza ostacolo entrorono nella terra. Odetto, ancora che non invilissi, mai potette fare testa con li suoi e, vedendo la terra perduta, pensò di salvarsi con più e migliori uomini potette et, uscito di Milano, si ritirò verso Como. E’ soldati cesarei arebbono voluto mettere a sacco Milano, pure furono ritenuti con gran fatica da il Legato e da’ capitani, ma a ogni modo presono molti milanesi guelfi, e posono loro taglie e predorono le loro case; e così presono tutti e’ Franzesi che trovorono in Milano e le loro robe.

 

Leone ebbe nuova della presa di Milano alli 28 di novembre, sendo alla Malliana, villa pontificia, distante da Roma cinque miglia. E qualcuno dice ne prese tanto piacere, che stette gran parte della notte levato alle finestre a vedere fare festa alli suoi e, quando era stato un poco alle finestre, tornava al fuoco, e che per questo prese, la notte, e [35r] freddo e caldo et, essendo in quello luogo aria pessima, gli venne febbre ardentissima. Altri dicono che ebbe dolore perché vedeva Cesare avere conseguito il desiderio suo et a lui restare ancora a pigliare Parma e Piacenzia, dove li bisognerebbe spendere, e che la spesa sarebbe tutta sopra lui, e non sapeva donde trarre più danari, e le lettere del Legato, che davono notizia della vittoria, domandavono danari e grossa somma.

Basta, che, per qual causa si volessi, la notte medesima gli venne la febbre et il dì sequente si condusse in Roma et il primo di dicembre morì. Né mai seppono i medici trovare rimedio al suo male. Fu detto che morì di veneno: e questo quasi sempre si dice delli uomini grandi, e massime quando muoiono di malattia acuta. Ma chi conosceva Leone e considerava quanto aveva il corpo bene proporzionato dal collo in giù e poi quanto avessi il capo grosso e fuori di proporzione dell’altre membra, si potrà maravigliare che egli sia vivuto tanto, e massime perché nel vivere era poco regolato, perché digiunava spesso e poi si caricava troppo di cibo: e per questo, e per avere il capo grosso et umido, era sempre pieno di catarro.

Quando morì, correva l’anno dell’età sua quadragesimo sesto. Uomo al quale la fortuna durò favorevole otto anni continui perché, avanti fussi papa, sendo prigione de’ Franzesi, scappò a caso, prese lo stato di Firenze contro all’oppenione di ciascuno, fu pontefice che non vi doveva avere parte. E questo è certo che il cardinale di Volterra, vedendo che il cardinale di San Giorgio, che li era inimico, aveva gran parte nel pontificato, si riconciliò con Medici, non credendo in modo alcuno che potessi essere Papa, e discorse che, col confortare Medici a cercare il pontificato, farebbe due cose: l’una, che torrebbe la voce di Medici e suoi aderenti a San Giorgio, che avevono inclinazione a dargnene; l’altra, che qualunque fussi fatto papa, sarebbe inimico a Medici, reputandolo presuntuoso, che sì giovane ardissi aspirare al pontificato. Ma questo suo pensiero riuscì al contrario.

E poi che fu papa, a quanti più errori fece, a tanti più rimediò la fortuna. Spese nella coronazione senza misura e consumò in essa tutti e’ danari contanti et argenti che aveva congregato Iulio, nondimeno trovò modo di fare nuovi ufici, e si trovò chi li comperò cari, e fece con essi sempre e’ danari che disegnò. Dette per donna a Giuliano una che si tirava drieto una [35v] spesa incredibile, e la fortuna, acciò ne mancassi, gli levò il fratello. Se la guerra contro al re di Francia nel quindici durava, tutta la spesa si posava sopra a lui e non la potendo reggere aveva la inimicizia, per l’ordinario, di Francia et arebbe avuto quella de’ collegati. Francesco vinse presto e si posò ogni cosa. Se Massimiliano, quando venne sopra a Milano, vinceva, trattava Leone come ha trattato in questi tempi Carlo Clemente, e Massimiliano si partì con vergogna.

Ebbe la guerra d’Urbino, la quale scoperse l’animo e dei cardinali e de’ condottieri in modo che ebbe occasione di punire cardinali e fare Collegio nuovo: perché nel suo pontificato creò in più volte quarantadua cardinali e trasse danari da parte di quelli che creò e da quelli che condannò.

Gastigò ancora qualche condottiere, come Giovampagolo Baglioni, il quale fece decapitare in Castello. E perché egli da un canto non arebbe voluto pensieri che l’affliggessino, dall’altro era glorioso e desiderava fare grandi e’ suoi, la fortuna, per privarlo di questo pensiero, gli levò, oltre al fratello, il nipote. Et in ultimo, avendo preso la guerra contro al re di Francia, nella quale vincendo perdeva et andava alla ruina manifesta, la fortuna lo levò di terra, acciò non la vedessi.

Nel suo pontificato, in Roma, non fu peste, non penuria di vivere, non guerra, fiorivano le lettere e le buone arti e vi erano ancora in culmine e’ vizi.

Alessandro et Iulio usorono pigliare l’eredità di qualunque, non solo prelato, ma piccolo prete et uficiale, che moriva in Roma. Leone s’astenne da tutte, onde vi concorse numero infinito d’uomini e si può dire certo, che in otto anni che stette pontefice, crescessi in Roma il terzo del popolo.

Se fu principe, nel quale fussino più le virtù che i vizi, o il contrario, lo lascerò iudicare a chi n’ha più iudicio che non ho io. Aveva molte parti eccellenti e grandi; fu biasimato che teneva poco conto di quello prometteva, ma lui aveva quella sentenzia molto peculiare: "che il principe doveva rispondere in modo, a chi lo ricercava, che nessuno avessi causa partirsi da lui se non allegro". E però prometteva nel principio tanto e pasceva ogni uomo di tanta speranza, che non era possibile gli satisfacessi.

A’ Fiorentini particulari fece molti e grandi benefici. Ma li uomini sono tanto ingrati e sì poco discreti [36r] che, beneficando egli ancora delli altri che Fiorentini, come quello che era ubrigato a molti, tutto quello che dava a altri, stimavano togliessi a loro. Fu notato assai che si dilettassi troppo di buffoni, ma aveva tante altre parti che, chi le vorrà considerare senza odio et invidia, troverrà che i popoli non si doverrebbono dolere quando avessino uno principe simile.

Venuta la nuova in Firenze della morte di Leone, li amici de’ Medici non invilirono, ma ne dettono subito notizia al cardinale Legato a Milano, el quale ne venne in poste e confortò li amici a stare di buono animo. Poi se n’andò a Roma per trovarsi alla creazione del nuovo pontefice, la quale e’ cardinali sollecitavano.

E fatto essequie, trentacinque cardinali che si trovorono in Roma entrorono in Conclavi. La elezione andava in lungo et intanto le guerre non cessavono, perché Odetto di Foes, ancora che avessi perduto Milano, non volle abbandonare la Lombardia. Ma da Como, dove si ritirò, venne per le terre de’ Veniziani a Cremona et ordinava nuove genti per ritornare in su la guerra. È vero che la perdita di Milano dette tanto disfavore a’ Franzesi, che Parma e Piacenzia vennono nelle mani della Chiesa, per opera et industria di Goro Gheri, pistorese, vescovo di Fano.

 

Francesco Maria della Rovere, che si trovava a Mantova, intesa la morte di Lione, raccolse circa dumila fanti et insieme con Malatesta et Orazio Baglioni, figliuoli di Giovampagolo, che erono a soldo de’ Veniziani, vennono in Romagna e poi nel ducato d’Urbino e lo presono tutto senza alcuna dificultà perché Leone, per consiglio di Renzo da Ceri, per poterlo meglio tenere, a tutte le terre di quello stato aveva fatto levare le mura.

 

1522

Aveva ancora Leone dato a’ Fiorentini in pegno Montefeltro e San Leo per le spese avevono fatte quando Francesco Maria lo riprese nel sedici: e tutto il Montefeltro s’accordò con Francesco Maria. San Leo, perché è forte et era pieno d’uomini fidati, si tenne, e Pesero ancora, se bene aveva le mura, s’accordò col vincitore et il castellano dette la fortezza per danari. Francesco Maria e Baglioni insieme n’andorono poi verso Perugia e mutorono quello stato e ne cacciorono il signore Gentile Baglioni. Et a gran giornate venivono verso Siena per mutare quello governo, et avevono  preso il tempo che Raffaello Pe[36v]trucci, cardinale, che lo governava, era serrato in Conclavi. E riesciva loro il farlo, se non fussi stato l’animo di Francesco Petrucci suo cugino, et ancora le nevi, le quali venneno in tanta quantità, che essendo vicini a Siena a tre miglia, per non avere che vivere né avere modo di guadagnarne, furono constretti ritirarsi prima a Perugia e poi a Urbino.

 

Dopo che i cardinali furono stati in Conclavi molti dì, alli quattro di gennaio nel ventuno elessono Adriano, vescovo di Tortosa, pontefice; il quale era suto fatto cardinale da Leone a instanzia di Cesare, ché era suto suo precettore, et allora si trovava in Ispagna perché quando Cesare si partì di quelli regni, lasciò lui come un’ombra di governatore, el quale per ventura giovò più alli negozi di Cesare con l’orazioni, che un altro non arebbe fatto con l’arme.

Fu da considerare assai in questa elezione che li cardinali, che si trovorono nel Conclavi, avessino tanto odio l’uno con l’altro, che volessino creare più presto uno che non avessino mai visto, che uno di loro. Aggiugnesi che non solo tutta Italia, ma ancora particularmente le terre della Chiesa erono in tumulto et in sollevazione et era necessità di pontefice che con la presenzia rimediassi subito, e non d’uno che avessi a stare molti mesi a comparire in Italia. Oltre a questo, loro avevono potuto vedere il buono animo di Cesare di dominare Italia e non si vergognorono fare uno del seno suo. E quello che è più da ammirare, conoscendo di quali costumi fussino, e se non tutti li più, feciono un fiammingo che mai era suto in Italia.

Carlo, intendendo la elezione del Papa, senza mettere tempo in mezzo, si partì d’Alamagna e, giunto in Fiandra, s’imbarcò per Ispagna. Dove arrivato, con la riputazione sua congiunta con quella del Papa, non ebbe dificultà a castigare se vi era alcuna reliquia della Giunta, e condannò chi a morte e chi in danari di quelli che erano suti capi d’essa. Relegò ancora, per questo delitto, il vescovo di Zamorra in carcere, el quale poi, nel 26, perché cercava d’uscire per suscitare cose nuove, fece decapitare.

La guerra in Lombardia era rinata perché Odetto aveva ragunato assai buono essercito, e già aveva passato l’Adda per ire verso Milano. Ma venendo alle mani con li Spagnuoli, a un luogo chiamato la Bicocca, furono li or[37r]dini de’ suoi Svizzeri confusi dagli archibusieri inimici, in modo che l’essercito franzese fu rotto e pochissimi se ne salvorono. E si cognobbe certo in questa giornata che li Svizzeri temevono l’artiglierie e non erono più li medesimi animosi che durorono a essere tenuti molti anni.

Avevali Lautrec, poche settimane avanti, condotti insino in su le mura di Milano e li Cesarei non avevono ardito uscire fuori, ma mentre che Marcantonio Colonna, el quale era con Franzesi, andava ordinando il campo, fu percosso da un colpo di falconetto in una coscia, della quale ferita in poche ore morì; la cui morte impaurì tanto i Svizzeri, che Lautrec fu forzato ritirarli, e pochi giorni appresso seguì la rotta che ho detto di sopra.

Il cardinale de’ Medici, uscito che fu di Conclavi, e che tra loro cardinali ebbono dato ordine che tre d’essi avessino il governo della Chiesa e si mutassino ogni mese, insino che Adriano venissi, se ne venne per mare a Pisa e di quivi a Firenze. E trovò che Francesco Maria s’era già ritirato da Siena. Ma di nuovo Renzo da Ceri, come uomo del re di Francia, con danari di rancesco cardinale di Volterra, venne verso Siena per mutare quello stato e poi quello di Firenze. Ma avendo poco ordine di vivere e non li reggendo sotto Orazio Baglioni e Francesco Maria, balenando se ne tornò indrieto, senza fare effetto. E poco di poi furono condotti a’ soldi de’ Fiorentini e Francesco Maria et Orazio.

 

Et in Firenze si scoperse uno trattato, il quale tenevono certi giovani più desiderosi della libertà che prudenti. E pensavono, togliendo lo stato al cardinale de’ Medici, ridurre in Firenze uno stato civile e buono, e sarebbe loro riuscito il contrario, perché v’arebbono ridotto uno licenzioso et al tutto tirannico.

Li capi erono Zanobi Buondelmonti, Luigi Alamanni e Batista della Palla. Furono presi Iacopo da Iaceto, che faceva professione di litterato, et uno altro Luigi Alamanni soldato, che era stato più mesi alla guardia di detto Cardinale, e con poca tortura confessorono il tutto. Zanobi e Luigi fuggirono perché, in verità, il Cardinale, alieno dal sangue, non fece fare grande diligenzia che fussino presi. Batista era ito per questo conto in Francia tre mesi inanzi, Iacopo e Luigi, soldato, furono deca[37v>]pitati e li altri  banditi. E così ebbono bando Tommaso e Giovambatista Soderini, perché erono ancora loro in qualche convenzione con li sopranominati. E queste punizioni non seguirono per volontà del cardinale de’ Medici, ma per satisfare agl’Imperiali, e’ quali dicevano che chi voleva mutare lo stato di Firenze, era inimico di Cesare e che l’inimici di Cesare s’avevano a gastigare senza misericordia.

 

E’ Cesarei, poiché ebbono rotto i Franzesi alla Bicocca, deliberorono assaltare Genova, la quale non aveva voluto mai lasciare la parte franzese. E Ferrando Davalo, marchese di Pescara, vi condusse il campo e per forza v’entrò drento e fu dagli Spagnuoli messa a sacco. È vero che il sacco non durò che un dì, perché Antoniotto et Ieronimo Adorni, che erono con l’essercito imperiale, s’ingegnorono rimediare, nondimeno il bottino fu grande di danari, d’argenti, di gioie, di drappi e di qualche prigione, perché Genova era allora connumerata una delle ricche terre d’Italia e forse la più ricca dopo Roma.

Alloggioronsi e’ Cesarei per le terre di Lombardia. E perché il castello di Milano, che era ancora in potere de’ Franzesi, non potessi loro nuocere, per il consiglio di Prospero Colonna lo circondorono, e di verso la terra e di fuori, con fossi larghi e profondi; e disposono le guardie in modo che con manco di mille fanti si guardava, sì che non poteva nuocere alla città, né chi v’era drento ne poteva uscire senza suo manifesto pericolo.

