FRANCESCO VETTORI

 

VIAGGIO IN ALAMAGNA

 

 

 

 

Edizione di riferimento

Franceasco Vettori, Scritti storici e politici, a cura di Enrico Nicolini,Laterza, Bari 1972

 

 

 

 

LIBRO PRIMO

 

Tu m’hai più volte ricerco, Giovanni mio, che sia contento scrivere tutta la gita mia d’Alamagna distintamente. Io insino a qui te l’ho negato, iudicando che non meritassi essere scritta, ma che bastassi parlarne quando mancassi ragionamento. Ma instando tu al continuo, non ho potuto contradire come quello che alli amici ogni cosa concedo, e massime a te. Scriverrò, adunque, tutti e’ luoghi dove sono stato, e non solo le città e castelli, ma li borghi e minime ville, e quello mi sia accaduto e con chi abbi parlato e di che. E, se ne sarò ripreso, tu ne sarai causa che, me non volente, hai constretto a scrivere.

 

[2r] Alli 27 di giugno 1507 partì’ di Firenze con quattro servitori a cavallo. E perché disegnai non passare a Bologna, per essere quella infetta di peste, feci la via di Barberino, e quivi mi condussi la mattina a desinare, che era domenica. L’oste dove mi fermai era fiorentino, chiamato Anselmo di ser Bartolo e, per essere ridotto in povertà, col fare osteria s’ingegnava intrattenere sé e la famiglia sua.

Come ebbi mangiato, sentì’ per la villa suono di tamburi e tumulto di gente. [2v] Domandai l’oste che cosa fussi. Rispose che il giorno si trovava quivi il conestabile del battaglione e che tutti e’ fanti del paese s’avevono a ragunare in quel luogo per fare la monstra. Onde io, pensando di passare il caldo con qualche ragionamento, li dissi: « Anselmo, e l’età e l’arte ti debbe avere fatto e discreto et esperto. E però vorrei mi dicessi il vero se tu iudichi che l’avere introdotta questa ordinanza e dato l’arme a questi fanti, chiamati battaglioni, sia a proposito della città nostra o no ».

Lui mi rispose che desiderava ne dicessi prima l’oppenione mia, la quale, quando fussi secondo la sua aproverrebbe, quando no, replicherebbe quello li occorressi. « In verità, oste mio » dissi io allora « che chi considerrà bene l’ordine di questi fanti, lo iudicherà et onorevole et utile per la città nostra. E ponendo da parte molte cose che si potrebbono dire, dico che e’ Fiorentini hanno gran paese et abitato in gran parte da uomini usi allo stento et alla fatica. Oltre a questo, è forte per essere da molte bande circundato da alpe e da monti aspri, in modo che, se si mantiene questo ordine d’uomini armati et alquanto disciplinati nel paese loro, non che il duca Valentino e Vitellozzo con poco numero d’uomini, come hanno fatto pel passato, non ardiranno entrare, ma il re di Francia o [3r] qualunque altro principe con grande et iusto essercito dubiteranno d’accostarsi a quello. Ometto quanta facilità sarà nel congregarli, quanto minore spesa nel tenerli, di quanto timore saranno a’ vicini; e voglio intendere la tua risposta ».

Udito Anselmo il parlare mio, disse: « Perché le parole tue non monstrano la medesima oppenione che la mia, dirò quello mi occorre. E non fo dubbio che questi battaglioni, quando saranno armati et essercitati, potranno essere simili a quelli che sono tenuti buon fanti. Ma io non so già allora come noi Fiorentini staremo sicuri; né so in che modo li uomini armati et essercitati vorranno ubidire a’ disarmati et inesperti. E dubito che non pensino, sendo stati un tempo sudditi, potere diventare signori. E credi a me, che tutto giorno li pratico, che loro non ci amano né hanno causa d’amarci, perché noi li tiranneggiamo, non li dominiamo. E se abbiamo paura delli insulti esterni, è meglio pensare redimersi da quelli che vengano de’ quattro o sei anni una volta con danari, che temere di questi che possono venire ogni giorno. E se li possiamo congregare presto, questo medesimo posson fare da loro per nuocerci. E se a’ vicini con essi metteremo timore, a noi medesimi metteremo timore e danno. Potrei dire molte altre [3v] cose, ma, sendo tu stato brieve, voglio fare il medesimo ».

Le ragioni dell’oste non mi dispiacquono. E sendo già ora di cavalcare, montai a cavallo e la sera mi condussi a alloggiare al Piano in Bolognese. E perché l’osteria era piccola e trista, andavo per la villa a torno, la quale aveva sopra, poco lontano, una abitazione d’uno cittadino bolognese, chiamato Francesco della Volta, el padre del quale, secondo dicevano li uomini del luogo, era molto ricco. Ma, come avviene quando delle ricchezze s’hanno a fare più parte, a questo Francesco era tocco il palazzo con non molte terre a torno; e per spender meno si stava il più del tempo quivi. E vedendomi passeggiare venne da me, e mi domandò chi fussi o dove andassi. Risposi che ero mercante fiorentino et andavo a Norimberg per mie faccende.

Lui, come intese che andavo nella Magna, con grande instanzia mi ricercò se sapevo niente della venuta dello Imperatore in Italia e che grandemente lo desiderava, perché Bologna fussi per suo mezzo libera dallo insopportabile iugo del cardinale di Pavia, che era là legato per papa Iulio. Al quale io dissi che mi persuadevo che la signoria di messere Giovanni e de’ figliuoli fussi molto più aspra e dura che quella del Legato. Lui rispose che era vero che in Bologna, [4r] in quel tempo, non era sicura la roba, non moglie, non figliuoli, non la vita di quelli che erono inimici di messer Giovanni; ma, con tutto questo, che lui voleva mantenere la città e che quelli che erano amici suoi potevono sperare bene; ma che al presente nessuno vi era contento, perché il Legato non pensava se non a rubare ciascuno e, con ogni industria, guastare e dissipare la città, come quello che non si confidava poterla tenere insino non l’avea ridotta a niente.

 

Confortà’lo con quelle ragione mi occorsono, et all’osteria tornato, mi riposai. E la mattina sequente mi fermai a desinare al Sasso, distante a Bologna miglia otto, in sul fiume del Reno. Intorno a questo luogo sono molti palazzi di gentiluomini bolognesi, e’ quali allora, rispetto alla peste, avevono quivi le loro famiglie. Desinai e di poi, per non dormire, mi messi a sedere avanti la porta dell’osteria. Et a caso vi capitò un frate dell’ordine di Camaldoli, che stava vicino al borgo in una piccola chiesa. Et entrando in ragionamento seco, gli domandai di chi fussi un palazzo molto bello in aspetto, quivi vicino. Disse quello essere d’un dottore, chiamato messer Lodovico Bolognini: «Il quale di legge [4v] forse qualcosa intende, ma d’ogni altra cosa niente. Ha una bella donna che la tolse che era già vecchio d’anni sessantacinque e lei ne aveva diciotto; et è qui a questo palazzo.

E ti voglio dire una piacevole novella che il verno passato gl’intervenne. Lui, come t’ho detto, sendo vecchio e morendoli la prima moglie, questa giovane e bella tolse. La quale, sendo stata presso a dua mesi seco e conoscendolo debile di corpo e di cervello, d’un medico giovane s’innamorò, nominato mastro Gualberto. Messer Lodovico, conoscendosi vecchio, era oltre a modo geloso; et in maniera la moglie, chiamata Dianora, guardava che non che altro avea fatica farsi alla finestra. E crescendoli ogni dì l’amore verso il medico e pensando il modo a venire a quello desiderava, finse essere gravemente malata, in modo che messer Lodovico subito mastro Gualberto fe’ venire, il quale era uso spesso a medicarlo.

Et accostandosi il mastro a lei al letto a lume di lucerna ben piccolo, certi cenni et atti li fece, in mentre li toccava il polso, che lui molto bene s’avidde quello che essa desiderava e la confortò che presto la farebbe sana e contenta. E dipoi, ordinati alquanti remedi e chiamato messer Lodovico da canto, li disse che il male della Dianora era quartana e di mala sorte, e che aveva bisogno d’una essatta cura, e che lui non manche[5r]rebbe di diligenzia e sollecitudine. Messer Lodovico lo ringraziò e lo pregò che facessi 1’uficio suo e che da lui sarebbe benissimo satisfatto.