Fece ancora Carlo assaltare la Francia dalla banda di Fiandra e, desiderando Enrico re d’Inghilterra essere arbitro della pace tra Cesare et il re di Francia e non lo acconsentendo Francesco, Enrico gli diventò inimico. La guerra durò più mesi con spesa e danno grande dell’una parte e l’altra, pure Francesco non perdé altro che Tornai, perché è posta nel mezzo delle terre di Cesare con dificultà può essere soccorsa da Francia.

 

Adriano fu eletto Papa di gennaio nel ventuno, e di settembre nel ventidue venne per mare a Genova e di poi a Roma, dove era cominciato la peste, et egli non ne tenendo conto e volendovi prima andare e di poi stare, per il concorso che vi fu fatto per la venuta sua crebbe tanto, che ha fatto a Italia grandissimi danni, e ancora fa.

Lo indugiare che fece il Papa a venire a Roma e la freddezza sua, poi che vi fu, fu causa che non fussi soccorsa la città di Rodi, la quale in quel tempo fu assediata [38r] dal Turco. E poiché quelli cavalieri Ierosolimitani l’ebbono difesa valorosamente sei mesi, non avendo soccorso da alcuno, furono constretti a pigliare quelle condizioni che potettono. E così la città et isola di Rodi venne in mano del Turco, cosa e dannosa et ignominiosa pe’ Cristiani.

 

1523

Ancora che Francesco re di Francia fussi afflitto da guerra di là da’ monti e di qua avessi perduto tutto quello ci soleva tenere, eccetto il castello di Milano, non poteva, con quello animo invitto non uso a sopportare ignominia, riposare.

Et essendo suto creato Andrea Gritti nuovo doge di Venezia, uomo prudente e nella pace e nella guerra e che aveva seguito, a beneficio della sua republica, molti anni vivamente le parti di Francia, pensò fare nuovo essercito, e con l’aiuto de’ Veniziani pigliare lo stato di Milano, e forse poi dell’altre cose. E’ signori che governavono le faccende di Carlo in Italia, e’ quali erono il duca di Sessa, oratore a Roma, don Carlo della Noi, viceré a Napoli, Prospero Colonna, a Milano, et Ieronimo Adorno, a Genova, intesa questa nuova preparazione, si ordinorono a fare tutti li ostacoli possibili. E per stabilire bene Firenze, feciono che Adriano chiamò il cardinale de’ Medici a Roma; e tutti li signori sopradetti, e con lettere e con uomini, monstravono una grandissima confidenzia in lui.

E per levare il capo della parte franzese di Roma, operorno che Adriano fece mettere in Castello il cardinale de’ Soderini, monstrando certe sue lettere, le quali avevono intercette, che confortavono il Re a venire a turbare la quiete d’Italia. Cercorno ancora d’accordare co’ Veniziani et a questo effetto vi mandorono Ieronimo Adorno e Marino Caracciolo napoletano, uomini eccellenti a trattare simili negozi. E benché Francesco, avvertito di questo, vi mandassi ancora lui uomini suoi, e, tra li altri, Lodovico Canosa, veronese, vescovo di Baiosa, el quale in persuadere ha pochi pari, pure, contro a tutte le ragioni, e’ Veniziani accordorono con Cesare. Né si seppe vedere che gli movessi, se non il desiderare che il ducato di Milano restassi in Francesco Maria Sforza, signore debile, per poterlo un dì pigliare per loro.

Fu ancora oppenione che l’avere tenuto Andrea Gritti per il passato le parti franzese nocessi a Francesco, perché e’ Veniziani vollono monstrare che il loro principe non può determinare delle leghe e pace a suo piacere. Basta, che quando Francesco credette [38v] avere e’ Veniziani in favore, li ebbe contro. Né per questo mutò  proposito, ma congregato grande essercito a piè et a cavallo, del mese di settembre nel ventitrè, lo mandò in Italia, sotto il governo dell’Ammiraglio, con ferma intenzione di venire ancora lui subito.

Ma, partendo da Parigi per venire a Lione, per il cammino gli fu fatto intendere che Carlo, duca di Borbone, gran conestabile di Francia, non aspettava altro se non che lui partissi del regno per sollevarlo e fare novità in esso, e che era convenuto con Cesare e col re d’Inghilterra. A Francesco, che per l’ordinario non aveva molta buona oppenione di Borbone, fu facile a credere quello di che gli fu dato notizia. E passando da Mulins, terra di detto Borbone, dove lui era e si fingeva malato, l’andò a visitare a letto e li disse che s’inviava a Lione per passare i monti e che li piacessi subito seguitarlo, perché si voleva valere e dell’opera e del consiglio suo. Borbone gli rispose che li medici gli dicevono che intra quattro giorni starebbe in modo che potrebbe, se non cavalcare, farsi portare in lettica; e come si sentissi da fare questo, non metterebbe dilazione a pigliare il cammino verso Italia per trovarsi col suo Re alla vittoria.

Partito Francesco da Mulins, ebbe, e pel cammino et in Lione, più riscontri che Borbone lo ingannava e che era accordato con Cesare, e che un certo monsignor di Beurein, borgognone, era suto veduto a Mulins perché era quivi per condurre la convenzione. E li fu fatto intendere come monsignor di San Valerio e Marco Depria et il vescovo d’Otton erono consci di questo trattato. Nondimeno Francesco, moderato in ogni suo negozio, non volle in questo, tanto importante, correre a furia e si fermò in Lione, et aspettava lettere da uno suo gentiluomo, che aveva lasciato appresso a Borbone perché lo sollecitassi. Il gentiluomo con modestia lo sollecitava, ma egli gli monstrava non migliorare. Pure si misse in lettica e si fece portare una giornata verso Lione, stimando che, come Francesco intendessi il partire suo da Mulins, non fussi più per diffidare di lui e dovessi pigliare la via verso Italia e, come fussi partito, colorire il disegno suo. Ma come intese che Francesco l’aspettava a Lione, non volle procedere più avanti, ma si misse a mezza notte in via con quattro a cavallo e ne andò verso i monti d’Alvernia.

Il gentiluomo, [39r] levato la mattina, intese il caso e, montato in poste, lo corse a dire al Re: el quale, chiaro d’ogni dubbio che aveva, fece pigliare quelli che io nominai di sopra e da loro intese Borbone avere ordinato il più scellerato trattato che si potessi pensare, perché, sendo del sangue di Francia e non lungi da potere pervenire alla corona, era convenuto che di quello regno si facessi tre parti, la Borgogna avessi Cesare, la Ghienna il re d’Inghilterra, et il resto rimanessi a lui. Et era tanto l’odio e l’ambizione che lo portava, che non considerava che distruggeva tutto il regno di Francia, perché non era possibile che Carlo et Enrico, preso che avevono la parte convenuta, non volessino il resto, acciò non potessi surgere uno del sangue di Francia che fussi atto a ripigliare il tutto.

Ma Borbone, sendoli suta promessa per donna la sorella dello Imperatore, rimasta vedova per la morte del re di Portogallo, si persuadeva trovare quella fede in altri della quale lui mancava al suo Re et alla sua progenie. E forse che era suto male trattato da Francesco, che l’aveva fatto, come fu assunto al regno, gran conestabile di Francia, uficio che era stato molti anni senza concedersi a alcuno perché è di troppa auttorità, lasciatolo poi suo luogotenente a Milano, chiamatolo sempre alle sue più secrete deliberazioni, et onoratolo e stimato più che altro signore di Francia?

Borbone, d’Alvernia, per occulti cammini, venne in Savoia e di quivi a’ Svizzeri e poi in Lombardia. Francesco, dubitando di qualche sollevazione nel regno, si fermò a Lione, non volendo, per venire a recuperare la ducea di Milano, lasciare in pericolo il regno di Francia. E così la vittoria quale, venendo, otteneva al sicuro, li uscì delle mani.

 

L’Ammiraglio felicemente condusse lo essercito in sulle porte di Milano e, non facendo la città alcuno movimento, vi s’accampò. In Milano, oltre al Duca, era Prospero Colonna. Corsevi subito Ferrando Davalo, venne dipoi il Viceré con tutte le reliquie di genti, a piè et a cavallo, che erono nel Regno. E si preparorno li Cesarei non solo a difendere Milano, ma, insieme co’ Veniziani, che avevono per capitano il duca d’Urbino, pensorono di ordinare di qualità il loro essercito, da potere affrontare e’ Franzesi: e’ quali stettono duoi mesi interi in sulle mura di Milano, in luoghi bassi et acquosi per l’ordinario, ma molto più allora, perché, sendo l’autunno, mai cessò di piovere. [39v] Nutrivali la speranza che a’ Cesarei avessino a mancare e’ danari; e certo l’Ammiraglio monstrò, nel tenere e’ Franzesi intorno a Milano, che loro, quando era necessario, sapevano così stare fermi, come vincere ne’ primi impeti.

Pure era già venuto il verno e li Cesarei avevono fatto essercito da potere, se non combattere, impedire le vettovaglie. Onde e’ Franzesi furono constretti ritirarsi a Biagrassa, luogo assai vicino al Tesino, e dove avevono e’ viveri con facilità. E’ Cesarei, come i nimici si levorono da Milano, crebbono non solo d’animo, ma di tante forze, che iudicavono essere atti di potere combattere con li avversari.

Ancora che Adriano fussi uomo da non essere pontefice in tempo tanto travagliato, non voglio però omettere le azioni sue.

Quando il duca di Sessa intese che il re di Francia si preparava per venire in Italia, fece grande instanzia a Adriano che si dovessi collegare con Cesare e con li altri Italiani a difesa d’Italia. Egli recussò qualche giorno volerlo fare perché diceva non essere oficio di pontefice pigliare parte. Ma quello lo faceva stare più renitente era il non avere danari né modo a provederne perché, ancora che fussi parcissimo nello spendere e togliessi donde poteva, non bastava, perché Leone aveva tanto speso, che non aveva lasciato modo da spendere a’ successori. E li mancavono ancora e’ ministri, perché e’ suoi Fiamminghi non intendevano e lui non confidava negl’Italiani, se non forzato, e’ quali, conoscendo questo, il più delle volte lo ingannavano. Pure, presentandoli il duca di Sessa una lettera di Cesare la quale lo strigneva a entrare nella Lega, non seppe contradire e promisse concorrere alle spese della guerra con quindicimila ducati il mese per tre mesi; e pagò li quindicimila pel primo mese, li altri gli fu lecito non pagare, perché morì del mese di settembre.

E stette pontefice circa mesi venti, de’ quali stette undici a Roma. E nuoce tanto l’aria di Roma a chi non vi è assuefatto, che, benché lui fussi sobrio e continente, in capo di poche settimane vi giunse, cominciò a essere indisposto e così, a poco a poco aggravando, morì d’una febbre lenta. Uomo, certo, religioso e buono et atto più presto a essere frate che papa; benché stette sì poco tempo, et era nuovo in Roma, che non si può fare vero iudicio di lui.

Morto Adriano, e’ cardinali, tutti d’accordo, feciono l’essequie e vollono che il cardinale de’ Soderini fussi libero et entrassi [40r] in Conclavi, el quale, Adriano, sendo vicino alla morte, a instanzia de’ Cesarei, per una bolla relegò in Castello.

Fatte l’essequie, entrorono trentatrè in Conclavi e ne vennono, poiché fu serrato il Conclavi, tre di Francia per mare, et uno di Piemonte, e’ quali tutti entrorono come è il costume. E fu grande discettazione tra i cardinali di chi dovessi essere eletto papa e tanta ostinazione, quanta fussi in elezione alcuna molti anni sono, perché erano quindici uniti a fare papa il cardinale de’ Medici e li altri, benché fussino più, non erono uniti tutti a fare uno: e tra loro ne erono più che aspiravono al pontificato. Stettono in questa altercazione cinquanta dì e finalmente la parte unita e minore superò la disunita e maggiore. E fu eletto pontefice Iulio, cardinale de’ Medici, el quale si fece chiamare Clemente settimo.

E come io dissi nel principio del mio scrivere che la fortuna, avendo dato la vittoria a’ Franzesi a Ravenna, di pietosa madre cominciò a diventare loro crudele matrigna, così fece a Clemente, e parve si volessi pentire di tutti li onori e degnità li aveva contribuito, perché chi essaminerà le azioni di Iulio de’ Medici, quando era prima cavaliere e poi cardinale, le troverà prudenti. È vero che entrò in uno pontificato consumato tutto dalle guerre e spese di Leone le quali Adriano, ancora che parco, non potette riordinare perché, come ho detto di sopra, sendo nuovo et in Corte et in Roma, era da ciascuno ingannato.

Oltre a questo, Clemente nella sua elezione restò ubrigato a quelli quindici cardinali che nel Conclavi gli tennono sempre il fermo. Trovò l’Italia piena d’esserciti e la Cristianità indebolita per la perdita di Rodi e per la preparazione che faceva il re de’ Turchi contro all’Ungheria. Trovò ancora la Chiesa romana in pochissima riputazione rispetto alla setta luterana, che aveva occupata gran parte d’Alamagna e del continuo andava crescendo.

Ma L’ambizione delli uomini è così fatta, che non si può astenere dal cercare e’ primi gradi. Iulio conosceva dove entrava, non parlava non discorreva d’altro, nondimeno durò una gran fatica per diventare, di grande e riputato cardinale, piccolo e poco stimato papa.

 

A pena era aperto il Conclavi che il duca di Sessa, oratore di Cesare, con l’arroganzia spagnuola, li andò monstrando che lui era stato eletto pontefice con il favore di Cesare e che non bastava che egli seguissi nella Lega, che aveva fatta [40v] Adriano, che disponeva circa la spesa quello è scritto di sopra, perché bisognavano più danari, accennandoli che Cesare pensava lasciare la spesa della guerra in gran parte sopra di lui.

Clemente, trovandosi senza danari e senza modo alcuno di poterne provedere, dava parole, onde in pochi giorni divenne sospetto a detto Duca. El quale, non si volendo alterare né rompere col Papa, pensò a strignere e’ Fiorentini e non solo con parole, ma con minacce. Né Clemente vi poteva rimediare, perché era troppo debole, et i Fiorentini, sentendosi minacciare in sulla creazione sua, scopersono che questo procedeva dalla poca riputazione del Papa, perché non si potevono persuadere procedessi da poca affezione, avendo, mentre vi era stato, non solo durato fatica e con la persona e con lo ingegno, ma spesovi ancora danari assai. Et avendo preso conforto in sulla creazione sua stimando avere a essere riguardati, s’aviddono che questo non era per riuscire: e li amici a poco a poco cominciorono a meno amarlo, e li inimici a men temerlo. Andorono a Roma, secondo l’uso, dieci oratori a darli l’ubidienzia. E Palla Rucellai, uno d’essi, fece in consistorio publico una orazione degna di qualunque eccellente oratore.