E però il medico ogni giorno dua volte, e quando tre, la moglie visitava e li ordinava quando una unzione, quando un sciroppo, quando una pittima, e simil cose che costavono e poco operavano; e così fece circa un mese. Et in questo tempo molto meglio comprese l’amore che la donna gli portava; e con cenni e con parole gli monstrò che non manco ne portava a lei e che presto la trarrebbe d’affanno.

E chiamato un giorno messer Lodovico in luogo remoto, con una voce piena d’affezione e gravità, li disse: « Perché io vi ho sempre stimato come padre, non vorrei usare li medesimi termini con voi e cose vostre, che noi altri medici usiamo comunemente con li altri. Le quartane sono mali molto lunghi e de’ quali e’ medici cavono grande emolumento. Ma Avicenna mette un rimedio molto presto e salutifero, e quando voi vi disponiate su, sì io ve lo dirò: e questo è di fare qualche gran paura allo infermo. E la ragione c’è, molto evidente, perché tali febbre procedono il più delle volte da umori freddi, e’ quali, né con cristeri né con medicine, si possono muovere, ma il timore grande è sì potente che gli manda tutti sottosopra. Ma [5v] bisogna avere gran rispetto che la paura non fussi di qualità che traessi lo infermo del cervello: e però è necessario che quello a chi è commesso questa opera, sia e pratico e prudente".

Al iurisconsulto piacque assai questo parlare, come a quello a chi rincresceva la spesa delle medicine e del medico, e rispose: "Mastro mio, io non so che merito vi possa rendere di tanta vostra affezione. El rimedio mi piace assai perché è scritto da’ vostri dottori et è secondo la ragione. Ma poiché avete durata tanta fatica, voglio pigliate ancor questa di far tale paura alla Dianora".

Il mastro si scontorse un poco dicendo: "In verità malvolentieri piglio tale assunto, ma, per un tanto dottore come voi, son forzato a fare ogni cosa è di bisogno. Dunque in tal modo operate: domattina, dua ore avanti giorno, io verrò qui et arò meco una pelle d’orso, la quale mettendomi a dosso, in camera pianamente me n’entrerrò. Il lume in camera sarà piccolo, et io, come orso, in qua et in là andrò saltellando. Lei si desterà e, veduto l’orso e temendo, comincerà a gridare. Io la lascerò tanto fare così che iudichi a bastanza, e poi m’uscirò di camera. Ma abbiate avvertenzia che in detta camera non sia alcuno e che, per romore che lei facci, [6v] nessuno vi entri".

Il dottore approvò tutto; et il medico vicitò la donna e li disse che la mattina seguente la voleva sanare, accennandoli in modo che, se non in tutto, in gran parte potette pensare quello avessi a seguire. E partitosi, una pelle d’orso procacciò. E la sera, d’una buona cena fornito, a casa messer Lodovico n’andò e, come era dato ordine, con la pelle d’orso vestito pianamente se n’entrò in camera. E la serva, che di ciò dal padrone era ammaestrata, aveva notato, l’ordine dato a venir quivi li disse, e però che lui, spogliato, allato a essa si metterebbe, ma che era necessario che lei del continuo gridassi. Onde, come il mastro gli fu a canto, cominciò a mettere le maggior grida del mondo; e per una ora che stette seco a sollazzarsi mai restò. E quando si volle partire, raddoppiava il romore perché la partita gli doleva. Pure lui, rivestitosi della pelle dell’orso et aperto l’uscio, saltellando fuori di camera uscì, Et è da pensare che rimanessi con la Dianora in che modo altre volte s’avessino a trovare insieme: tanto è che da quella ora in qua la quartana non gli tornò, e messer Lodovico per tutto Bologna ha predicato  [6v] il remedio a guarirla ».

 

Io, avendo udito la piacevole novella, mi partì’ di quel luogo e, per dilettevole cammino e piano lungo il fiume del Reno, a buona ora arrivai al Ponte a Reno, distante a Bologna miglia dua. E, stando sotto una loggia dell’osteria, guardavo che era in molte parte guasta per la guerra, che l’anno avanti papa Iulio aveva fatto a messer Giovanni Bentivogli con l’aiuto del re Luigi di Francia, duodecimo di quel nome. Pure si vedevano, in più parte dell’osteria, dipinte le insegne de’ Bentivogli, ancora che fussino in parte cancellate e guaste. E mentre a questo attendevo, sopravenne il signore dell’osteria, che veniva di Bologna, e, vedendomi intento a considerare quelle armi e leggere e’ brievi che v’erono sotto, mi disse:

« Tu stimerai forse, vedendo qui tante insegne de’ Bentivogli, che io sia stato tutto partigiano e sviscerato di quella casa, et, acciò non abbi a credere questo, ti voglio dire in che modo ci sono queste arme. Io mi chiamo Antonio Fantuzzi et ho qui questa osteria con certe terre intorno, e con questa entrata vivo il più commodamente posso. Et al tempo de’ Bentivogli, attendevo a star quieto e farmi amare a ciascuno e poco travagliare.

Avevo una figlia molto bella, d’età d’anni sedici, la quale ho dipoi maritata, e la tenevo stretta, e la nutrivo con quelli onesti costumi che sono convenienti alle figlie ben nate. Non so in che modo di lei [7r] si venissi notizia a Ermes, figliuolo di messer Giovanni. E fu tanta la insolenzia e bestialità sua che, senza rispetto, mi fece dire a uno suo fidato che desiderava una sera cenare con essa. Puoi pensare se la proposta mi parve strana. Pure, sappiendo come si viveva in Bologna e che, faccendo il brusco, andavo alla manifesta morte onde lui conseguiva più presto la mia figlia, gli risposi che ero per fare tutto quello voleva, e che la mia figlia era fuori alla villa con una mia sorella, e che subito manderei per essa, e che mi tornassi a dire quando Ermes voleva fussi la sera della cena, che sempre mi troverebbe presto a compiacerli. E, partito da lui, a casa me ne tornai e feci, la sera, delle cose miei migliori più danari potetti, in modo congregai circa ducati cento. E la mattina, a buona ora, feci vestire la mia figlia di panni d’un mio ragazzo, e montai a cavallo et a piedi la menai meco. E quando fui lontano da Bologna un miglio, me la messi in groppa e, quanto più presto potetti, a Modona e poi a Reggio mi condussi. Intesesi in Bologna intra pochi dì come ero partito con la figlia, onde Ermes, infuriato, fece confiscare tutti li miei beni per e’ Bentivogli, et in questa osteria ordinò fussino dipinte tante loro arme quante ci vedi, le quale, io come la rassetto un poco, tutte le farò cancellare ».

Le parole d’Antonio mi monstrorno che questo Ermes fussi uomo di pessima [7v] qualità come altre volte avevo inteso. E che  nell’anno MDI, quando il duca Valentino cercò di cacciare messer Giovanni di stato (e per condurre questo effetto tenne pratica con più gentiluomini bolognesi e tra li altri con messer Agamennone Mariscotti) e, non vedendo modo detto Duca che il suo pensiero gli potessi riuscire, perché li Orsini e Vitelli si opposono a questa sua fantasia, per mettere scandolo in Bologna e farla più debile, rivelò a messer Giovanni quelli con chi aveva tenuto pratica: e’ quali furono tutti presi et incarcerati. E pensando messer Giovanni in che modo li dovessi far morire, Ermes con alcuni suoi compagni, armati, andorono a il luogo ove erono ritenuti e tutti in pezzi gli tagliorono: cosa aliena dalla religione et umanità, perché, se bene per salvare lo stato è conveniente amazzare li nimici, si debbe fare, massime quando sono presi, per via della iustizia e con quelle cerimonie et ordini che si ricercono.