 

Nella stanza feciono in Roma detti oratori, Clemente volle consultare con essi come si doveva governare Firenze, poi che lui, che n’aveva avuto la cura qualche anno, non vi poteva più attendere. Delli suoi aveva solo dua, uno chiamato Ipolito, figliuolo di Giuliano, d’anni quattordici, et uno Alessandro, figliuolo di Lorenzo, di tredici; e nessuno d’essi, rispetto alla età, si poteva preporre al governo della città. Però il Papa chiamò uno giorno messer Francesco Minerbetti, arcivescovo turretano, Lorenzo Morelli, Alessandro Pucci, Antonio de’ Pazzi, Ruberto Acciaiuoli, Francesco Vittori, Galeotto de’ Medici, Palla Rucellai, Lorenzo Strozzi e Giovanni Tornabuoni, tutti imbasciadori, et aggiunse con loro Iacopo Salviati e Piero Ridolfi, e’ quali allora si trovavono in Roma; e pregò che ciascuno dicessi l’oppenione sua liberamente circa il modo che si doveva tenere a governare la città, e che a lui non s’avessi rispetto alcuno perché, sendo pontefice, non li mancherebbe facultà di benificare questi suoi nipoti senza mandarli in Firenze.

Quasi tutti li uomini sono adulatori e dicono [41r] volentieri quello che credono piaccia alli uomini grandi, benché sentino altrimenti nel cuore: e di tredici che lui domandò, ve ne furono dieci che lo confortorono a mandare Ipolito in Firenze, sotto la custodia del cardinale di Cortona, il quale governassi come aveva fatto Giuliano e Lorenzo e lui.

Ruberto Acciauoli, Francesco Vittori e Lorenzo Strozzi furono d’altra oppenione e monstrorono non essere né onorevole né utile per la città che a governo d’essa fussi uno cardinale, et uno cardinale delle terre suddite a’ Fiorentini; e che i cittadini erono stati pazienti al governo suo e l’avevono avuto in reverenzia come Iulio de’ Medici e non come cardinale; e che non interverrebbe così a Cortona, il quale attenderebbe a vivere giorno per giorno e non arebbe affezione alla città; e che se voleva mandare Ipolito a Firenze, lo mandassi, el quale attendessi a studiare et altri suoi piaceri, insino che fussi d’età che si potessi conoscere se era atto al governo o no; e che in questo mezzo lasciassi governare la città a’ cittadini col fare uno gonfaloniere per uno anno, nel quale egli confidassi, e così si seguitassi insino non si pigliassi altra forma. Et a questo modo egli potrebbe disporre della città et a’ cittadini parrebbe tenere il grado loro.

Clemente udì l’oppenione di ciascuno, ma in fine la maggiore parte vinse la minore, e forse la migliore. Venne il cardinale di Cortona a governo e, dopo qualche settimana, Ipolito.

 

1524

In Lombardia, poi che l’essercito franzese fu ritirato e si fermò a Biagrassa, e’ Cesarei pensavono il modo di cacciarli e disegnavono fare ponti in sul Tesino e vie e trincee da impedire loro le vettovaglie e andarli a combattere con gran vantaggio. E però non indicando l’Ammiraglio che l’essercito suo vi stessi sicuro, lo ritirò di là dal Tesino verso Noara.

Avevono li cavalli et uomini suoi, stando intorno a Milano l’autunno passato e parte del verno, patito assai, onde l’essercito suo era attenuato molto di forze, e però lui con grande instanzia domandava al suo Re e nuove genti e nuovi danari. E Francesco, con celerità, preparava di provedere a quello li era domandato, e già nuovi Svizzeri erono a Ivrea e nuove lance a Susa. Ma sendo passati e’ Cesarei ancora loro il Tesino, trovorono e’ Franzesi nello alloggiare in qualche disordine. Et in una piccola scaramuccia, volendo [41v] l’Ammiraglio tenere fermi i suoi, fu ferito di ferita pericolosa e bisognò ne fussi portato a braccia. E per questo e’ suoi, inviliti, si missono in fuga e tutto l’essercito si risolvette in fummo.

E così una prudente et iusta e bene ordinata impresa ebbe infortunato essito.

Sollecitò subito Borbone il Viceré e marchese di Pescara che conducessino l’essercito imperiale vittorioso in Francia e non lasciassino ripigliare il fiato al Re. E furono tante le sue persuasioni, che l’essercito imperiale si condusse per terra in Provenza. Clemente, ancora che dovessi desiderare che la guerra uscissi d’Italia, dubitava, come buono Pontefice, ch’el regno di Francia non fussi da’ Cesarei trovato sprovisto e patissi qualche grandissimo danno, e s’ingegnava, quanto poteva con le parole, ritenere e’ Cesarei dal passare in Provenza, monstrando che, se si conducessino là e non facessino effetto, arebbono fatica a potersi ritirare e ne potrebbe seguire la destruzione di quello essercito, la quale si potrebbe poi tirare drieto la totale ruina di Cesare in Italia, e forse altrove.

Il Viceré e Pescara non erono alieni da questa oppenione, ma avevono ordine da Cesare di credere in questo a Borbone il quale, e per lettere e per uomini a posta, li aveva fatto intendere di farlo in pochi giorni signore di gran parte di Francia. E quando il Viceré e Pescara prolungavono l’andata, lui protestava che per esso non restava di non eseguire quanto aveva promesso, e che loro erono causa di levare a Cesare la vittoria manifesta. E tanto gl’infestò con prieghi, conforti e protesti che, come dissi di sopra, l’essercito andò in Provenza per terra e l’artigliere s’imbarcorono a Genova e si condussono per mare drento allo essercito dove ne era di bisogno.

Trovorono gl’Imperiali il paese senza provisione alcuna, li uomini imbelli e vili, e’ quali lasciavono a furia i luoghi deboli e si conducevono a’ più forti. E però in pochi dì presono molte terre e castelli, et, intra l’altre, Ais, capo della Provincia e dove si tiene il parlamento, ché trovorono quella città quasi abbandonata. Ridussonsi poi a porre il campo a Marsilia, dove era Renzo da Ceri per il Re, che la fortificò in pochi giorni, in modo che potette sostenere per più giorni li assalti delli inimici.

 

Francesco, avendo quasi perduto l’essercito in Italia  [42r] e trovandosi assaltato in Provenza, si volse a fare gran provisioni, e preste. Ma, non si potendo nel regno di Francia fare numero di fanti buoni, fu forzato a ricercare Svizzeri et Alamanni li quali, secondo il solito loro, non furono molto presti. Egli, in quel mezzo, attese a ordinare le genti a cavallo e l’artiglierie e, come i fanti giunsono, con tutto l’essercito s’inviò verso Marsilia. Il che come i Cesarei intesono, deliberorno non l’aspettare, ma subito voltare per tornarsene in Lombardia.

Il Re, intesa la resoluzione dei nimici, avendo fatto grossa spesa e trovandosi buono essercito, deliberò venire in Italia e pensò giugnere in Lombardia prima che gl’inimici, perché essaminò che loro, avendo a fare la via per luoghi montuosi e dificili e per paese inimico, fussino constretti tornarsene a piccole giornate. Li Cesarei, avendo avuto notizia di questo suo disegno, affrettorono il cammino quanto potettono et a punto giunsono in Alessandria, quando il Re in Noara. E passarono il Po e messono buona guardia in Pavia. E Pescara e Borbone n’andorono volando in Milano, et il Viceré verso Cremona, perché non si fidavano né de’ Veniziani né del Papa.

Francesco, mosso da Noara, passò il Tesino, e andava con tutto l’essercito a Milano. Il che come Ferrando e Borbone intesono, non confidando di quel popolo, si ridussono con le loro genti verso Cremona, dove era il Viceré. Ma come Francesco lo intese, non volle più seguire il cammino verso Milano, avendo dubbio, come buono e pietoso principe, non potere riparare, entrandovi, che l’essercito suo non lo mettessi a sacco. E vi mandò solo Teodoro Triulzio con dugento lance e dumila fanti, al quale il popolo di Milano subito si dette. E così la troppa benignità di Francesco fece che non vinse la guerra, perché, se egli andava a Milano e poi seguitava i Cesarei verso Cremona, li quali erano in fuga e sbigottiti, loro erano necessitati o venire alla giornata con grande disavantaggio o abbandonare tutto lo stato di Milano e salvarsi nelle terre de’ Veniziani o del Papa. Ma Francesco fu consigliato di vincere a passo a passo, né si lasciare drieto Pavia, dove era buona banda di inimici.

 

Era alla fine del mese d’ottobre, l’anno ventiquattro, quando il Re s’accampò a Pavia, pensando in pochi dì [42v] ottenerla. Alla difesa di quella terra era capo Antonio di Leva, spagnuolo, con circa mille fanti della medesima nazione e cinquemila Tedeschi. Il Re fece piantare l’artiglieria e dare uno principio di battaglia, la quale successe poco felice. Et avendovi posto il campo, non pareva se ne potessi levare con onore; e fu consigliato dalla più parte delli suoi che stessi tanto intorno a quella città, che la pigliassi col batterla o con obsidione. Francesco era venuto in Italia con grandissima celerità et aveva, col pigliare Milano in su la prima giunta, acquistato assai di riputazione, ma la espugnazione lenta di Pavia cominciò a fargnene mancare.

E’ Veniziani, che avevono fatto la lega con Cesare e con papa Adriano, poi che egli era morto, dicevono che quella era finita e si stavano quasi di mezzo, e più presto inclinavono a Francesco. Ma vedendo e’ Cesarei rassettarsi, dubitando che ’l Re non succumbessi, sumministrorono viveri a’ Cesarei, e’ quali, sanza essi, erono spacciati. Clemente ancora, sendo ricerco di danari dag[l]’Imperiali e negandoli perché non aveva, dubitava non essere venuto loro sospetto et arebbe volentieri penduto dalla parte di Francesco. Nondimeno non ardì fare se non il medesimo che i Veniziani.

Andando l’obsidione di Pavia in lungo, Francesco fu confortato a mandare una parte delle genti sue verso il Regno di Napoli, acciò che li Cesarei avessino a lasciare lo stato di Milano e ritirarsi verso il Regno. Il che se facevono, il Re aveva lo intento suo, se non lo facevono, era possibile che nel Regno seguissi alterazione di sorte, che li Cesarei non ne potessino trarre danari da nutrire l’essercito. Ma non poteva mandare questa gente senza il consenso del Papa, perché non era tanta che si potessi guadagnare il passo per forza, et era constretta passare per le terre de’ Fiorentini e della Chiesa. E per questo, per opera d’Alberto conte di Carpi, oratore del Re a presso a Clemente, si concluse convenzione tra il Re e Papa, solo quanto a questo: che il Papa la lasciassi passare, pagando quello aveva bisogno, e senza offendere terra alcuna de’ Fiorentini né sue. Et il Papa stimò certo, che come questa gente del Re si metteva in cammino, che gl’Imperiali si dovessino ritirare verso Napoli, onde seguirebbe che Francesco, senza altrimenti combattere, diventerebbe signore di Milano e Carlo si terrebbe [43r] il Regno di Napoli, e ciascuno di loro arebbe cura che l’altro non diventassi maggiore in Italia, acciò non fussi più potente a offenderlo.

 

Mandò adunque Francesco il duca d’Albania con dumila cavalli e tremila fanti. Né e’ Cesarei, per intendere che si movevano, si partirono per ritornare nel Regno, ma attesono a prepararsi per andare a combattere l’essercito del Re, che era intorno a Pavia e stava in quel luogo con gran dificultà, per essere basso e pieno d’acqua e per essere il verno più piovoso che il solito.

 

1525

Albania passò con le genti sopradette per la Carfagnana in Toscana e dai Lucchesi ebbe qualche suvvenzione di danari e d’artiglierie. Poi, passato pel paese de’ Fiorentini, entrò nel Sanese e si posò intorno a Siena, volendo ridurre quella città a un governo da poterne disporre. E lo rassettò alquanto, ma non fece quello credette. Andò dipoi verso Roma et entrò nelle terre delli Orsini, amici del Re. E quivi aspettava danari, per dare a’ fanti aveva e fare di nuovo delli altri, per entrare più gagliardo nel Regno.

E’ Cesarei, conoscendo il pericolo che soprastava loro nel Regno, iudicorono che quello che s’aveva a fare in Lombardia bisognassi farlo presto, e si mossono da Cremona per andare a trovare e’ Franzesi.

Non restava Clemente di confortare il Viceré e Francesco a

accordarsi e mandò, per questo effetto, Ioan Matteo Ghiberti, suo datario, al Re, et al Viceré Paulo Vittori, fiorentino, el quale aveva avuto, a tempo di Leone, la cura delle galee e l’aveva a tempo suo. Ma non potette fare effetto alcuno perché Borbone, el quale si persuadeva dovere essere duca di Milano, impediva ogni trattato.

Andorono gl’Imperiali inanzi e presono per forza Santo Agnolo, castello vicino al campo franzese a miglia venti, dove era preposto alla guardia Pirro Gonzaga, fratello di Federigo. Questa presa dette arra della vittoria de’ Cesarei, che crebbono assai d’animo e s’accostorono al campo franzese a dua miglia e quivi feciono loro alloggiamenti. Et in una scaramuccia, un giorno, fu ferito da’ Cesarei Giovanni de’ Medici d’uno archibuso in una gamba, il quale aveva nello essercito franzese condotta di dumila fanti e cento lance. Questa ferita fu d’importanza grande perché egli fu forzato a farsi condurre per barca a Piacenzia, e non era il più ardito capitano tra li soldati di Francesco che lui e sotto il quale i fanti combattessino più volentieri. [43v]

 

Stettono li campi così qualche giorno presso l’uno all’altro, et ogni giorno si faceva qualche leggiere scaramuccia; et i Franzesi avevono grande disavantaggio, perché erano a campo a una terra che aveva in corpo più che semila buoni uomini per combattere et avevono, a rincontro, uno essercito di numero e valore equale a il loro, e bene capitanato. E benché il Re, cognoscendo queste cose, più volte proponessi in consulta che era da ritirarsi a Binasco, li più del suo consiglio dissuadevono tale partito, iudicando essere grande ignominia levarsi da una terra sanza vittoria dove la persona del Re fussi stata più che tre mesi.

E mentre che i Franzesi erano in queste dispute del ritirarsi o no, Ferrando, capo de’ fanti ispagnuoli, cognoscendo non li potere più intrattenere con le parole e non avere ordine di danari presti, deliberò tentare la fortuna. E la mattina di Santo Mattia, alli ventiquattro di febbraio, assaltò il campo franzese dua ore avanti giorno. I Franzesi, inteso lo assalto, corsono alla difesa et insisterono molte ore. Et ancora che quelli di Pavia uscissino fuori, e’ Cesarei non erono superiori. Ma crescendo del continuo il numero de’ fanti, de’ quali in fatto gl’Imperiali avanzavono e’ Franzesi, Francesco fece comandare alla banda de’ Svizzeri, che stava da parte in ordinanza per rispetto, che lo venissi a soccorrere. I Svizzeri o per timore dell’artiglieria, perché avevono a passare dove la terra batteva, o per qualsivoglia altra causa, non vollono venire. Di che seguì che, dopo che li altri fanti e cavalli de’ Franzesi ebbono fatto una gagliarda resistenzia, in fine, superati dalla moltitudine, furono forzati a succumbere.

Il Re combatté tutto giorno valentemente et in ultimo si poteva salvare tra li Svizzeri, che restavono interi e così se n’andorono, ma volle più presto essere prigione o morire, che salvarsi tra quelli che non l’avevono voluto aiutare in tanto bisogno. E dopo che ebbe combattuto molte ore sendogli suti morti d’intorno molti arditi cavalieri delli suoi, sendoli suto ferito il cavallo nelle gambe e per tal ferita caduto, fu fatto prigione dal Viceré.

La qual cosa io non iudico punto ignominiosa, perché la guerra consiste assai nella fortuna et il più delle volte si vince e [44r] perde, secondo che quella ne dispone. Et uno capitano, che ordina bene la battaglia e poi combatte con prudenzia et animo, ancora che il successo non sia buono, non è da biasimare. Ma si possono bene e debbono dannare quelli principi e’ quali, standosi per le camere in ozio, danno la cura ad altri delle guerre, le quali pigliano senza necessità, non si curando se li popoli sono rubati e straziati. Questi, quando bene ottenghino le imprese desiderate, meritono assai più calunnia che laude.

 

La vittoria de’ Cesarei fece che tutto quello che Francesco aveva preso nello stato di Milano subito ritornò a loro e Milano a Francesco Sforza, perché, come Teodoro Triulzio ebbe la nuova della rotta, fece armare le sue genti e con esse s’uscì di Milano, e salvolle in Piemonte.

Il Re, fatto prigione, fu condotto nella fortezza di Pizzicatone, a custodia di Larcone, uno de’ capitani spagnuoli, così uomo da bene e valente quanto ne fussi uno altro intra essi. E’ Cesarei, elati per questa vittoria, minacciavano e’ Veniziani, il Papa et e’ Fiorentini e non si contentavono molto del duca di Milano. E feciono passare parte di loro genti in Piacentino e Parmigiano, dicendo volerle fare poi passare in Toscana per andare a trovare il duca d’Albania, che era nelle terre delli Orsini, presso a Roma. Il Papa era confortato da qualcuno di dare danari a detto Duca e soldare altri fanti, unirsi co’ Veniziani, reintegrarsi con Ferrara, con restituirli Modona, farlo capitano e fare a’ Cesarei nuova e grossa guerra. Ma sappiendo lui quanti pochi danari aveva, quanti pochi ne poteva provvedere, quanto e’ Veniziani pensino al caso loro proprio et imbarchino altri e poi, avendo la città sicura dal sacco, si ritirino e non faccino le provisioni necessarie, sappiendo che avevono per capitano il duca d’Urbino, del quale non poteva confidare, né volendo restituire Modona al duca di Ferrara, ma pensando più presto riavere Reggio, il quale detto Duca aveva preso nella sede vacante dopo papa Adriano, e tenendosi in questo molto iniuriato da lui, perché il Duca era convenuto restituirlo a Clemente, con certe convenzione, ma come intese che il re di Francia era in Italia, si ritirò dalla promessa, in effetto, Clemente volle più presto accordare di dare agli Imperiali ducati centomila con certe condizioni, le quali Cesare doveva ratificare, che atten[44v]dere a nuova guerra.

Pagarono e’ sopradetti danari in gran parte e’ Fiorentini. Non che Clemente non volessi pagarli lui, ma non aveva e non trovava modo a provederne, temendo d’aggravare e’ sudditi della Chiesa in tanta grandezza degl’Imperiali. E’ quali, ancora che avessino li centomila ducati, non levorono le genti delle terre della Chiesa né pensorono di fare rendere Reggio al Papa, secondo il convenuto, ma convennono di nuovo con il duca di Ferrara, et ebbono certa somma di danari. Né venne mai da Cesare la ratificazione delli capitoli che li suoi avevono fatta col Papa. Vennono bene buone lettere et uomini che pascevano il Papa di speranza.

Erano li Cesarei dubbi dove avessino a tenere il Re prigione perché, tenendolo in Pizzicatone, erono constretti a tenerli gran guardia e non potevano disegnare di fare con il loro essercito fazione alcuna né di scemare spesa. Et ancora che in Italia non avessino inimici scoperti, perché il duca d’Albania, per mare, con li suoi s’era ritirato in Francia, pure non si fidavono del Papa né de’ Veniziani, né del duca di Milano né, per dire in una parola, d’alcuno italiano. Né vedevono il modo da mandarlo in Ispagna perché i Franzesi erano più gagliardi in sul mare di loro; e pareva si risolvessino più presto a condurlo per mare a Napoli et il Viceré, che in fatto era quello in cui era 1’auttorità, diceva volerlo condurre a Napoli.

Il Re arebbe voluto condursi in Ispagna, stimando avere migliori patti da Carlo e trovare più pietà in lui che nelli suoi. E mandò in Ispagna monsignore di Memoransì, in cui aveva tutta la sua fede, per ottenere da Cesare d’essere condotto là e, per tôr via la difficultà a Cesare di non avere galee, li fece offerire che le sue, che erono a Marsilia, servirebbono a questo effetto, e che il Viceré, per sicurarsene, potrebbe levarne li uomini Franzesi e mettervi delli suoi.

Carlo, al quale pareva gran gloria che uno re di Francia venissi prigione in Ispagna, rimesse tutto questo negozio al Viceré. Lui, elato di condurre prigione uno tanto principe iinanzi al suo Signore et ancora desiderando satisfare al Re, si volse condurlo in Ispagna, sanza conferirlo né a Borbone né a Pescara che credevono che, quando il Viceré lo levò di Pizzicatone per condurlo a Genova, lo dovessi poi fare imbarcare quivi per Napoli. Ma egli, come l’ebbe in mare [45r], fece voltare le galee al cammino di Barzalona e sei galee del Re vennono da Marsilia a incontrarlo, secondo aveva ordinato Memoransì, in su le quali il Viceré fece montare uomini suoi. Et in pochi giorni tutta questa armata arrivò a Barzalona.

Pescara e Borbone rimasono tanto male contenti, quanto non si potrebbe scrivere, e Pescara, al quale infatto pareva avere dato la vittoria a Cesare, sfidò il Viceré a battaglia chiamandolo traditore.

Clemente, oltre a essere male satisfatto delli Cesarei perché non li era ottenuta cosa alcuna del convenuto, era tutto giorno sollecitato da’ Veniziani di collegarsi con loro; e la madre del Re lo stimolava con uomini e lettere, promettendoli cose grandi. Il duca di Milano, che aveva molto sopportato in questa guerra, quando credette avere la investitura libera del ducato da Carlo, intese che era venuta nelle mani del Viceré, ma con condizione che non li fussi data, se non pagava ducati secentomila per le spese della guerra e s’obligassi poi a dare ciascuno anno a Ferrando, fratello di Cesare, ducati quindicimila, e che dovessi pigliare e’ sali da detto Ferrando per tutto lo stato.

Condizioni insopportabili e le quali dimonstravono aperto l’animo di Cesare essere che quello stato restassi a lui, per disporne come li venissi a proposito e darlo o a Ferrando, suo fratello, o a Borbone. El quale era ito ancora lui da Cesare e, per potervisi condurre, era stato servito da Clemente di buona somma di danari e di due sue galee. E fu accolto da Carlo con grande onore e con manifeste dimostrazioni d’amarlo.

 

Era rimasto in Italia Ferrando Davalo, el quale il Papa, i Veniziani, duca di Milano, tutti male satisfatti di Cesare e timidi della sua grandezza, cominciorono a tentare da lungi con metterli inanzi alli occhi le fatiche sostenute, e’ pericoli corsi, la vittoria acquistata per sua virtù, e nondimeno la poca remunerazione ne riceveva, e che il Viceré, come trionfante, aveva condotto il re di Francia in Ispagna et era stato et onorato e commendato da Carlo, e pure nella giornata non si era più adoperato che un semplice uomo d’arme. E li feciono offerire che, quando volessi attendere, non li mancherebbono favori a farlo signore del Regno di Napoli, monstrandoli la facilità.

Pescara porse nel principio orecchi a questi ragionamenti, ma, rivolgendoseli dipoi nella mente, li parvono dificili a riuscire. Et essendo per nazione spagnuolo, ancora [45v] che fussi nato in Italia, deliberò, con la destruzione di quella, diventare grande. E fece intendere a Cesare tutto quello di che era stato tentato monstrandoli che tutti l’Italiani, generalmente, l’odiavono, e che il modo di castigarli era non diminuire l’essercito che egli aveva in Italia, ma accrescerlo e con esso tôrre lo stato al duca di Milano, ruinare il Papa, Fiorentini e Lucchesi. De’ Sanesi non parlava perché, morto Raffaello Petrucci, cardinale, che governava quello stato, v’entrò, col favore del Papa e delli Spagnuoli, a governo Fabio figliuolo di Pandolfo; el quale sendone per dissensione civile cacciato, dopo molte alterazioni che ebbe quella città, Alessandro Bichi vi era venuto in gran riputazione. Ma sendo in oppenione di tenere le parti franzesi, quando il Re fu rotto e preso, lui fu da certi populari morto, e ne furono cacciati di Siena tutti li uomini più nobili e ricchi e si ridusse la città a essere imperiale e ghibellina, come è quasi stata sempre.

Poi voleva assaltare i Veniziani e tôrre loro tutto lo stato di terraferma, e ridurli a pigliare quelle condizioni che li piacessino. Né egli voleva fare questo per affezione che avessi a Carlo o per non li mancare di fede, ma cognoscendo Cesare non essere uomo di guerra, pensava, col nome suo e con li suoi danari, acquistare tanto di riputazione vincendo, che tutto quello avessi guadagnato in nome di Cesare, facilmente potrebbe ridurre a sé. Et era tanto superbo e tanto odio portava al nome italiano, che, per colorire questo suo disegno, non si curava mettere in pericolo lo stato del patrone et essere causa della ruina di tutti i popoli d’Italia.

Carlo, inteso il discorso e consiglio di Pescara, lo approvò e, per scoprire meglio ciascuno, li commisse che tirassi inanzi le pratiche, tanto che avessi qualcosa in mano per la quale potessi procedere con più pretesto di ragione. Il Papa et il duca di Milano facevono tenere questo maneggio a Ieronimo Moroni milanese, uomo astutissimo e che più volte aveva mutato mantello: e quando era suto franzese, e quando sforzesco, e quando imperiale, e d’ogni mutazione era uscito con più sua grandezza.

Pescara, quando gli parve avere tanto da costui che gli bastassi, un giorno che egli lo andava a vicitare a Noara e conferire certe cose per parte del suo Duca, lo fece prigione e lo fece confessare tutte le pratiche e del Duca, Veniziani e Papa.

Il che come il Duca intese, si ritirò [46r] nel Castello di Milano, el quale molto tempo inanzi li era pervenuto nelle mani perché li Franzesi che vi erano a guardia, constretti dalla fame, dopo lunga obsidione, gnene dettono. E la città, per detta ritirata del Duca, restò tutta a discrezione de’ Cesarei, dove Pescara corse subito e, contro alle promesse che fece a’ Milanesi, vi condusse quasi tutte le genti a piè et a cavallo, che egli si trovava in Lombardia.

Et essaminato diligentemente il Morone, gli fece dire quello sapeva e quello non sapeva e mandò l’essamina in Ispagna a Cesare, confortandolo a insignorirsi d’Italia per forza e non per accordo. E fece le trincee intorno al Castello di Milano, come vi erano state fatte altra volta quando vi erono e’ Franzesi dal signor Prospero.

Clemente, trovandosi scoperto d’avere tentato contro a Carlo, stava di malo animo. E benché il Morone non potessi monstrare del Papa altro che parole, erono tante e con tanti verisimili che, aggiunte alla mala disposizione che aveva Carlo e Pescara verso lui, bastavano.

E del continuo si tenevono pratiche tra Luisa madre del Re, Veniziani e Papa di collegarsi. Pure Clemente iudicava partito molto pericoloso convenire con Luisa, mentre che il figlio era prigione, perché, sendoli madre, come Carlo avessi offerto liberarlo, arebbe rotto ogni convenzione.

 

Francesco, poi che fu condotto in Ispagna, credette potere parlare a Carlo e farlo inclinare alle condizioni convenienti, ma non li riuscì, perché fu condotto a Madrid, presso alla corte a venti miglia, e quivi molto bene guardato. E benché più volte dimandassi di potere fare riverenzia a Cesare, mai li fu concesso. Di che prese tanto dispiacere, che ammalò e si ridusse in termine, che fu disperato dalli medici. Et allora Cesare, sappiendo che stava in modo da non potere parlare di convenzione, l’andò a vicitare e lo trovò che aveva più presto bisogno di raccomandare l’anima a Iddio, che il corpo a lui; e lo confortò con buone parole, dandoli ottima speranza.

Della quale visitazione il Re prese tanto conforto, che incominciò a stare meglio e del continuo seguitò, insino che guarì, ma con lunghezza. Et instava con spesse imbasciate e lettere appresso a Cesare che si venissi alla conclusione della sua liberazione. E perché seguissi più presto, fece venire in corte di Cesare Margherita, sua sorella vedova, credendo che ella avessi a facilitare le convenzioni, le quali si cominciorono a disputare. Et intra le prime cose, Carlo dimandava la Borgogna; Francesco diceva ch’ella non [46v] se li aspettava di ragione, e che per suo riscatto era  conveniente pagassi danari e quella somma che era solito pagare altra volta el e di Francia, quando era suto prigione. E monstrava ch’el re Giovanni s’accordò di pagare, per suo riscatto, al re d’Inghilterra un milione di scudi, e che egli voleva pagare il medesimo, e che, quando la ducea di Borgogna se li aspettassi di ragione, era contento fargnene restituire, ma, quando non se li aspettassi, fussi contento non li fare questo carico appresso a’ popoli suoi, e’ quali, sendo lui prigione, non si disporrebbono a volere che per suo riscatto alienassi i principali stati del Regno.