 

Stetti la sera al Ponte a Reno e la mattina, dua ore avanti giorno, cavalcai tanto che giunsi a desinare a un luogo detto Buomporto in Ferrarese, posto in sul fiume del Panaro. Mentre desinavo, entrò nella stanza dove ero, uno giovane con una fanciulletta assai bella e galante, e quivi la lasciò tanto che andassi per la villa, cercando di provedersi d’una bestia. E, sendo lei rimasta sola, la domandai d’onde fussi e che appartenessi al giovane che quivi l’avea lasciata. Lei mi disse essere [8r] nata in una villa vicina a Firenze, chiamata Rovezzano, e che il padre era tessitore di panni lini e che teneva sempre in casa quattro o sei lavoranti. Aveva avuto moglie e di quella non li era nato altri figliuoli che lei. E morendo detta moglie, il padre ne prese una altra. La quale, cominciando avere figliuoli, come il più delle volte usano fare le matrigne, a lei, che Caterina aveva nome, tanto odio pose che non restava mai di gridare seco e, che era peggio, di batterla in modo che il vivere li era rincresciuto. E parlando un giorno con questo che la guidava, che era lavorante del padre, lo pregò che fussi contento partire di quivi e menarla seco. E lui, benché stessi alquanto renitente, alla fine s’accordò. E l’aveva condotta con grande onestà, né sapeva quello s’avessi a fare per l’avvenire: ma, facessi quello volessi, era contenta d’essere uscita delle mani del diavolo, che era sua matrigna. Tornò intanto l’uomo suo et, avendo trovata una bestia che la conducessi insino a Mantova, si partì. Et io, riposatomi alquanto, feci il simile.

E considerai nel cavalcare che, ancora che il paese monstrassi essere fertile di grano e vino, aveva grande incommodità d’acqua. E tutto giorno riscontrai carri che ne portavono a’ luoghi dove sa n’era mancamento, e la traevono del fiume, [8v]  el quale era tutto pieno d’uomini e donne, chi per lavarsi e chi per trarne acqua e portarla alle loro abitazioni lungi cinque o sei miglia.

 

La sera mi fermai alla Mirandola, castello che n’era allora signore il conte Lodovico, uomo nell’arme riputato assai. E come intese ero all’osteria, venne là e, con una cortese forza, nella fortezza dove abitava mi condusse. E fatta ordinare la cena, come a un tale signore si richiedeva, et a lungo parlatomi della diferenzia aveva avuto col conte Giovanfrancesco suo fratello, e come n’era suto causa principale uno fiorentino, chiamato Pietro Bernardo che seminava certa nuova religione, e come lui lo aveva fatto ardere, e perché era già la cena finita, mi menò a una finestra che in una piazza fuori della terra guardava. E mi disse, monstrandomi un luogo, che quivi era suto arso Pietro Bernardo. E sappiendo io che erono dua anni, o più, che era suto morto e vedendo in quel luogo el segno del fuoco quasi d’un giorno, stetti ammirato e dimandai il signore della causa. Lui disse:

« Iermattina in cotesto medesimo luogo il nostro potestà fece ardere una donna, la quale aveva commesso tanti delitti che so rimmarrai attonito a udirli. Sono circa anni dieci che in questa nostra terra morì la donna a uno notaro, domandato Antonio [9r] Crivello, el quale, per essere sufficiente procuratore et avere avuto assai buona dota, era ricco. Riprese moglie una da San Felice, castello qui vicino, che aveva nome Simona, d’età d’anni venti: e lui n’aveva circa quarantacinque! La quale, conoscendo che il marito non era atto a scuoterla come arebbe voluto, s’ingegnò in qualunque modo cavarli le sua voglie. E quando il contadino e quando il servitore o vetturale adoperò. Et avendo già avuto una figliuola, pensò che meglio potrebbe la sua sfrenata libidine mandare ad effetto se sanza marito restassi e nondimeno potessi disporre della roba del notaro. E considerò che, quando il marito morissi senza fare testamento, la roba restava alla figliuola, e che a essa apparteneva esserne tutrice, in modo che ne potrebbe fare in gran parte la sua volontà.

Il notaio nel principio che la tolse, attendendo a procurare, de’ disonesti portamenti suoi non s’accorgeva; ma nel processo del tempo vidde certi segni che lo feciono dubitare e stare di mala voglia. E quello che gli dava più molestia era che, oltre allo essere libidinosa, era tanto strana e ritrosa che mai restava di gridare et imperversare, e col marito e con ognuno di casa, di qualità che il notario non aveva mai una ora di quiete, in modo che ammalò.

[9v] Et allora parve alla donna che fussi venuto il tempo di colorire il disegno suo. E subito n’andò da un medico suo vicino, col quale aveva avuto qualche pratica, e li disse: " Mastro, io userò poche parole, perché sappi che noi ci conosciamo, e so che hai necessità di guadagnare et io di levarmi davanti il mio marito, el quale è malato. E per le miei persuasione chiamerà te alla cura sua e, se tu li dai una medicina che lo conduca alla morte, io ti donerò cinquanta ducati e la cosa sarà secretissima, e con essi potrai maritare la tua figliuola, et ancora aremo facilità di darci qualche volta buon tempo insieme ".

Il medico, che era non manco tristo che bisognoso, accettò l’offerta. E, chiamato la sera allo infermo e considerata la infermità, disse che li ordinerebbe una medicina che presto lo sanerebbe. E per monstrare essere più diligente et amorevole, disse che piglierebbe a fare l’uficio dello speziale e che la mattina a buona ora la verrebbe a comporre. E cosí, avanti che fussi giorno, a casa lo infermo se ne venne e con suoi mortaietti ordinò la venenosa pozione e, messala in un bicchiere d’argento, s’accostava al letto del notaro per dargnene.

Quivi era presente la Simona con altri parenti la quale, [10r] pensando se poteva privare in un medesimo tempo il medico di vita come il marito e così essere libera dalla promessa delli cinquanta ducati et accostatasi al mastro, li disse: " Tu debbi sapere che io non ho cosa alcuna in questo mondo più cara che il mio marito. Però intendo che avanti li dia questa medicina ne facci saggio e ne bea più d’un sorso perché, non avendo Antonio figli maschi, so che ci sono di quelli che disegnono in su la roba sua e so ancora che si truovano di medici che tengono mano a simili sceleratezze, ancora che io non creda che tu sia di quelli ".

Il medico, giunto a questo stretto, né potendo con ragione negarli tal richiesta, deliberò fare il saggio e poi partirsi e pigliare di quelli rimedi che si danno contro al veneno. La Simona volle vedere quando faceva il saggio e poi consentì la dessi al marito. Il medico, subito che l’ebbe data, si sarebbe voluto partire, ma lei lo intratteneva con parole, domandandolo a che ora aveva a dar mangiare al marito e molte altre cose simili. Poi aveva serrato con chiave l’uscio della camera e tutti li altri usci in modo che, avanti che il medico si potessi partire, il veneno s’era già diffuso per tutto il corpo. Onde lui, giunto a casa, conobbe subito la [10v] morte esserli vicina. E chiamata la moglie, li disse quello li era accaduto, e quello che l’aveva indotto a errare era suto il desiderio di maritare la figliuola, e come lui fussi morto andassi dalla Simona e li dimandassi li cinquanta ducati minacciandola che, quando non li avessi, farebbe noto il caso. Et in queste parole si morì. Il notaio, che aveva presa la pozione intera, non visse dopo l’ebbe in corpo una ora e la Simona restò della roba dominatrice come aveva disegnato.

Né passorno dua giorni che la donna del medico, chiamata Antonia, ne venne a lei, e la cosa per ordine li contò e richiesela della promessa. La Simona gli fe’ buona accoglienzia e monstrò dolerli della morte del medico; e li disse che gli voleva osservare la promessa come era iusto, ma che desidererebbe avere un pochetto di quello veneno perché ancora aveva d’adoperarlo; e però che venissi la mattina sequente e menassi la figlia e li portassi il veneno, e che darebbe loro desinare e poi li cinquanta ducati.