E dopo molte parole che andorono a torno, rimasono che rancesco facessi venire di Francia dua eccellenti iureconsulti, e’ quali disputassino col cancelliere di Cesare se la Borgogna s’aspettava a Carlo, come erede del duca Carlo, suo bisavo materno. E’ quali vennono e monstrorono chiaramente al cancelliere, et a ciascuno che lo volle intendere, che le ducee di Francia, che sono sotto la legge Saliqua, che così si chiama, non si transferiscono nelle femmine perché, quando è occorso che un re di Francia abbi più figli, il primo, per l’ordinario, ha il Delfinato, l’altro il ducato di Borgogna, l’altro d’Orliens, di Berri, di Borbone, d’Angolem e d’altri ducati, secondo la quantità de’ figli avessi; e, subito mancato la linea masculina, tali stati sono ritornati alla corona di Francia, perché, se fussino iti nelle femmine, come elle si fussino maritate fuori del regno, arebbono tirati quelli stati con loro et il regno presto sarebbe venuto a indebolire e distruggersi.

Né il cancelliere poteva rispondere a queste ragioni verissime, e pure Cesare insisté sempre in volere detta Borgogna. Francesco per cosa del mondo la voleva consentire perché conosceva che, cedendola, dava troppo grande adito a Cesare di distruggere tutto il regno di Francia, e che si faceva troppa vergogna in modo che la pratica si ruppe e Margherita si partì dalla corte dell’Imperatore, senza conclusione.

Pure il Viceré, il quale desiderava molto la liberazione del Re, non tanto per affezione che li portassi quanto per l’odio che aveva a Borbone, propose di nuovo che Francesco si contentassi restituire la Borgogna e pigliare per donna la sorella di Cesare, vedova, che era suta [47r] moglie del re di Portogallo, la quale Cesare aveva promesso a Borbone, et ella non si contentava molto di questo parentado. E monstrò il Viceré a Francesco che sarebbe possibile che, seguito questo sponsalizio, la sorella potrebbe tanto operare col fratello, che gli bastassi avere potuto riavere la Borgogna e non si curassi poi riaverla in fatto.

 

1526

Vennesi in fine a strignere e’ capitoli e’ quali per il Re furono strettissimi e si monstrava che erono fatti in prigione perché [oltre] allo ubrigarlo a dare la Borgogna, vi erano molte altre ubrigazione iniuste et inoneste. E perché Francesco avessi più causa d’osservare, volle Cesare per statichi duoi suoi figli.

 

Fatti i capitoli, il Re venne alla presenzia di Cesare e li fu fatto quello onore se li conveniva, pure era sempre ben guardato. Sposò la sorella di Carlo et, accompagnato dal Viceré, si partì. E nella riviera vicina a Bajona il Viceré ricevette e’ figli di rancesco e lui lasciò libero. E questo fu del mese di marzo nel venticinque, al modo fiorentino. E venne il Re a stare prigione circa mesi tredici. Ricercò il Viceré Francesco, poi che egli fu libero, che giurassi di nuovo e’ capitoli fatti con Cesare e promettessi l’osservanzia, il che egli ricusò, dicendo non volere farlo, se prima non consultava con li suoi.

Il Papa, intese tali convenzioni, subito espedìi Paulo Vittori al Re, e per rallegrarsi della sua liberazione e perché, quando lo trovassi inclinato a non osservare, li offerissi lega e lo animassi a fare gagliarda guerra a Cesare. Il detto Paulo, sendo pure d’età d’anni quarantanove e non molto sano, per la fatica durò a correre la posta, giunto in Firenze, ammalò e morì. Onde il Papa seguitò in mandare Cappino da Mantova, che era stato in corte di Cesare più mesi mentre il Re era prigione.

I Veniziani ancora vi mandorono uno secretario per fare il medesimo effetto. Enrico, re d’Inghilterra, dubitando della troppa grandezza di Cesare e malcontento di lui perché, avendoli dato più volte intenzione di tôrre per donna la figlia, aveva dipoi tolto la sorella del re di Portogallo, mandò ancora suoi uomini a sollecitare Francesco al non osservare. El quale arrivato a Bordeos in Guascogna e quivi trovato la madre e buona parte de’ signori del regno e l’imbasciadori e secretari sopradetti, concluse subito lega col Papa e Veniziani per fare una gagliarda guerra a Cesare, acciò li restituissi i figli senza [47v] darli il ducato di Borgogna.

 

Biasimano alcuni Francesco in questo atto di poca fede, et a me pare che egli facessi il più generoso et eccellente atto che sia stato fatto da principe alcuno, non solo a’ nostri tempi, ma molte centinaia d’anni sono. Né lo voglio difendere con quella ragione comune e vulgata, che è verissima, che li patti fatti in carcere sono fatti per timore e però non vagliono e non si debbono osservare. Ma tutti li uomini sono ubrigati prima a Iddio e poi alla patria. Francesco conosceva che, se egli non era libero, la patria sua andava in precipizio e destruzione. E fece cosa molto conveniente a promettere assai con animo di non osservare per potersi trovare a difendere la patria sua.

Né si può dire che egli promettessi perché lo stare ritenuto e quasi in carcere li rincrescessi, perché, se l’avessi fatto per questo, non meriterebbe commendazione, perché l’uomo debbe prima aspettare la morte che mancare di fede. Ma egli vedeva Carlo potentissimo, vedeva la Francia, per la rotta che lui aveva avuto, nella quale si erono perduti e’ principali signori di quel regno, e per la presa sua, invilita et indebolita, e considerava che se Cesare l’assediava, non vi era chi la difendessi, perché e’ figli erono piccoli e gli principi sarebbono stati in discordia tra loro di chi li dovessi governare. Et indicava non potere tenere altro modo a salvarla, se non questo che egli tenne. E se ancora Carlo fussi voluto stare alla semplice fede e parola sua di quanto convennono insieme, parrebbe, in un certo modo, si potessi dolere che egli fussi mancato di gratitudine, ma avendo voluto i figli per obsidi, non ha causa alcuna di potersi iustamente querelare.

E ciascuno che intende sì prudente e nobile atto, come ho detto di sopra, lo debbo estollere insino al cielo perché si può dire che Francesco, re di Francia, per liberare il regno, abbi esposto li proprii e da lui tanto teneramente amati figli; e, se avessi fatto altrimenti, meriterebbe grandissima riprensione perché si sarebbe potuto credere che egli amassi più e’ figli che la patria e che, per vivere in ozio et in piacere, non si curassi di quella: e li piaceri, mentre era prigione di Cesare, non li erono per mancare.

Ma cosa avessi pensato bene al caso suo Clemente, come fece Francesco! E se bene [48r] le azioni de’ principi non debbono essere dannate o commendate secondo li effetti sortiscono, ma secondo sono cominciate e ordinate con ragione o no, il partito che prese Clemente fu troppo animoso a un pontefice senza denari e che non può fare la guerra in persona. È vero che lui, standosi, vedeva la ruina manifesta e, movendosi, pensò potersene liberare.

 

Feciono lega, come è detto di sopra, nel principio dell’anno ventisei, Papa, re di Francia e Veniziani, con intenzione di tirare presto in quella il re d’Inghilterra che così promisse, allegando volere prima tentare, come neutrale, se poteva persuadere a Cesare che restituissi e’ figli a Francesco e che unissi tutta la Cristianità contro al Turco.

Carlo non aveva, in quel tempo, in Italia capi reputati nella guerra perché Pescara, come ebbe mancato della fede a’ Milanesi, infermò et in pochi giorni morì. Uomo che non si può dire che nell’arme non avessi fatto qualche fazione eccellente, ma era superbo oltre a modo, invidioso, ingrato, avaro, venenoso, crudele, senza religione e senza umanità, nato proprio per destruggere Italia. E si può dire certo che del male che [ha] patito e patisce ne sia stato in gran parte causa lui.

Il Papa e Veniziani, quanto più presto potettono, messono a ordinare le loro genti per giungnere i Cesarei sprovisti. E cominciorono sì presto a muovere la guerra, che non fu possibile che il Re avessi in ordine le genti che doveva mandare di qua da’ monti. Il Papa mandò Vitello Vitelli, Guido Rangoni, Giovanni de’ Medici, el quale, benché avessi soldo dal Re per cento lance, aggiunse dumila fanti. E fece suo luogotenente in questa impresa messer Francesco Guicciardini e mandò in Francia nunzio al Re, per sollecitare le provisioni, Ruberto Acciaiuoli.

Et i Veniziani messono insieme le loro genti d’arme e fanterie, sotto il duca d’Urbino, e, senza dilazione di tempo, tutto l’essercito del Papa e Veniziani s’appresentò a Lodi alla fine di giugno e quello prese per trattato d’uno italiano, capitano di fanti, che vi era alla guardia. E di quivi si spinse a Milano con quindicimila fanti e circa quattromila cavalli. E stimò certo il duca d’Urbino che gl’Imperiali che vi erano si partissino, impauriti del suo essercito, che veniva con vittoria, e del popolo di Milano inimicissimo loro per li mali trattamenti, e del Castello, nel quale era il Duca che era ancora lui nella Lega.        [48v]

In Milano per Cesare erono capi il marchese del Guasto et Antonio di Leva, poi vi erono altri buoni capitani spagnuoli et alemanni, e’ quali avevono tolte tutte l’arme a’ Milanesi e mandatone fuori assai, e massime de’ più giovani et animosi. Et avevono ridotto in termine quella città che, quanto alli uomini della terra, non avevono dubbio alcuno e determinorono aspettare che l’inimici li venissino a sforzare.

Il duca d’Urbino, poi che fu stato un giorno e quasi dua notte in sulle mura di Milano, se bene vi poteva stare più, o per timidità o perché non avessi caro che la Lega, nella quale s’interveniva il Papa, vincessi, senza conferire niente né a<l> Luogotenente del Papa né a’ suoi capitani, a mezza notte levò il campo, dicendo volersi ritirare solo quattro miglia e quivi fermarsi insino venissino le genti franzese, e che, stando quivi col campo, impedirebbe le vettovaglie a Milano. E con tutto quello diceva si ritirò a Marignano e voleva la sera medesima ire a Lodi. Ma il Proveditore veniziano, persuaso da il Luogotenente, non lo lasciò. Il campo si fermò a Marignano.

Et intanto s’intese che Borbone era arrivato a Genova con sei galee e che portava ducati centomila perché Cesare, subito che ebbe notizia ch’el Re non voleva stare alle convenzioni, mandò il Viceré et Ilarcone a lui, perché lo persuadessino alla pace ignominiosa e pericolosa. E commesse loro che, quando lo vedessino ostinato, cercassino d’ottenere di passare in Italia. Ma intendendo che il Re non voleva concedere il passo, si volse a mandare Borbone per mare. E mandò in Francia di nuovo don Ugo di Moncada, perché venissi in Italia imbasciadore al Papa, il quale Francesco lasciò passare, non volendo monstrare, nel principio della Lega, diffidare del Papa.

 

Borbone, arrivato a Genova, prese il cammino verso Alessandria, accompagnato da cinquecento fanti. E di quivi una notte entrò in Milano e dette grande animo agli Spagnuoli e Tedeschi, massime perché pensorono portassi più danari non portava.

Li oratori del Papa e Veniziani sollecitavono tuttogiorno il Re che almanco, per riputazione della impresa, mandassi le genti a cavallo. E lui mandò il marchese di Saluzzo non solo con secento lance, come era ubrigato, ma li aggiunse quattromila fanti. E già

comincia[49r]vono a comparire a Susa, quando il Castello di Milano, e per uomini e per cenni, fece intendere nel campo della Lega che non si poteva tenere se non era soccorso, perché non aveva da vivere. Fu messo in consulta più volte tra’ condottieri della Lega se si doveva soccorrere o no; e quasi tutti s’accordorono che si doveva e poteva fare senza pericolo, eccetto il duca d’Urbino el quale diceva non confidare tanto ne’ fanti italiani poco esperti, che gli volessi mettere a paragone con li Spagnuoli. Il duca di Milano, vedendo non li venire soccorso, stretto dalla fame, s’accordò come potette e, sendo ammalato, si ridusse prima in campo della Lega e poi a Crema.

 

Il Papa, come intese ch’el campo si era ritirato da Milano, discorse che la guerra dovessi andare in lungo e che gli bisognava pensare d’avere da spendere. E non avendo da trarre né più vivi né più presti danari che di Firenze, considerò che i Cesarei cercherebbono di mettere fanti in Siena per tenere e lui et i Fiorentini in sulla spesa di quelle bande, acciò che non potessino sumministrare danari in Lombardia. E fu persuaso che, se mandava i fuorusciti sanesi verso Siena, con qualche somma di fanti comandati, e facessi che i Fiorentini conducessino qualche pezzo d’artiglieria verso Poggibonzi, che il governo di Siena si muterebbe e vi entrerebbono li usciti, inimici a Cesare, e de’ quali egli potrebbe disporre.

Credette il Papa facilmente quello desiderava, e mandò e’ conti dell’Anguillara e di Pitigliano con circa quattrocento cavalli e quattromila fanti, tra pagati e comandati, et ordinò che Gentile Baglioni venissi con altri dumila del Perugino et assaltassi circa mille fanti sanesi, e’ quali erano a campo a Monte Rifré, castello di Giovanni Martinozzi, uno de’ primi usciti, e vi avevono condotto artiglieria per batterlo. Gentile, perché teneva le parti Colonnese, non volle fare quello potette e dette spazio a’ Sanesi di levarsi da campo dal detto castello e salvare l’artiglieria et i fanti.

Poiché li usciti erono condotti quivi, come quelli che sempre col pericolo d’altri cercavono tentare qualche cosa a loro benificio, feciono intendere al Papa che se loro con quelli fanti s’accostavono alle mura e piantavono solo dua pezzi d’artiglieria, più per dimonstrazione che per altro, che avevono tale ordine drento, che subito sarebbono chiamati. Clemente, desideroso che tal cosa riuscissi, se bene cono[49v]sceva di non avere capitani né fanti da potere sforzare Siena, si lasciò traportare a’ consigli delli uomini troppo passionati e permesse vi fussi messo il campo dalla parte che guarda verso Firenze.

Piantoronsi l’artiglierie, concorsonvi del paese de’ Fiorentini tutti li uomini che si dilettono di vivere di rapina e ciascuno attendeva a predare e rubare per quel contado. In campo non era chi comandassi né chi ubbidissi, non vi erano guardie, non scolte, non luogo deputato per il mercato. Le quali cose, venute a notizia di quelli di drento, gli feciono arditi, ancora che fussino pochi, a uscire fuori. Et il giorno di santo Iacopo saltarono della terra trenta cavalli e quattrocento fanti; quelli di fuori erono più che quattrocento cavalli e semila fanti. Nondimeno, trovandoli senza ordine, chi a rubare, chi a dormire, chi a giucare, chi a bere, tutti li messono in fuga, né mai fu possibile facessino testa né si fermassino insino non furono drento alla Castellina. Ruborono e’ Sanesi popularmente tutto il campo e con grande allegrezza e trionfo tirorno l’artiglierie delli avversari in Siena.

Questa rotta dette grande sbattimento al Papa e la parte de’ Medici in Firenze inviti assai. E gl’inimici presono grande ardire e dicevono che il Papa voleva rimettere e’ tiranni in Siena e tôrre lo stato al popolo, e che Iddio aveva dimonstro non li piacere. E certi più arditi dicevano che Iddio aiuterebbe ancora loro, quando tentassino. Ricevette il Papa questa vergogna et a’ Fiorentini, oltre alla ignominia, restò la spesa, perché sendo i Sanesi sdegnati, e’ Fiorentini erono constretti a guardare tutte le terre de’ loro confini. Et era impossibile che potessino contribuire alla guerra di Lombardia e guardare il loro paese.

 

Il campo della Lega in Lombardia si stava a Marignano, et attendeva a fare certe leggieri scaramucce con l’inimici et ovviare che viveri non entrassino in Milano, dove era penuria grandissima. Ma li soldati avevono ridotto quella povera città in termine che nessuno uomo che vi fussi curava più di vivere, et a’ soldati bastava avere che vivere per loro e del popolo non tenevono conto alcuno e ne moriva ogni dì numero grande di fame.

Et essendo nel campo della Lega tante genti da potere tenere stretto Milano et ancora fare qualche altra fazione a beneficio della impresa, si consultò tra li capitani quello fussi da fare. Chi era d’oppenione andare verso Genova per mutare quello [50r] stato, e chi voleva ire a Cremona. Vinse infine l’oppenione del duca d’Urbino, che era infatto quella de’ Veniziani, d’andare a Cremona. E vi andò, per capo delle gente vi si conduceva, Malatesta Baglioni. La fortezza di Cremona si teneva per il duca di Milano e si credette da principio potere entrare nella terra per la fortezza facilmente. Ma riuscì il contrario, perché dumila fanti tra Tedeschi e Spagnuoli, che vi erono drento, feciono una difesa incredibile.

Durò quella espugnazione più che venti dì; andoronvi i migliori fanti che avessi la Lega, andòvi in ultimo il duca d’Urbino e, con la morte di molti valenti uomini, fu presa, con patti, però, che li fanti che vi erono drento, salvassino la roba e le persone.

 

Don Ugo, el quale io dissi di sopra che il Re lasciò passare per Francia per venire al Papa, giunto che fu a lui e trovatolo ostinato a non si partire dalla Lega, perché in verità non lo poteva né doveva fare, se n’andò nel Regno e trattò con il cardinale Colonna (il quale più mesi inanzi era partito di Roma sdegnato col Papa, perché gli domandava tutto di cose inoneste et il Papa non le voleva fare) come gli potessino nuocere, e perché i signori Colonnesi, non solo il Cardinale, ma quasi tutti li altri, stavono in sospetto del Papa et il Papa di loro. E spesso si facevono delle terre loro insulti a quelle del Papa e così pel contrario. Et il Papa era necessitato a spendere per tenere fanti in Roma e nelle terre di confini e non poteva reggere tanta spesa, perché aveva, oltre alla spesa di terra, quella di mare, perché, dopo che fu morto Paulo Vittori, condusse Andrea Doria, genovese, con otto galee e gli dava buona provisione.

E però e’ Colonnesi erano certi che Clemente volentieri poserebbe con loro, quando fussi sicuro, per levarsi da spesa. E ne li aveva fatti più certi il duca di Sessa, el quale era stato quattro anni oratore a Roma per Cesare, e, quando cominciò la guerra, il Papa l’aveva licenziato. Ma egli, partito, ammalò a Marino e domandò grazia a Clemente di potere tornare a curarsi in Roma, dove in pochi giorni morì.

Ma in quel mezzo (per rendere merito al Papa della grazia li aveva concessa) fece intendere a Don Ugo et a’ signori Colonnesi in quanta penuria di danari si trovava il Papa e quanto sarebbe facile ingannarlo sotto uno accordo, pure che s’avedessi d’alleggerire di spesa. Venne adunque Vespasiano Colonna, figliuolo di Prospero, [50v]< in Roma, et appiccò pratica con Clemente d’accordo, e in pochi dì la condusse; e dette la fede sua per il Cardinale, e per li altri signori Colonnesi e per don Ugo, che non offenderebbono lo stato della Chiesa. E cosí il Papa promesse non offendere li stati de’ Colonnesi né il Regno di Napoli. E credette tanto a questa fallace triegua, che subito si disarmò e settecento fanti, che gli restavono in Roma, gli mandò a Andrea Doria per metterli in Port’Ercole e nelle maremme di Siena.

 

Come il cardinale Colonna intese che il Papa era disarmato e si fidava, subito ordinò ingannarlo. E fatto tutto intendere a don Ugo, giunsono insieme a dosso a Vespasiano a Fondi, e lo invilirono, e gli monstrorono che per servizio di Cesare, loro signore, era lecito mancare di fede e fare ogni altra cosa, pure che si vincessi, e con prieghi e con minacci lo tirorono nella volontà loro. E condussono dumila fanti del Regno e ne ordinorono assai delli altri comandati delle terre de’ Colonnesi. E con cavalli, pure del Regno, il detto Vespasiano et Ascanio Colonna et altri signori, che seguivono la loro fazione e don Ugo, vennono verso Roma. Et in un dì et una notte camminorono circa sessanta miglia e giunsono alle porte di Roma a’ dì dicianove di settembre, che erono circa ore quattordici, et entrorono drento per la porta di Santo Ianni. Né il Papa lo intese se non quando furono fermi in Colonna alle case loro a rinfrescarsi. Né li occorrendo potere fare rimedio presto et intendendo ch’el popolo di Roma, sendo stato giunto sprovisto, stava come attonito, ordinò di soldare certi fanti e fece capitano d’essi Stefano Colonna, inimico alli altri Colonnesi, e pensò con questi tenere il Borgo.

Già li inimici venivono in ordinanza per Ponte Sisto e poi inverso il Borgo, per la via che passa inanzi al palazzo d’Agostino Ghigi, e Stefano Colonna, con quelli pochi fanti che aveva potuto ragunare in sì breve tempo, con franco animo difendeva quella porta. Ma gl’inimici salirono il monte e, per il muro rotto e senza riparo e senza difesa, riuscirono nella vigna di Santo Spirito sopra il capo di Stefano. Onde egli fu constretto abbandonare la porta con qualche uccisione delli suoi e tutto il resto delle genti inimiche entrorono drento per quella porta e se non che attesano a mettere a sacco dove prima potettono, giugnevono il Papa in palazzo con alcuni cardinali, e’ quali erono concorsi da lui in su questo romore. [51r] Il Papa, confortato e pregato da molti che si partissi di palazzo, non lo voleva fare, pure, quasi forzato da Filippo Strozzi, pel muro doppio si salvò in Castello con li cardinali che erano seco et altri amici e servitori.

E’ Cesarei e Colonnesi messono a sacco i palazzi, le case e botteghe di Borgo, il Palazzo tutto e la chiesa di San Pietro, cosa che alli Turchi sarebbe paruta impia e crudele: che si potevono vedere portare per il Borgo i paramenti da dire le messe, le croci, e’ calici, li arazzi da ornare le chiese e, non che altro, quello poco d’argento e oro in che solevano stare incluse le reliquie sante.

Ridotto che fu il Papa in Castello, don Ugo, che non confidava molto nel cardinale Colonna e conosceva trovarsi con pochi delli suoi in mezzo d’uno gran popolo, el quale, se si fussi svegliato, li arebbe potuto nuocere assai, cercò di parlare all’arcivescovo di Capua, che s’era ritirato col Papa in Castello. El quale, ancora che Clemente solessi confidare assai in lui, poiché aveva principiato la guerra perché era tedesco, per non dare sospetto ai collegati, non intendeva tutti i secreti come prima.

Venne don Ugo a parlamento con detto Arcivescovo, el quale andò e tornò più volte dal Papa, et in ultimo condusse don Ugo in Castello e, per sua sicurtà, andorono in Colonna i cardinali Cibo e Ridolfi. Don Ugo, venuto alla presenzia del Papa, escusò il fatto, monstrando non essere proceduto a questo per offenderlo, ma per difendere gli stati di Cesare, ma, che se egli si voleva spiccare da’ collegati e non s’impacciare più di guerra e perdonare a lui et a’ Colonnesi la iniuria ricevuta, che ritrarrebbe subito le genti e lascerebbe Roma libera, ma che della osservanzia voleva sicurtà.

Il Papa, vedendo il popolo di Roma stare a vedere il giuoco e non cognoscendo modo da cacciare li avversari se non con chiamare genti in suo soccorso, le quali non potevono essere preste, e dubitando che don Ugo et i Colonnesi non ne chiamassino ancora loro, che sarebbono state più preste perché erono più vicine, e che non si facessi una confusione di qualità che Roma andassi tutta in preda, fu contento cedere a quello che volle don Ugo, con animo però di non osservare cosa che promettessi, perché, sendo forzato, non era tenuto. E dette statico per la osservanzia Filippo Strozzi. E si feciono e’ capitoli di questa triegua (che così la chiamorono) in fretta [51v] e non ebbono, a beneficio de’ Colonnesi e don Ugo, parole che esprimessino bene la intenzione loro. Ma chi è in sull’arme non guarda queste cose per il sottile.

Partironsi don Ugo et il cardinale Colonna e ne menorono tutte le genti che vi avevono condotto e promissono restituire la preda e ne menorono Filippo Strozzi. E prima che partissino delle terre della Chiesa, vollono che il Papa scrivessi alli capitani, che aveva nel campo della Lega, che si ritraessino, et a Andrea Doria, che strigneva Genova con l’armata, che si levassi e si riducessi a Civitavecchia. Il Papa, benché malvolentieri, fece in quel principio tutto.

 

Come in Firenze s’intese il caso, quelli che iudicono delli eventi, che infatto sono e’ più delli uomini, dannavono Clemente di poca prudenzia e di poco animo. E li Otto di Pratica, che erono quelli che avevono il pondo del governo della città, cominciorono a dubitare, che volendo seguitare in osservare e’ suoi ricordi, non andare alla ruina manifesta. E partirsi da lui non volevono, per la reverenzia et affezione li portavono, et ancora perché la città non si poteva discostare dalla volontà sua senza mutazione di stato, nella quale la ruina delli amici de’ Medici era certa e di quella della città s’aveva poco da dubitare. Però mandorono subito Francesco Vittori a farli intendere e ricordare con riverenzia che loro desideravono, avanti che egli si risolvessi, saperlo, per potere consultare e deliberare, et ancora a ricordarli che avessi riguardo a non li caricare troppo di spesa perché, sendo incominciata a mancare la riputazione a’ cittadini, non si potevono strignere come si era fatto qualche altra volta.

Clemente, udita questa proposta, gli dispiacque ma, avendo Francesco per confidente, pensò gli dicessi queste cose per affezione e perché conoscessi così essere a proposito, et avendolo ancora per troppo respettivo, non credette che le cose in Firenze fussino in tanto pericolo, quanto egli dimonstrava; e stimando quello che era, che il caso successo a Roma de’ Colonnesi li avessi tolto assai reputazione, et iudicando che i Fiorentini, come inclinati a Francia, avessino per male che egli si partissi dalla Lega, deliberò tornare in sulla guerra come prima. Nondimeno la triegua con don Ugo fu fatta a dì ventuno di settembre e la fama volò per tutto. Il duca d’Urbino, capitano de’ Veniziani, si riposava volentieri [52r] et aggiunto che il Papa, fatto la triegua, richiamò le sue genti, fermò la guerra, e gli bastò avere preso Cremona a patti e, quando doveva andare o mandare a Genova, egli andò a stare a Mantova con la moglie.

Il marchese di Saluzzo con le genti franzese si stava verso Asti, Guido Rangoni se ne tornò a Modona, Vitello venne verso Roma e Giovanni de’ Medici [solo con gli suoi si mantenne in sul luogo].

Ma essendo il Papa da nuovi uomini del re di Francia e dei Veniziani confortato e pregato di tornare nella Lega e fattoli promesse grande e promessoli, intra l’altre cose, che il re d’Inghilterra lo soverrebbe di buona somma di danari, e detteli molte simili cose, le quali parte riuscirono e parte no, e sendoli ancora in Roma gridato nelli orecchi da molti, che in questo caso non mettevono altro che parole, che, se non si vendicava, poteva deporre la mitera et andare mendicando come romito, e che mai fu pontefice tanto vituperato quanto lui, onde, stimolato da tante bande, tornò in sulla guerra e lasciò stare Giovanni de’ Medici in campo con li fanti pagati da lui, e quando don Ugo se ne doleva, diceva che Giovanni non era soldato suo ma del Re.

Fece ritornare Andrea Doria verso Genova e se ne escusava con dire che egli li aveva domandato licenzia d’andare a aiutare la patria sua e che, secondo e’ capitoli co’ quali era condotto, non gnene poteva negare. Fece venire Vitello et Alessandro Vitelli verso Roma e circa tremila fanti, tra’ quali ve n’erono mille Svizzeri, e ne soldò in Roma insino in cinquemila e li mandò ad alloggiare nelle terre de’ Colonnesi. E dolendosi li agenti di don Ugo di questo, egli rispondeva che i Colonnesi erano suoi sudditi e che, volendo stare guardato e non essere giunto sotto la fede, come l’altra volta, non poteva fare di non alloggiare le sue genti nelle terre loro. E dopo molte proposte e risposte, che andorono di qua e di là, si venne alla guerra aperta.