L’Antonia, la mattina sequente, preso un poco del veneno in una scatoletta, con la figlia a casa la Simona ne andò, et il veneno gli dette. Il quale non prima ebbe avuto che in cucina [11r] corse, et in su certe vivande una parte ne messe, le quali ordinò fussino poste avanti alle forestiere per onorarle. E fu sì potente il veneno che la figlia del medico, avanti avessi finito di desinare, a tavola morì. L’Antonia, del caso avveduta e conoscendosi presso alla morte, di casa s’uscì et, appresentatasi al potestà, il caso per ordine gli narrò, et avanti a lui si morì. Il potestà, fatta pigliare la Simona, il tutto da lei inteso, al fuoco la condennò, et iermattina se ne fece l’essecuzione ».

 

Parvemi il caso orrendo e, ringraziato il signore dell’onore m’aveva fatto et offertomeli, all’osteria a dormire me ne tornai. E la mattina seguitai il mio cammino e mi posai a desinare a Revero, villetta posta in Mantovano in su la riva del Po a rincontro d’Ostia. Trovai nell’osteria, dove alloggiai, uno canonico da Trento che andava a Roma per espedire certe sue bolle; e con lui di più cose, ancora che non molto esperto fussi, ragionai; et insieme mangiammo.

Dopo il mangiare, comparse l’oste, uomo di buona presenzia e di molte parole, e disse che nella villa erano de’ gentiluomini mantovani e che era loro costume ridursi pel caldo a sollazzarsi in quella osteria con carte o dadi. Io li risposi che non sapevo giucare, [11v] ma che starei a vedere volentieri. Il canonico disse che ce li facessi venire. Partito l’oste, io dissi al messere che non sapevo come lui fussi pratico a ire a torno, ma che in su queste osterie sogliono il più delle volte usare bari. Lui rispose che non dubitava e che giucava a passa dieci, che era giuoco semplice, e che sempre portava dadi da sé per non essere ingannato.

Mentre parlavammo, comparse l’oste con dua, vestiti di drappo di seta. E, secondo dicevono, l’uno era gentiluomo mantovano nobile e ricco, l’altro, più giovane, cameriere del Marchese; et erono venuti quivi a sollazzo per qualche giorno per passare il caldo, et invitorno il canonico a giucare. Lui disse che non giucava che a passa dieci e che aveva dadi da sé, e così furono d’accordo. E giucava il canonico e li duoi mantovani e facevono d’un marcello per posta. Giucorno una ora e variava poco la sorte; pure il messere perdeva circa dua ducati in modo che quello mantovano più vecchio, avvedutosi che il canonico perdeva e che gli doleva e che bisognava stessi, si lasciò cadere tutti e’ dadi sotto la tavola. Il palco era tristo onde, nel cadere, se ne perderono dua in modo che il mantovano disse che, non vi sendo dadi, si poteva [12r] lasciare il giuoco. Il messere che perdeva fece domandare dadi all’oste, il quale ne fece mettere in tavola circa venti. E con essi di nuovo cominciorno il giuoco e facevono le poste maggiore, et il canonico poche ne vinceva. Io, che stavo a vedere, rivolgevo e’ dadi che erano da canto in su la tavola e mi avviddi che certi avevono dua sei e certi dua assi e, quando il messere aveva a trarre, che raro li accadeva, li mettevano avanti un dado che avessi dua assi, quando avevono a trarre loro, ne pigliavono uno che avessi dua sei. Io, accortomi di questo, al canonico mi accostai e tanto lo toccai che si levò da giuoco con perdita, però, di ducati dieci. Et avendomi riserbato alcuni di quelli dadi, fingendo fussino caduti dopo la partita de’ mantovani, al messere li monstrai col farmi promettere che non ne parlassi insino non fussi partito che non volevo, mentre ero quivi, si facessi romore. Lui conobbe l’errore suo e serbò li dadi li avevo dati. Et io, perché era vespro, m’imbarcai per passare il Po, né so quello che il messere con l’oste e mantovani si facessi. Sentì’ bene, mentre passavo il fiume, nell’osteria grida e tumulto.

 

Il dì, per essere il caldo grandissimo, cavalcai poco et alloggiai a una osterietta in Veronese, luogo detto Ronconuovo. Erono quivi fermi certi tedeschi che a piè da Roma venivono,  [12v] co’ quali era uno dello Reno che aveva aspetto d’uomo da bene; il quale diceva essere stato più anni col <cardinale di San Malò> e che aiutava scrivere a uno suo secretario. E domandandolo io perché s’era partito, rispose :

<« Se tu mi domandi la causa che mi fa partire da Roma, ti dirò che noi dello Reno siamo buoni cristiani, et abbiamo udito e letto la fede di Cristo essere fondata col sangue de’ martiri in su buoni costumi, conroborata con tanti miracoli, in modo che sarebbe impossibile che uno dello Reno dubitassi della fede. Io sono stato a Roma più anni et ho visto la vita che tengono e’ prelati e li altri, di qualità che io dubitavo, standovi più, non che perdere la fede di Cristo, ma di diventare epicuro e tenere l’anima mortale. Se mi domandi perché io mi sia partito dal mio patrone, te la dirò. Ma ti priego non mi tenga maligno se lo biasimo, come sogliono il più delle volte essere tenuti quelli che biasimono i patroni, perché non li darò calunnia alcuna che non sia vera e che, avendomi trattato come ha, non sia conveniente. E per darti vera notizia della qualità e vita sua sarò un poco lungo, ma sendo tu fiorentino, come ho inteso, credo che questo [13r] mio parlare non t’abbi a dare fastidio.

Lui ha nome <Guglielmo Brissonetto> e nacque in Francia in uno villaggio presso a Torsi tanto vilmente quanto sia possibile. E crescendo si pose con un mercante di Parigi per aiutare al famiglio di stalla. Poi cominciò andare col padrone alle fiere di Lione, e, sendo già fatto uomo et assai bello, tentò la patrona d’amore, la quale li acconsentì. E così convennono insieme che, dato il veneno al marito, pigliassi poi lui. Et intra non molto tempo detto marito si morì o di veneno o d’altro, non si sa. Basta: che <Guglielmo> diventò marito della donna e padrone della roba et, intra duoi anni, e’ figliuoli dell’altro marito o morirono o, per fuggire le battiture, si messono andare a torno pel mondo, eccetto una femmina che rimase a presso la matre. E <Guglielmo> seguiva le sue mercantie, o vogliam dire usure, e del continuo era alle fiere di Lione, et ingannando questo e quello con giuri e spergiuri e cedole e contratti falsi, ogni giorno diventava più ricco.

Et essendo morto il re Luigi undecimo e succedendo Carlo che era giovanetto, lui cominciò a praticare la corte e spesso portare avanti a il Re nuove fogge di drappi d’oro e di seta, [13v] in modo che li cominciò a esser grato e gli pose tanto amore che non voleva si partissi di corte. E venendo una volta a Parigi et essendo in età d’anni diciotto, vidde la figliastra di <Guglielmo> che era eccellentissima di bellezza. E, cominciandola a guardare, <Guglielmo>, che li era appresso, se n’accorse e tanto operò e con la moglie, che era sua madre, e con la figlia, che il Re possette pigliare di lei quello piacere che volle. E con questa arte venne tanto in grazia al Re, che poteva quello che voleva. E conoscendosi vile e da non potere ottenere stati temporali dal Re, pensò di diventare uomo di chiesa. E perché la moglie a questo obstava, con veneno se la levò davanti, avendo avuto d’essa più figli maschi e femmine. Et in poco tempo sendo diventato prete, ottenne dal Re e vescovadi e badie di qualità che aveva grossa entrata.

E pensando il modo a potere ragunare somma di danari presto, occorse che il signore Lodovico Sforza, governatore di Milano, a qualche proposito ricercò il re Carlo che dovessi passare in Italia all’acquisto del Regno di Napoli. E non trovando disposizione né innel Re né tra li più savi signori di Francia, fece tentare <Guglielmo Brissonetto> che, per essere diventato vescovo, <da tutti di San Malò> era chiamato. Il quale, conoscendo che da detto signore era per trarre, [14r] e così poi dalle Repubbliche e Signori d’Italia quando seguissi la vittoria, non considerando quello potessi succedere quando caso avverso venissi e stimando più un ducato che potessi guadagnare in sua proprietà, che un milione che potessi avere di danno la Francia, e postponendo all utile suo ogni vergogna che potessi avere il Re, gagliardamente lo cominciò a confortare all’impresa d’Italia. E furono tante le sue persuasione che, contro alla volontà de’ più savi signori di Francia, la impresa si deliberò, e ne seguì lo effetto che è noto a molti; e per esser cardinale concluse con papa Alessandro quello accordo che lui seppe dimandare. Et a voi Fiorentini con varie arte tolse de’ ducati cinquantamila per sé e, quando stimavi che vi facessi rendere Pisa, confortò e’ Pisani a difendersi e, con li vostri danari, fornì la fortezza di quello gli mancava. Et aveva condotto ii suo Re in luogo a Fornuovo per li danari li avevono dati e’ Veniziani che, se non fussi stata la virtù de’ suoi, rimaneva prigione; nondimeno sendo suto vittorioso, lo condusse a fare ignominiosa pace.