Il Papa fece ruinare qualche castello de’ Colonnesi e privò in Consistorio il cardinale Colonna delle degnità e benifici; e citò e’ signori Colonnesi et altri capi che erono venuti con loro in Roma. E nondimeno mandò l’arcivescovo di Capua a don Ugo a escusare tutte queste cose e monstrare che non erono contro a’ capitoli e ricercare che gli rendessi Filippo Strozzi. Don Ugo usò buone  parole, [52v] senza venire a conclusione, et intanto e’ Colonnesi feciono qualche somma di fanti e vennono verso le terre loro.

 

D’Alamagna ancora, con qualche poca somma di danari mandata da Cesare, si mosse Giorgio Transberg, capitano di fanteria, con quattordicimila buoni fanti, e’ quali inviò Ferrando duca d’Austria in favore degli Imperiali.

Di questi fanti si cominciò a parlare più mesi avanti, ma non si credeva dovessino venire perché il re de’ Turchi, questo anno medesimo, era venuto in persona con grande essercito contro al re d’Ungheria e li aveva dato una rotta, della quale egli, fuggendo, era affogato; et una gran parte de’ signori ungari, così temporali come spirituali, era suta morta: in modo che in pochi giorni il Turco era diventato signore di tutta Ungheria, e li uomini che non erono stati presi, tutti erono fuggiti.

E mi è suto affermato da uomo degno di fede che, quando il Turco entrò in Buda, che è la principale terra d’Ungheria, non vi trovò più che quaranta uomini. E si credeva che il Turco volessi seguitare la vittoria e procedere contro all’Austria, provincia più bella e più ricca e più atta a essere vinta, né si vedeva come don Ferrando vi avessi a potere resistere e però non si indicava che fussi possibile che mandassi fanti in Italia. Nondimeno il Turco stette pochi dì in Ungheria, e per qual causa si fussi non si sa, ma non la volle tenere, e lasciò solo guardati certi migliori castelli in sul Danubio, e de’ prigioni, parte ne menò e parte ne amazzò, et a gran giornate si ridusse in Constantinopoli.

E dove si pensava che dovessi nuocere a Ferrando, li giovò perché una parte di quelli signori d’Ungheria, che restò viva, lo elesse re. E perché il re d’Ungheria morto era ancora re di Boemia, fu eletto ancora re di quello regno, benché in Ungheria abbi di poi avuto qualche dificultà col vaivoda di Transilvania.

I fanti tedeschi erano già vicini a Italia e, benché il re di Francia e Veniziani pensassino provedere non passassino più oltre, il Re non fu a tempo et i Veniziani non vollono, i quali alli passi stretti facilmente l’arebbono potuto fare, ma fuggirono il tirarsi la guerra in casa. E si conobbe che lo intento loro era levare la guerra di Lombardia e condurla in Toscana. Vennono dunque in Mantovano, [53r] dove il duca d’Urbino e Giovanni de’ Medici, con buona banda d’uomini a piè et a cavallo, li seguitorno. El quale Giovanni, [andando un giorno a speculare un sito dove i nimici s’erano fatti forti con animo di tôrlo loro con gran lor danno], fu ferito d’un tiro d’un moschetto in una gamba [ché di poco tempo innanzi avevono avuti certi pezzi d’artiglieria minuta dal duca di Ferrara, senza che i nostri n’avessino notizia, e di questa] ferita in quattro giorni morì.

Come lui fu morto, il duca d’Urbino, che prima si vantava che li Tedeschi non passerebbono il Po, subito, lasciate spargere le genti sue per il Mantovano, si ridusse a Mantova; e loro, senza ostaculo alcuno, passorono il Po, non in su ponte ordinato, ma in sulle barche, a cinquanta e cento per volta, e si missono tra Reggio e Modona.

Clemente, intesa la morte di Giovanni et il passare che avevono fatto i Tedeschi il Po, cominciò forte a temere. E quasi in uno medesimo tempo ebbe nuove che il Viceré era arrivato al porto di Santo Stefano, in quel di Siena, con ventitré navi, il quale aveva combattuto con Andrea Doria e con Pietro Navarro in mare, vicino alla Corsica, e ricevuto danno assai. Et intra li altri, li avevono affondato una nave, dove erono su cinquecento uomini da guerra e qualche signore. Pure il vento levò la sua armata dinanzi alle loro galee e male condizionata giunse a quel porto, dove non stette più che un dì perché, avendo vento a proposito, andò a disbarcare e’ fanti a Gaeta, e’ quali si dicevono essere settemila tra ispagnuoli e tedeschi. Ma furono in quel viaggio tanto battuti dal mare, che poco si poterono adoperare nella guerra che seguì poi.

 

1527

Clemente, vedendosi venire tanta gente a dosso e da più bande, et ogni disegno succederli a rovescio, pensò di convenire col duca di Ferrara, el quale gli pareva lo potessi aiutare a impedire che i Tedeschi non venissino in Toscana. E ne dette commessione a messer Francesco Guicciardini, che era a Parma. Ma non fu a tempo, perché il Duca era già convenuto con gl’Imperiali, che fu di gran momento in questa guerra.

Non si volle però, ancora che fussi ridotto in tanta estremità, risolvere a fare cardinali per danari, allegando che non voleva, mentre era libero, potere essere notato di simonia. Mandò bene a Firenze Vincenzio Duranti, secretario del cardinale de’ Ridolfi, a fare intendere a quelli cittadini che, sendo ridotti in tanti pericoli, provedessino a’ casi loro in quel modo iudicavono a proposito, senza avere rispetto alcuno a lui, perché non voleva in modo alcuno che per conto suo la patria patissi. [53v] Arrivò detto Vincenzio a Firenze che il Viceré era già partito da Santo Stefano et i Tedeschi avevono preso il cammino verso Piacenza. E però il cardinale di Cortona, al quale pareva dolce cosa il comandare, non volle che tal commissione fussi conferita.

Il Papa, non avendo modo di provedere danari perché, se bene Roma era la più ricca città d’Italia, lui era venuto in sì poca riputazione, che non ardiva richiedere alcuno né con prieghi né con minacci, e vedendosi la guerra a dosso di verso il Regno et intorno a Roma dai Colonnesi, cognoscendo avere a guardare Piacenza, Parma, Modona e Bologna con grande spesa, vedendo che, per essere il verno, non erono pervenire nuove genti di Francia, vedendo ancora che Francesco et Enrico li porgevono qualche somma di danari, ma non tale che fussi per bastare alla minima parte delle necessità sue, considerando ancora che i Veniziani poco si movevano a darli sussidio con danari e genti, benché, per sollecitarli, avessi fatto mandare da Firenze oratore a Venezia Alessandro de’ Pazzi, suo cugino et uomo dottissimo e prudentissimo, si voltò a tentare il Viceré d’accordo. Et avendo appresso di sé uno spagnuolo, Generale de’ Frati Minori, el quale Cesare gli aveva mandato pochi dì avanti per pascerlo di speranza, con auttorità piena di comporre, ma non senza il Viceré, lo mandò a Napoli per intendere l’animo suo. E soprastando a rispondere più che non li pareva, mandò di nuovo l’arcivescovo di Capua, sotto colore di visitazione. E l’uno e l’altro scrisse che trovava buona disposizione, ma, venendo a parlare de’ capitoli, il Viceré domandava tanti danari, che se il Papa li avessi avuti non bisognava cercassi accordo, perché arebbe potuto facilmente vincere la guerra. Aggiugneva ancora il Viceré che per pratica alcuna non voleva desistere una ora dalla guerra, credendo con queste parole invilire il Papa: el quale si voltò a fare quelle preparazioni potette in tanta scarsità di partiti e liberò Orazio Baglioni, el quale aveva tenuto in Castello più anni.

Venne Renzo da Ceri di Francia, Andrea Doria riordinò l’armata, mandò legato sopra li fanti, che aveva a Prenestina, il cardinale Triulzio, il quale rividde le genti d’arme e fanterie e le ridusse in assai buono ordine.

Il Viceré ordinò che le sue genti fussino tutte a Gaeta e di quivi si transferì verso Pontecorvo, terra del Papa, [54r] con ottomila fanti e mille cavalli, tra condotti in sull’armata e fatti nel Regno e delle terre de’ Colonnesi. E con queste genti venne a affrontare quelle del Papa le quali resisterono gagliardamente e combatterono presso a Frusolone e gl’Imperiali n’ebbono il peggio, et ebbono di grazia che la notte spiccassi la zuffa e si cominciorono subito a ritirare. Renzo ancora, dall’altra banda, fece rivoltare l’Aquila, l’armata prese Castello a Mare, luogo d’importanzia assai, vicino a Napoli, et Orazio Baglioni, fattosi porre in terra, prese Salerno e con grande animo andava verso Napoli.

Mentre che queste fazioni si facevono nel Regno, e’ Tedeschi, senza essere offesi da alcuno, camminavono a piccole giornate verso Piacenzia. Et ogni piccolo impedimento, che fussi stato loro fatto, gli constringeva a morire di fame perché erono di verno, in piano, in mezzo di fiumi e del continuo pioveva; et erono necessitati guadagnarsi il vivere per forza.

Stettono in Piacentino molti giorni, tanto che Borbone compose dissensioni che erano in Milano tra i fanti et impose taglie assai a quel popolo e cavatoli, non che i danari, il sangue e la vita da dosso, trasse gli Spagnuoli, così fanti come cavalli, di Milano. E lasciò alla guardia di quella città Antonio di Leva, et egli con li suoi venne verso Piacenza a coniungersi con li Tedeschi.

Il marchese di Saluzzo, capo delle genti del re di Francia, il duca d’Urbino di quelle de’ Veniziani, Guido Rangoni di quelle del Papa, feciono una guerra di questa sorte, che mai vollono unirsi per opporsi all’inimici, ma venivono loro drieto e si poteva dire che li accompagnassino, come fanno i servitori e’ patroni. Li avversari vennono vicini a Piacenzia e Guido, con li fanti del Papa, la guardò in modo che non vi s’accostorono. Il medesimo intervenne di Parma e Modona. E feciono e’ capitani e condottieri, nominati di sopra, come alcuni medici poco esperti e poco dotti che, senza purgare il corpo dalli mali umori, sanano con loro unguenti forti le piache delli membri non nobili e non s’accorgano che riducono la materia al cuore.

Gl’Imperiali si condussono presso a Bologna, dove erono drento tutte le genti del Papa e de’ Franzesi. Il duca d’Urbino era restato in Mantovano, alquanto indisposto. Li Cesarei, non potendo entrare in Bologna né correre molto il paese, rispetto alle piove e nevi, arebbono patito assai, ma il duca di Ferrara gli soccorse e di vivere [54v] e di danari.

Carlo della Noi, viceré, vedendo le cose del Regno succedere male et essaminando che, col convenire col Papa, si levava la guerra da dosso e faceva Cesare signore d’Italia e, quando bene riuscissi che l’essercito che era presso a Bologna vincessi, in quel modo che Borbone sapessi disegnare, Cesare sarebbe signore d’Italia, disfatta e rovinata, si volse alla convenzione. E Clemente, non avendo danari né a Roma né a Firenze, la fece volentieri; e pel mezzo del Generale, del quale dissi di sopra, si concluse. Et il Papa subito richiamò le sue genti del Regno et il Viceré venne a Roma e mandò Cesare Fieramosca a significare a Borbone come aveva accordato, con condizione che avessi ducati sessantacinquemila a Bologna e che non procedessi più inanzi contro alle terre del Papa e Fiorentini.

Borbone, come quello che non voleva accordo perché pensava dovere essere duca di Milano, e come ritirava gli Spagnuoli in quello stato, dove loro stavono volentieri, gli pareva che ne fussino signori loro, subornò qualche capitano spagnuolo e così tedesco, non Giorgio Transberg perché lui era malato d’apoplessia a Ferrara, che dicessi che quelli che portava il Fieramosca erono pochi danari e che li fanti non si potevano contentare con essi; e lui disse al Fieramosca il medesimo. Ma per giugnere il Papa più sproveduto, usò le migliori e più dolce parole del mondo, aggiugnendo che voleva a ogni modo l’accordo, e che con qualche somma più di danari s’ingegnerebbe contentare i fanti, ma che intanto il Papa non si doveva maravigliare se egli camminava con lo essercito, perché li bisognava andarsi intrattenendo con li fanti, acciò avessino causa di prestarli fede. E come il Fieramosca fu partito, mosse le genti verso Romagna. E quelli della Lega ancora vi andorono, e si ridussono a guardare quelle terre perché il male avessi più causa d’andare verso il cuore.

Tornò il Fieramosca a Roma e riferì quello aveva operato. Et il Viceré, per la gran volontà che aveva che la convenzione andassi avanti, si mosse in poste e venne in Firenze e monstrando che bisognavono più danari, perché queste genti si ritirassino, condusse e’ Fiorentini a promettere agl’Imperiali centocinquantamila ducati: ottanta di contanti, et il resto intra duo mesi. E furono presenti a questo accordo dua uomini di Borbone, mandati [55r] da lui, e vi acconsentirono e ne restorono satisfatti.

Mentre che lo accordo si trattava in Firenze, Borbone del continuo procedeva con l’essercito: il che non piacendo al Viceré, subito che ebbe convenuto co’ Fiorentini, n’andò verso Borbone et intese che era già entrato nella valle di Galeata con lo essercito, il quale aveva rubato et arso tutto il paese, in modo che il Viceré portò gran pericolo che li paesani non li facessino insidie, e durò fatica a scappare, fuggendo dalle mani loro. Né potette parlare prima a Borbone che presso alla Pieve di Santo Stefano, che è un castello de’ Fiorentini, el quale Borbone volle sforzare, ma non gli riuscì, perché fu difeso valentemente.

Come in Firenze s’intese che Borbone veniva avanti, li uomini furono chiari dell’animo suo maligno e senza fede. Ma male si poteva rimediare perché la città non aveva tempo a provedersi d’uomini e li ottantamila ducati, che s’erono mandati secondo lo accordo, non erono ancora tornati, e si dubitava non fussino capitati male, e la città era ridotta in tanta estremità che, per provederli, aveva tolto insino alli argenti delle chiese. Pure, in tanta afflizione, s’ebbe questa buona sorte che li ottantamila ducati tornorono e messer Francesco Guicciardini cominciò a inviare le fanterie, che aveva in Romagna, per la valle d’Arnone e per la valle del Montone. Le quali fanterie, licenziose e ladre e senza capi che temessino, rubavono e ardevono tutto il paese e facevano tutti li altri mali che arebbe fatto qualunque crudele inimico.

Feciono ancora i Fiorentini intendere al marchese di Saluzzo et al Provveditore Veniziano et al duca di Urbino lo inganno che aveva fatto Borbone et il pericolo che soprastava loro; e rinovorono la Lega con quelli patti che seppono domandare i Veniziani e, perché il duca d’Urbino venissi con migliore animo in loro soccorso, gli restituirono San Leo. Et in pochi giorni si condussono in sul paese de’ Fiorentini tutte le genti di guerra del Papa, del re di Francia e Veniziani, le quali messono a sacco tutto il Valdarno, e non solo le case sparse, ma Feghine, San Giovanni e Montevarchi, buoni e popolati castelli. Et intorno a Firenze tutte le ville de’ cittadini erono rubate et il bestiame predato e li contadini fatti prigioni e le donne sforzate.

Di che nacque che certi giovani della città, cognoscendo che il duca d’Urbino, venendo e’ Cesarei verso quella, vorrebbe fare [55v] lo alloggiamento per li soldati della Lega in Firenze, e che non era però da sopportare che li fanti potessino sforzare la moglie, le figliuole e sorelle di questo e quello cittadino, e per ovviare a questo era da dare l’arme con ordine alla gioventù fiorentina acciò potessi riparare a tale inconveniente, [e] conferirono questo loro pensiero a Luigi Guicciardini gonfaloniere, el quale ne dette notizia al cardinale di Cortona. Et egli ne volle il consiglio di più cittadini e fu consigliato, senza discrepanza alcuna, che si facessi.

Ma egli, insospettito di dare l’arme alla gioventù, andava differendo e per questo, alli ventisei d’aprile dell’anno ventisette, si levò tumulto nella città, chiusonsi le botteghe e, volendo li cittadini amici de’ Medici correre a quella casa, trovorono che il cardinale di Cortona et il cardinale de’ Ridolfi, che vi era venuto pochi dì inanzi mandato dal Papa, et il cardinale Cibo, che era venuto nuovamente da Bologna, et Ipolito de’ Medici, tutti erono iti a incontrare il duca d’Urbino, che doveva entrare quel giorno in Firenze. E stimando detti cittadini che li sopradetti cardinali, udito il tumulto, si fussino partiti per timore, tornorono alle proprie case e qualcuno andò in Palazzo per fare pruova di riparare al disordine, dove concorsono tutti e’ nimici de’ Medici armati e sforzorono e’ Signori con minacce e ferite a sonare a martello e scendere in ringhiera a gridare Popolo, e dare bando a’ Medici.

Il cardinale di Cortona e li altri, inteso che ebbono il caso, subito tornorono nella città e chiamorono e’ fanti tenevono per guardia, che in fatti erono circa millecinquecento, de’ quali era capitano principale il conte Pier Noferi da Montedoglio. Questi, messi in ordinanza con loro picche et archibusi, vennono verso la piazza. Come questo s’intese in Palazzo, tutti quelli che vi erono cominciorono a invilire e temere, così li amici de’ Medici come l’inimici, stimando che se li fanti vi entrassino per forza, ogni uomo andrebbe a filo di spada senza distinzione.

Pure il cardinale Ridolfi e messer Francesco Guicciardini, avendo affezione alla patria et alli loro cittadini e discorrendo che se si veniva al sangue, che erono tanti i soldati e drento e fuori della città, che sarebbe impossibile non andassi a sacco, pregorono il signore Federigo da Bozzole che andassi in Palazzo a trattare l’accordo: e non lo trovando la prima volta, vi tornò di nuovo insieme col Guicciardino [56r]e si concluse che le cose tornassino nel termine di prima, e che fussi perdonato a ciascuno e che di quel dì nessuno si ricordassi.

E Francesco Vittori fece la scritta di tal convenzione, sottoscritta dalli cardinali, dal duca d’Urbino e dal signore Federigo. E per allora si posò il tumulto, ma con timore grandissimo di tutti quelli che si erono trovati in Palazzo, o amici o inimici che fussino: e molti pensavano d’assentarsi dalla città, pure volevano stare a vedere dove s’indirizzava l’essercito di Borbone.

 

Il quale, venuto insino a Montevarchi et inteso come in Firenze et allo intorno erano genti assai, e come si era durato sei mesi continui a fare ripari drento alla città, et intendendo ancora quella essere tanto consumata, che aveva posto mano alli argenti delle chiese, diterminò a gran giornate pigliare la via di Roma, dove sapeva che il Papa non aveva fanti né cavalli, né ordine né farne presti, e che ultimamente, confidato in sulla convenzione fatta col Viceré, aveva licenziato mille fanti, che gli restavano di quelli che erano chiamati della Banda Nera delle reliquie di Giovanni de’ Medici. E da Montevarchi prese un cammino che lo condusse poco di là da Siena. E quivi lasciate l’artiglierie da campo, perché quelle da battere aveva lasciate al duca di Ferrara, e provedutosi bene di vettovaglie, seguitò il cammino con gran celerità.

Il duca d’Urbino e marchese di Saluzzo pensavono bene d’andare a soccorrere il Papa, ma con tutti quelli ordini e commodità, con le quali vanno e’ soldati, quando vanno a soccorrere chi può aspettare. Guido Rangoni, presa una banda di cinquemila fanti e mille cavalli leggieri, si misse a volere ire verso Roma con prestezza.

Borbone arrivò ne’ Prati a canto a Roma alli quattro di maggio: e data il dì medesimo un poco di battaglia al Borgo di San Pietro, conobbe esservi pochi defensori, perché il Papa, come fu certo che l’essercito inimico veniva verso Roma, aveva proveduto quelli pochi fanti aveva potuto in tanta brevità di tempo e trepidazione, e si fidava assai nelle promesse gli faceva Renzo da Ceri, e la speranza che aveva che il soccorso dovessi venire presto lo manteneva.

Alli cinque, Borbone rividde le genti sue et ordinolle, e la mattina delli sei, appresentò la battaglia tra il portone del Borgo, che è drieto alla casa del cardinale Cesis, e quello di Santo Spirito, dove ne’ più de’ [56v] luoghi non è muro, ma bene vi era fatto qualche poco di riparo. Era la mattina nebbia grande che causava che l’artiglieria non si poteva in modo indirizzare che nocessi alli inimici, e’ quali dettono la battaglia. E quelli di drento si difendevono gagliardamente, ma furono tanti quelli di fuori, che con le mani guastorono e’ ripari, che erano di terra e deboli, e si ridussono a combattere al piano. E quelli di drento erono sì pochi che, combattendo, tutti furono morti, ma feciono difesa di qualità che nel primo assalto ributtorono e’ Cesarei; e volendo Borbone farli tornare alli ripari, gli fu necessario pigliare una scala et essere il primo a cominciare a salire; e salendo, fu morto da un colpo d’archibuso: uomo a chi, per il tradimento aveva fatto al suo Signore, non conveniva sì onorevole morte; pure ebbe questo dolore nel morire, che vidde la vittoria in viso, la quale con tanta fraude e scelerità acquistava, e conobbe non la potere godere.

Entrati che furono gl’Imperiali drento e morti tutti e’ soldati che trovorono, s’inviorono verso il Palazzo. Et il Papa ebbe gran fatica a rifuggirsi in Castello con pochi cardinali e pochi servitori, perché assai ne morirono difendendo e’ ripari. Et il cardinale de’ Pucci stette sempre, così vecchio e debole, alle mura, gagliardo et interrito, confortando et animando i difensori, et infuriando di parole li avversari. Et intorno a lui perirono molti suoi servitori et egli, poi che vidde li inimici drento, fuggendo fuori mezzo morto e ferito dalli urti delli altri cavalli, fu tirato in Castello, dove ancora si ridusse Orazio Baglioni, poi che ebbe fatto assai difesa.

Poi che li Cesarei ebbono preso il Borgo, sendo rimasti senza capo, erono in confusione. Nondimeno l’avidità della preda li faceva audaci et uniti e, non trovando né in Borgo né in Palazzo molto da rubare, per il sacco avevono fatto in quelli luoghi pochi mesi inanzi e’ Colonnesi, n’andorono alla via di Transtevere e, non trovando solo un defensore a quelle mura, le ruppono facilmente. Et entrati per le rotture alcuni drento, apersono la porta, donde entrò subito tutto il resto dello essercito.

Restava a’ Cesarei entrare nella parte di Roma abitata e ricca, et erono necessitati entrarvi per i ponti, che erono tre, e’ quali, se avessino avuto niente di riparo e guardia, era impossibile fussino sforzati. Ma quando è dato [57r] di sopra che una cosa segua per un verso, nessuno vi può riparare.

E’ Cesarei che vennono a Roma non erono più che ventimila, tra a piè et a cavallo, tra buoni e cattivi. In Roma erono almanco trentamila atti a portare arme, da anni sedici insino in cinquanta; e tra questi erono molti uomini usi alla guerra, molti Romani altieri, bravoni, usi a star sempre in brighe, con barbe insino al petto, nondimeno mai fu possibile s’unissino cinquecento insieme per guardare uno di quelli ponti, in modo che i nimici, circa a ore ventidua, entrorono in Roma con pochissima dificultà. Amazzorono chi e’ vollono, predorono le piccole case, le mediocri, le botteghe, i palazzi, e’ monasteri d’uomini e donne, le chiese; feciono prigioni tutti li uomini e donne, et insino a’ piccoli fanciulli, non avendo rispetto a età, né a sacramenti né a cosa alcuna.

La occisione non fu molta, perché rari uccidono quelli che non si vogliono difendere, ma la preda fu inestimabile, di danari contanti, di gioie, d’oro et argento lavorato, di vestiti, d’arazzi, paramenti di case, mercantie d’ogni sorte; et oltre a tutte queste cose, le taglie, che montorono tanti danari, che chi lo scrivessi sarebbe tenuto mentitore. Ma chi discorrerà per quanti anni era durato a venirvi del continuo danari di tutta Cristianità, e la maggior parte d’essi vi restava, chi considerrà e’ cardinali, e’ vescovi, e’ prelati, li ufficiali che erono in Roma, chi penserà quanti ricchi mercanti forestieri, quanti Romani, e’ quali vendevano tutte le loro entrate care et affittavono le loro case a gran pregi, né pagavano alcuna tassa o gabella, chi si metterà inanzi alli occhi li artigiani, il popolo minuto, le meretrice, iudicherà che mai per tempo alcuno andassi città a sacco, di quelle che s’abbi memoria, donde si dovessi trarre maggior preda. E se bene Roma è stata altre volte presa e messa in preda, non era quella Roma che era a’ nostri tempi; et, ancora, il sacco durò tanto tempo, che quello non si trovò ne’ primi giorni, fu trovato poi.

Questo fu uno essemplo che li uomini superbi, avari, omicidi, invidiosi, libidinosi e simulatori, non possono mantenersi lungamente. Et Iddio punisce spesso quelli che hanno questi vizi con li inimici suoi [57v] medesimi, e con li uomini più scelerati di quelli che sono puniti, e’ quali, quando gli pare poi tempo, non li manca modo a castigare.

E non si può negare che li abitatori di Roma, e massime e’ Romani, non avessino in loro tutti e’ vizi detti di sopra, e maggiori. Non voglio già dire così di Clemente perché, chi considerrà la vita de’ pontefici passati, potrà veramente indicare che sono più che cento anni che nel pontificato non sedette il migliore uomo che Clemente settimo, alieno dal sangue, non superbo, non simoniaco, non avaro, non libidinoso, sobrio nel vitto, parco nel vestire, religioso, divoto nelle messe et ufici divini, e’ quali non ha mai usato omettere. Nondimeno la ruina è venuta a tempo suo e li altri, che sono stati pieni di vizi, si può indicare che, quanto al mondo, sieno vivuti e morti felici, né di questo si può ricercare ragione da nostro signore Iddio, el quale punisce e non punisce in quel modo e in quel tempo che gli piace.

 

Andò Roma a sacco alli sei di maggio l’anno ventisette et in Firenze ne fu notizia alli dodici. Tutti li nimici de’ Medici si risentirono e tanto più perché li Fiorentini ebbono di danno in Roma molte centinaia di migliaia di ducati, e ciascuno di questo danno attribuiva la colpa al Papa.

Tutti quelli che si erono scoperti alli ventisei d’aprile, indicando stare in pericolo, non pensavono a altro che a novità. Li amici de’ Medici, delli quali una parte era diventata sospetta al cardinale di Cortona, inviliti per il successo di Roma e cognoscendo certo che lo stato non si poteva tenere se non per forza e che bisognavano a questo effetto alla guardia almanco tremila fanti, spesa insopportabile alla città essausta, e che il Cardinale era constretto a levarsi dinanzi qualche cittadino de’ più riputati e ricchi, dubitando ancora non avere la guerra di fuori e temendo che il Papa, sendo rinchiuso in Castello, quando non fussi soccorso, non avessi a venire nelle mani degl’Imperiali, i quali li avessino a tôrre la vita o mandarlo prigione in Ispagna, proposono l’onore e l’utile della patria al bene essere loro. E benché fussino certi, che se i Medici deponevono lo stato, che loro rimarrebbono a discrizione di quelli che li tratterebbono male e li affligge[58r]rebbono e nella roba e nella persona, vollono correre questo pericolo. E monstrando al cardinale di Cortona a che termine la cosa era ridotta, lo confortorono e pregorono che lasciassi lo stato in mano dell’universale, senza scandolo. Al che egli, benché malvolentieri, acconsentì.

E però alli sedici di maggio si deliberò una provisione nella Balia, per la quale si provedeva che Iulio de’ Medici, chiamato papa Clemente settimo, Ipolito, figliuolo del duca Giuliano, Alessandro e Caterina, figliuoli del duca Lorenzo, potessino godere le loro possessione e case liberamente e stare in Firenze o altrove, dove venissi loro a proposito. E fu promesso che tutti e’ delitti, non cognosciuti insino a quel dì, sarebbono perdonati, eccetto che a quelli che avessino tolto danari o roba al publico o al privato, e che si tornassi al Consiglio Grande come si viveva d’agosto nel dodici, prima che i Medici tornassino.

Ottenuta la provisione, il cardinale di Cortona si partì alli diciasette, e ne menò Ipolito et Alessandro. E della provisione fu osservato quella parte che è parso a chi è suto poi in magistrato.

 

Sarei suto desideroso scrivere quello che è successo questo anno ventisette, ma sendo stato assente dalla città, rispetto alla peste, e non avendo modo d’avere vera notizia di quello segue dì per dì, differirò a farlo altra volta in uno altro libro et in tempo manco travagliato di questo, al quale Iddio ci conceda grazia pervenire.

 

Nota

_________________________________

 

[1] Da questo punto ha inizio nel ms. la trascrizione autografa del Vettori.


Biblioteca dei Classici italiani di Giuseppe Bonghi

Ultimo aggiornamento: 02 aprile 2005