E parendoli dipoi che il duca Lodovico non lo tributassi a modo suo, di nuovo persuase il Re a muoverli guerra. Ma come il Duca gli donò ducati venticinquemila, messe sospetto al Re dell’Imperatore et ogni cosa tornò in fummo. Onde indignati contra lui, la gran parte delli signori [14v] di Francia deliberorno far noto al Re gl’inganni che li faceva San Malò, et in che precipizio lo conduceva. Ma lui, accortosi di questo e temendo l’ira del Re, fece venire in corte la figliastra e con essa si compose che nel coito avenenassi il Re, il che, secondo li medici, si può fare facilmente. E se ne vidde la esperienzia, perché il Re dormì con lei la notte, e non fu levato di quattro ore che cominciò a essere malato gravemente, et avanti che fussi sera finì li giorni suoi.

Dopo la morte del quale, pervenne il Regno al re Luigi duodecimo, a chi San Malò subito persuase che era bene che lo lasciassi ire a Roma perché potrebbe in molte cose giovare et a lui et al regno di Francia. Ma il prudente Re non volle acconsentirgli; onde per averlo propizio, gli donò nel principio del suo regno ducati trentamila e nondimeno il Re non volle che stessi in corte.

E lui se n’andò a un suo vescovado e quivi stette qualche anno quasi ascoso, et attese a scorticare 1i poveri preti della sua diocesi e fece in quella cose sì nefande, che il popolo una volta corse al vescovado per amazzarlo, ma lui se ne fuggì per certe vie ascose. E con gran fatica ottenne dal Re di venire a Roma, dove io m’acconciai con lui per aiutare scrivere a il suo secretario, et altro non mi dava che le spese. Pure [15r] stavo con lui sperando m’aiutassi spedire qualche beneficio sanza spesa.

Et ero stato seco già dua anni, quando ebbi nuove che nel mio paese era vacata una prioria di rendita di circa a ducati quaranta. Andai da esso e lo pregai me la facessi espedire. E come ebbe inteso il titolo del beneficio e la diocesi, lo fece conferire a sé e n’espedì le bolle, dicendo averlo fatto per fuggire la spesa e che me lo rinunzierebbe a posta mia. Ma io, avendolo più volte ricerco di questa rinunzia e perdutoli tempo adrieto uno anno o più, mi sono avvisto che lo voleva tenere per sé: e però mi son partito da lui, e mi pare d’essere stato ingannato et assassinato.

Ma chi avessi considerato la vita teneva in Roma, si poteva persuadere d’esso questo e peggio. Mai diceva officio, mai pensava se non a fare ordinare vivande e cercare di buon vini e tanto ne ingurgitava, che spesso diventava ebbro e diceva le maggior pazzie del mondo. E benché per sé volessi mangiar bene e bere meglio, la famiglia faceva stentare e voleva si digiunassi con vigilie che mai furono comandate. Se gli capitava prete alcuno alle mani, di Francia, per espedire qualche beneficio, tutti gli trattava come me. E, per farti conclusione, non credo che da cento anni [15v] in qua sia vivuto il più compiuto uomo in ogni vizio che è il <cardinale di San Malò>, e de’ medesimi vizi, ne’ quali lui è sommerso insino sopra e’ capelli, danni li altri, superbo più che Lucifero, inimico a tutti li uomini e massime agl’Italiani. E mi sono maravigliato della viltà di voi Fiorentini che, avendovi fatto tante iniurie quanto ha, che in fatto tutto il male che avete avuto dalla venuta del re Carlo in qua e che siete per avere è proceduto da lui, non vi siate mossi popularmente, quando è passato per la città vostra, a estinguere e levare di terra uno uomo tanto detestando quanto è lui. E se l’avessi fatto, e’ Franzesi medesimi ve n’arebbono avuto buon grado: ma spero che Iddio abbi a fare quello non hanno ancora fatto li uomini ».

 

Io, vedendo il prete acceso in biasimare San Malò, parendomi l’ora tarda, a dormire me n’andai. E la mattina, quando fui a Isola della Scala, presi il cammino alla mano sinistra, perché non volevo passare per Verona, e mi fermai a una piccola osteria fuori di strada, che si chiamava Beccacivetta. E quivi oltre all’oste, trovai uno che si stava là fitto in un canto tutto mesto e non restava di querelarsi, e battersi le mani. Domandà’lo della causa di tanta sua afflizione.

Lui disse: « Io te la narrerò volentieri e se l’odi non [16r] ti maraviglierai del mio dolore. Io sono stato servo di dua fratelli gentiluomini veronesi molto ricchi, e’ quali hanno qui a torno le loro possessioni, et io ne ho cura. Ma è intervenuto questo anno al maggiore di loro il più strano caso del mondo ché è stato morto, et il modo ti dirò. Erono dua fratelli chiamato l’uno Iulio, l’altro Antonio Celsi. Questo Antonio è fanciulletto, né credo non abbi ancora anni dodici. Iulio, sendo molto ricco e gentile e d’età d’anni venti, una bella figlia prese per donna, chiamata Lucrezia, la quale gran tempo era suta amata da uno altro gentiluomo veronese detto Tiberio, et arebbela voluta per moglie. Ma per che causa si fussi, e’ parenti della fanciulla la vollono più presto dare a Iulio mio patrone. Tiberio fu molto dolente di questo parentado, nondimeno prese per partito di monstrare di non se ne curare. Et essendo prima amico di Iulio, si dimonstrava amicissimo e si sforzava accrescere la familiarità et amicizia. Iulio menò la donna a casa e, come giovane liberale e ricco, ogni dì faceva conviti et intratteneva, intra li altri, molto questo Tiberio, stimando li fussi amico vero e fidato. Et ogni giorno cavalcavono insieme a piacere et a caccia, e non pareva potessino vivere l’uno sanza l’altro.

Occorse che il verno passato Iulio ordinò di fare una caccia a’ cinghiali su alto nella valle dell’Adice, e Tiberio volle ire in sua compagnia. Ordinasi la caccia, viene il giorno deputato e Tiberio [16v] da Iulio ma’ si partiva. Lievasi un porco, Iulio lo segue e Tiberio il medesimo. Iulio viene alle mani col porco, et allora Tiberio che lo vidde impedito, d’uno spuntone avea in mano, nella coscia ritta gli dette e lasciollo in preda al porco. El quale, trovandolo debile per la gran ferita, poco penò a spacciarlo in tutto. Era già notte. Suonasi a raccolta et Iulio non torna: Tiberio monstra averne gran passione. Pure, dopo che i compagni l’ebbono cerco gran pezzo di notte, lo ritrovorono morto e credettono fussi stato ucciso dal cinghiale. La novella venne in Verona e ciascuno universalmente ne fu dolente, ma sopra ogni altri la misera Lucrezia sua donna, la quale sparse assai lacrime e grida sopra il corpo del morto marito. E poi che furono fatte l’essequie, né dì né notte restava di piangere et affliggersi.

Tiberio, in capo d’otto giorni, quando pensò che il dolore fussi alquanto mitigato, come amico del marito l’andò a vicitare. E non trovando la donna altrimenti disposta non pensava, non usò altre parole che generale e consolatorie. Adoperò ben poi certa donna per la quale fece intendere alla Lucrezia che un gentiluomo l’amava non dicendo il nome. Ma la Lucrezia con detta donna si scandalezzò e la minacciò assai.

Era Iulio d’un mese morto e fatte tutte le cerimonie che  s’usano fare in simili casi, [17r] quando una notte alla Lucrezia che dormiva, apparve ferito e tutto insanguinato, et a punto come era seguita la morte sua li narra, e che si guardassi che Tiberio non ingannassi lei, come aveva fatto lui, e disparve.

La Lucrezia, inteso il caso, con virile animo il marito terminò vendicare e cominciò a prestare orecchi alla donna che li aveva parlato et a Tiberio far buon viso, di qualità che la messaggiera, preso animo, l’amore che Tiberio gli portava gli scoperse. Di che la Lucrezia monstrandosi lieta, la sera che da lei dovessi venire compose et, ordinato un pasto glorioso e vini eccellenti, aspettò la sera Tiberio. Il quale venuto e cominciando molto bene a mangiare e bere, sendo il vino un poco oppiato, non ebbe a pena finita la cena, che s’addormentò. La donna fattolo mettere in un letto, quando lo vidde profondato nel sonno, con uno ago tutt’a dua li occhi gli trasse e, serrata molto bene la camera, di quella s’uscì. E come fu giorno, andatosene alla sepoltura del marito e quivi come fussi successa la morte d’esso narrato, se stessa con un coltello uccise. Il misero Tiberio, sendo privato delli occhi et il caso già vulgato per Verona, fu preso dalla famiglia del potestà et essaminato. Confessando, fu punito di pena capitale ».

 

Stetti a udire il servo con attenzione et il caso mi parve crudele, e lo confortai con quelle parole mi occorsono e poi montai a cavallo. [17v] E per la pianura di Verona cavalcando, lasciai la città  a man destra, et ebbi per male non la poter vedere, perché intesi quella esser bellissima, abondante di popolo, piena d’arte. Ha el fiume dell’Adice che passa per mezzo d’essa; ha contado fertile di grano, vino e d’olio che in Lombardia è cosa rara; ha belle fortezze in poggio et in piano. Guardà’la di fuori il più possetti e, così guardando, a Ossolengo mi condussi, castello in su l’Adice, distante a Verona miglia sei.

Smontato all’osteria et alquanto rinfrescatomi, perché era assai buona ora, davanti alla porta d’essa mi posi a sedere che era in sulla piazza del Castello. Quivi era uno in su una banca che s’avea congregato un gran cerchio tra uomini e donne, e diceva andare al beato Simone a Trento per voto, e che per sua grazia era scampato in Bologna dalle forche, alle quale quattro dì avanti era suto appiccato, e che il capestro s’era rotto e lui scappato, e la causa diceva perché era servitore d’un gentiluomo bolognese, sospetto a il legato. Io che ero passato a canto a Bologna di tre dì avanti e nulla di tal caso avevo sentito, stavo ammirato e massime perché lui, da poveri uomini, ragunò una buona somma di danari. E quando ebbe colto l’agresto a suo modo, smontò della banca e ne venne all’osteria per fare un buono pasto. E perché quivi non erano altri forastieri che lui et io, lo domandai come aveva carpiti danari. [18r] E così, tirando l’una parola l’altra, lui domandò me donde venivo. E come intese ero passato presso a Bologna mi disse:

« Uomo da bene, io ho quaranta anni e sono da Pescara nel Reame; e sono vissuto con questi modi anni venti; e non fui impiccato a Bologna ancor che forse lo meritassi. Ma che bisogna parlare? Io non ho altra arte: con questa vivo, e vivo bene, che voglio sempre le miglior cose truovo in sull’osterie, e questa sera spenderò almanco dua marcelli. E quando uso un modo da trarre danari e quando un altro: stravolgomi e’ piedi, le braccia, la bocca; quando fingo esser cieco, quando piagato; e muto spesso luoghi. E perché io so che t’accorgesti poco fa mentivo per la gola, t’ho scoperto il vero e ti priego di questa cosa: questa sera non parli. Doman poi muterò paese e cercherò ventura ».

Promessili tacere e pensai intra me medesimo con quanti modi, con quante astuzie, con quante varie arte, con quale industria uno uomo s’ingegna ingannare l’altro. E per questa variazione, il mondo si fa più bello: il cervello di questo si fa acuto a trovare arte nuova per fraudare e quello d’un altro si fa sottile per guardarsene. Et in effetto tutto il mondo è ciurmeria; e comincia a’ religiosi, e va discorrendo ne’ iurisconsulti, ne’ medici, nelli astrologi, ne’ principi secolari, in quelli che sono loro a torno, in tutte l’arte et essercizi; e di giorno in giorno ogni cosa più s’assottiglia et affina.

 

[18v] Stetti la sera a Ossolengo e la mattina per tempo in su una barca passai l’Adice e, su per la valle d’esso, verso Trento cominciai a cavalcare. El fiume dell’Adice è molto rapido e grosso, e massime quando le neve si struggono. Ero ito circa miglia sette e trovai la Chiusa che è un luogo in su l’Adice el quale e’ Veniziani guardano, perché è passo forte. L’Adice ha in quel luogo da ogni banda le ripe tagliate et alte, dalla man destra è solo tanta via che duoi cavalli insieme hanno fatica d’andarvi. Questo luogo e’ Veniziani hanno chiuso con due porte, l’una di sopra e l’altra di sotto; e nelle rotture del monte hanno fatto certe piccole stanzette, dove possino stare fanti a difendere dette porte. Et a qualunque passa a piè o a cavallo fanno pagare un dazio e di questo emolumento pagano dette guardie. Passai quel luogo e, pure in su l’Adice, al Borghetto mi fermai, dove trovai uno oste tedesco molto piacevole. E per essere il caldo grande et il luogo fresco, vi stetti molte ore a piacere. Era venerdì, e però l’oste providde di più sorte pesci dell’Adice.

Era nell’osteria un vecchio veniziano che avea aria di buon compagno et entrando meco in ragionamento mi disse:

« Perché tu mi pari uomo da bene ti voglio dire, benché non me ne domandi, forse per più cortesia, la causa perché sto qui.

Io mi chiamo [19r] Pietro e sono antico popolano di Venezia, e l’arte  mia era esser libraro e, come tu vedi, sono assai bene oltre con li anni. Pure non è molto tempo che io tolsi una bella fanciulla bergamasca per donna, nominata Smeralda, la quale non era conveniente all’età mia, ma mi piaceva, et il padre me la dava volentieri, e mi volli contentare. E parvemi, da principio, l’avere questa fanciulla la più dolce cosa del mondo e del continuo con essa mi trastullavo, e lei mai si spiccava da me. Ma io, sendo vecchio, non potetti reggere molto a tal vita e cominciai a diradare, onde lei pensò con altri trarsi piacere.

In botega mia, come accade a un libraro, usavano del continuo assai giovani, e gentiluomini et altri; et in quel medesimo luogo dove facevo la botega era l’abitazione mia ordinaria. Et intra li altri vi praticava molto spesso uno giovane gentiluomo bello, galante e ricco, chiamato Achille Trevisano. A questo la Smeralda mia messe l’occhio a dosso, e lui a essa, onde io, che per l’età ero assai esperto, di qualcosa mi accorsi. Ma vietare a messer Achille l’usare in botega mia, era cercare di perdere la vita e la roba, che così usano fare e’ gentiluomini, che di noi altri popolari sono crudeli tiranni: e però comandai alla mia donna non venissi più in botega. Lui conobbe questo e con una serva tenevo, la quale stimavo molto fidata, ebbe mezzo di mandare imbasciate alla Smeralda. E convennono [19v] in modo che più volte in casa mia, in su l’ora che avevo più faccende in botega, insieme si trovorno. Io, vedendo messer Achille non esser frequente in bottega all’ora solita, cominciai a dubitare. Et un giorno deliberai vedere se fussi vero quello di che avevo dubbio e volli andare di sopra, ma trovai chiuso l’uscio che di botega montava alle stanze da alto. Andai alla porta di rietro per la quale saliva messer Achille e vi trovai uno suo schiavo a guardia. Pensai vendicarmene sanza romore e, tornato piano adrietro, a un fanciullo che avevo in botega ordinai che dicessi allo schiavo che messer Domenico Trevisano, fratel maggiore d’Achille, diceva che andassi da lui in Rialto, quivi vicino, e che gli voleva dire una parola e subito tornerebbe. Lo schiavo andò e l’uscio rimase sanza guardia. Io subito presi dua giovani che stavano meco et armati corremmo su e trovammo messer Achille e la Smeralda in sul letto che si davano piacere. Fecigli pigliare e legare e li tenni così tutta notte e rassettai più della roba mia in danari che potetti. E la mattina, avanti giorno, legai in bottega mia messer Achille nudo e la donna in camicia. E quando fu ora che da ciascuno potessino essere visti, feci aprire la botega e mi fuggì’ in su una gondola avevo preparato lor e me n’andai a Triesti dove intesi che [20r] li cavi de’ Dieci, inteso il caso, avevono preso tutta la roba mia et alla Smeralda dati ducati dugento e mandata al padre. Tutto il resto avevono messo in sul monte di S. Marco e me avevono confinato in questo luogo per anni dieci e, quando non osservassi, tutti li miei beni diventassino di messer Achille. Et io voglio osservare acciò che lui non goda le mie fatiche, che ho d’entrata in su S. Marco ducento ducati l’anno. E già ho passati quattro anni di confino più dolcemente ho potuto, e così spero fare il resto ».

 

Iudicai per le parole del libraro che lui della donna e di messer <Achille> sanza crudeltà si fussi vendicato. E perché, come dissi di sopra, l’oste mi pareva buon compagno, mi lasciai consigliare a lui dove dovevo andare la sera et a che oste. E così partendomi dal libraro e da esso, e cavalcando sempre lungo l’Adice, arrivai a Rovereto, castello de’ Veniziani, e scavalcai a una osteria nel borgo verso Trento.

L’oste mi ricevé volentieri e, mentre che li cavalli s’assettavano, mi disse: « Uomo da bene, tu m’arai escusato se io non ti tratterò come sono solito trattare li altri pari tuoi. E’ forestieri solevano alloggiare meglio in questa osteria che in altra che fussi di qua a Roma; ma ti voglio dire la causa perché la casa, come vedi, in gran parte è guasta e le masserizie sono sute tolte et ogni cosa è ito in ruina. Tu debbi sapere che non sono ancora dua mesi che il re di Francia molto gagliardamente espugnò Genova. Questa sì gran vittoria dette che pensare a’ nostri Signori [20v] Veniziani temendo  che il Re, succedendoli le cose sì prospere, non procedessi e contro a loro e contro a tutta Italia; et iudicorno fussi bene metterli qualche sospetto dell’Imperatore. E perché si credessi che lui dovessi fare presto la impresa d’Italia, feciono venire insino qui cinquecento fanti tedeschi, benché dessino voce di mille; e se bene si diceva che lo Imperatore gli pagava, in fatto credo gli pagassino loro. E li alloggiorono tutti fuori del castello in questo borgo, et in questa casa, che è qui a canto, alloggiò il capo d’essi chiamato messer Giorgio da Nuistat.

Questo messer Giorgio, mentre veniva in qua con la sua compagnia, si fermò un giorno a Sterzing, luogo lontano di qua quattro giornate, dove, andando in là, potrai passare. Et a caso alloggiò in una osteria dove era una bella figlia, detta Magdalena, sorella carnale, o vero cugina dell’oste, la quale li piacque oltre a modo. Et adoperò tanto con l’oste e con minacci e con prieghi e con promesse e danari, che lui fu contento ne la menassi. Et a mezza notte la prese contra sua voglia, e la condusse qui. Di questa Magdalena era innamorato uno giovanetto, gentiluomo del contado di Tirolo, chiamato messer Arrigo da Serantaner, e, per l’amore gli portava, aveva preso casa nel borgo di Sterzing e quivi consumava tutta la sua entrata che non era poca. E la fanciulla era innamorata di lui et attendevono, più celatamente [21r] era possibile, a darsi buon tempo.

La mattina s’intese pel borgo come la Magdalena era suta menata via da messer Giorgio e ciascuno ne fu dolente, ma massime messer Arrigo il quale rimase tutto attonito e come insensato. Ma aveva tra li altri servitori uno chiamato Gaspar il quale molto l’amava e sapeva tutto questo amore della Magdalena. Il quale, vedendo il padrone in tanta mestizia, gli disse: " Padrone, io voglio andar drieto alla Magdalena et intra pochi giorni la ritroverrò e te ne darò notizia; e troveren modo che goderai più con lei che abbi fatto ancora. Attendi pure a ragunare danari per possere vivere uno anno fuori, se bisognassi ". E da lui si partì e si misse drieto a messer Giorgio e si condusse qui come lui.

Messer Giorgio era il più contento uomo del mondo e, toccando buon soldo et avendo la dama bella, attendeva a fare buona cera e si sforzava tenerla contenta quanto poteva, ancora che non fussi possibile farla dimenticare l’amore di messer Arrigo.

Gaspar ne venne di tratto a questa osteria, nella quale il podestà non aveva voluto entrassi fanti perché in essa si potessi ricettare chi andava e veniva, e cominciò a pigliar pratica con messer Giorgio e fece in modo che, avendo bisogno d’un servitore, prese lui. Et essendo venuto in parte a quello desiderava, lo serviva tanto bene che, in pochi dì, messer Giorgio gli pose tanto amore, che gli commisse la guardia della Magdalena. La quale, [21v] ancora che da principio l’avessi conosciuto, finse non lo aver mai visto insino che secretamente gli potette dire la sua voluntà. Allora Gaspar trovò un mercante che conosceva messer Arrigo e gli dette una lettera gli portassi, per la quale gli significava come avea ritrovato la Magdalena et accónciosi con messer Giorgio, e che subito qui ne venissi con quella compagnia iudicassi a proposito, e scavalcassi in questa osteria, e si facessi dare una camera su alta, tra la quale e quella dove stava la innamorata era a punto un muro di stuoia ricoperto di calcina. Messer Arrigo, avuto la lettera, prese quelli danari che potette e con tre servidori qua se ne venne e seguitò l’ordine di Gaspar.

El quale, come seppe era giunto, ascosamente gli venne a parlare e li disse come aveva a fare a trovarsi con la Magdalena: e che di notte non v’era modo, perché dormiva del continuo con messer Giorgio, ma il dì, quando andava fuori, lasciava lui alla guardia d’essa o un piccolo ragazzo; e che romperebbe il tavolato della stufa dove essa stava il dì (ché come puoi vedere la più parte delle stufe sono soppannate d’asse) e vi farebbe uno piccoletto uscio; e che, fatto questo, sarebbe facile rompere il muro di stuoia; e che per quella rottura la Magdalena verrebbe nell’osteria mia in camera di messer Arrigo; e che solo bisognava avere avvertenzia di tenere uno alla finestra, quando [22r] lei era seco, che vedessi se messer Giorgio tornassi in casa (el quale non poteva tornare che per una porta, perché più non ne aveva la casa) e subito lo dicessi alla Magdalena, acciò si potessi ritornare nella stufa.

Piacque il modo a messer Arrigo e così alla fanciulla. E la mattina sequente colorirno il disegno e si dettono un gra<n> pezzo piacere insieme, mentre messer Giorgio era pel castello; el quale usava sempre la mattina stare tre ore fuori di casa per udir messa e fare essercizio. E quando tornava, il famiglio ch’era alla finestra lo vidde e subito corse a dirlo, e lei si tornò nella stufa. Questa maniera tennono circa otto giorni continui.

Ma occorse una mattina che il ragazzo, che la Magdalena serviva, avendo persa una palla, ne venne a cercare nell’osteria. E salito di sopra, entrò in quella camera dove era la Magdalena con messer Arrigo, la quale stava aperta perché nessuno, se non della sua famiglia, era solito salire le scale. E vidde la Magdalena e messer Arrigo insieme sollazzarsi. E, pianamente tornato adrieto e scese le scale, ne venne a Gaspar che si stava a sedere in su la porta di messer Giorgio, e li disse: " Gaspar, noi siamo spacciati, perché sai che il patrone nostro ci ha commesso la guardia della Magdalena e quanto lui l’ama. Et io l’ho vista al presente qui nell’osteria con un giovane. Messer Giorgio lo intenderà e non credo gli basti torci la vita ".

A Gaspar parve male che il fanciullo l’avessi vista, pure faccendo buon cuore, li disse che nol credeva perché non era possibile, [22v] ché aveva tutta mattina guardato la porta e mai l’aveva vista uscire fuori, ma che quella doveva essere qualche altra femmina di partito, e che lui non doveva dar carico alla padrona, e che farebbe ruinare lei e loro, ma che se ne voleva chiarire. E però che guardassi bene la porta che essa non potessi tornare, e che andrebbe su nella stufa a vedere se lei vi fussi e, se non vi fussi, piglierebbe qualche partito alla loro salvazione. Et andato di sopra, chiamò la Magdalena e gli contò il caso e li disse che nella stufa si ponessi a cucire. E, tornato da basso, trovando il fanciullo li disse: " Non sapevo io che tu avevi beuto a buona ora e non sapevi quello dicevi! Hàila tu vista uscire per questa porta ? "

" Non io ": disse il ragazzo.

" Ècci altra porta alla casa? "

Il fanciullo disse di no: che messer Giorgio n’aveva molto bene fatto guardare.

"Or va’ di sopra e troverrai la Magdalena nella stufa che cuce".

El fanciullo andò e, trovandola, stette stupefatto. Et ella cominciò a gridare seco e dirli che era un ribaldello e che la voleva mettere in sospetto a messer Giorgio. Il ragazzo, temendo, gli chiese perdono e la cosa per allora si posò.

Né passorno dua giorni che, sendo di nuovo una mattina la Magdalena con l’amante e dua fanti di messer Giorgio avendo fatto quistione e feritisi et uno sendo rifuggito qua nell’osteria, messer Giorgio infuriato lo seguitò. E salì presto le scale in modo che vidde una fanciulla in una camera, [23r] che era la Magdalena, ma per l’ira non la scorse bene. Pure dubitò non fussi essa e volle, avanti facessi altro romore, chiarirsi se era in casa e con gran furia scese le scale. La Magdalena, che di questo subito s’accorse, presto nella stufa tornò. Et era a punto posta a sedere, quando messer Giorgio, quasi fuor del senso, giunse e, trovatola, fu tutto riconsolato e stimò avere errato.

Messer Arrigo, avendo avute tante paure, dubitò una volta non avere il danno. E però, consigliatosi con Gaspar, fece venire da Igne, sopra Trento, uno fodero di legname che qua chiamiamo zatta, in su la quale s’usa andare giù per l’Adice. Et una mattina, con la figlia e Gaspar et altri suoi servitori, vi montò su e vi condusse ancora e’ cavalli, e tutte le altre sue robe. Il fiume è veloce in modo che, avanti che messer Giorgio sapessi niente, la zatta era lontana miglia venti. Il quale, tornato in casa, né ritrovando la Magdalena né Gaspar, e riscontrando col ragazzo e seco medesimo quello aveva visto, stimò quello era suto: che lei con messer Arrigo fussi fuggita e subito nella mia osteria corse. Io, vedendolo venire con tanto impeto, per una porta di rietro mi fuggi’. Lui allora quasi tutte le miglior cose dell’osteria rubò e poi vi messe fuoco; ma da’ vicini fu fatto tanto concorso a spegnerlo che poco ne potette ardere, ma tutta affummò come vedi. Et a ogni parola diceva che sopra me si voleva vendicare, [23v] che allo inganno avevo tenuto mano. Et era vero che io della pratica m’ero accorto. Ma, pagandomi messer Arrigo bene, tacevo, né ero tenuto a fare altrimenti. In effetto la roba mia e parte della casa andò male. E messer Giorgio, avendo licenziato la compagnia, con quattro servitori si misse a seguire la Magdalena. Quello che tra loro sia successo non ho poi inteso, perché non è ancora otto giorni che messer Giorgio partì ».

L’oste mi disse questa novella, et io la credetti, perché con la esperienzia conobbi nell’osteria non esser cosa alcuna: mangiai male e dormì’ peggio e, non che letto, non vi trovai una tavola da distendermi, ma, essendo gran caldo, passai la notte il meglio potetti.

 

E seguendo la mattina il cammino, giunsi a tre ore a Trento, la quale è piccola città posta in sull’Adice, ma molto abundante perché, ancora che sia tra monti, ha tra essi qualche miglio di piano che produce assai grano e vino; e nelli monti sta il bestiame. Signore della città, et in temporale e spirituale, è il Vescovo; e lui piglia l’entrate delle gabelle e d’ogni altra cosa. Lo Imperatore, come duca d’Austria e conte di Tirolo, vi mette un capitano, el quale tiene le chiavi delle porte e fa eleggere al capitolo de’ canonici il vescovo, come pare a lui, perché sempre lo vuole confidente, perché il luogo è di grande importanzia in sul confine d’Italia et Alamagna, benché sia posto in Italia: [24r] perché il fiume  del Lavis, di là da Trento cinque miglia, divide l’Italia d’Alamagna, secondo dicono quelli del paese. La città non è forte né di mura né di sito, et è circumdata da monti alti, de’ quali chi fussi signore presto diventerebbe patrone della città.

Arrivai, come ho detto, a Trento a buona ora e tutto il giorno mi fermai: e però fermerò ancora un poco la penna ponendo fine al primo libro.

 

 

LIBRO SECONDO

 

Avevo al primo libro di questo mio cammino posto fine e lasciatolo a una nostra villa, detta Cepperello, dove trovandomi l’avevo scritto. Arrivò quivi a caso insieme con Pagolo, mio fratello, uno che, a suo iudicio proprio, è letterato; e gli vennono alle mani questi miei scritti. E stato qualche giorno tra quivi e Siena, se ne tornò in Firenze. E trovandomi disse che stava ammirato che io perdessi il tempo a scrivere cose frivole, novelle e favole, e che lui l’aveva lette e si pentiva aver perso quel tempo, né dannava il modo dello scrivere, ma la materia. Io li risposi poco, perché era uomo di sua oppenione e da non volere cedere alle ragione. E li dissi che l’avevo scritte per satisfare a me medesimo e non a lui, e che ciascuno ha sua fantasia e dove l’applica gli pare bene applicata. E finì’ con lui il mio parlare.

Ho dipoi meco medesimo considerato quanta servitù li uomini, da loro [24v] medesimi, s’imponghino. Et avendo respetto al parlare di questo e quello, spesso si ritenghino da scrivere quello s’hanno proposto. Perché qual materia o quale spezie di scrittori è che non si potessi biasimare? E’ teologi sono e’ primi nella nostra religione che hanno fatto e fanno tutto dì tanti libri, tante dispute, tanti silogismi, tante suttilità, che ne son piene non solo le librerie, ma tutte le boteghe de’ librari. Nondimeno il Salvatore Nostro Jesu Cristo dice nello Evangelio: « Amerai il tuo Signore Iddio con tutto il cuore tuo, con tutta la mente tua e con tutta l’anima tua, et il prossimo come te medesimo ». In questi dua precetti pendono tutte le leggi e’ profeti. Che bisogna, dunque, tante dispute della Incarnazione, della Trinità, della Resurrezione, della Eucaristia, cose che noi cristiani per fede dobbiamo credere e credendo meritiamo e le ragioni non v’aggiungono? Danneremo noi, però, per questo tanti santi dottori, tanti valenti uomini acuti e dotti, per avere questa suttilità seguito e scritto? Non certo, ma diremo che a buon fine l’hanno fatto e che avevano questa inclinazione.

Nel secondo luogo sono e’ filosofi che hanno la lor dottrina divisa in naturale e morale. In ogni parte di queste, quante cose vane dichino, quante false, quante frivole, lascio indicare a chi li legge e ne ha più iudicio non ho io. Che diremo de’ iureconsulti di tanti comenti, consigli, parafi, allegazione, cose tutte contra il decreto di Iustiniano che fece mettere le legge insieme e proibì non si potessino comentare? Sono dipoi li oratori e’ quali [25r] con il lenocinio della lingua e’ miseri popoli, la ignorante plebe seducano, faccendo, con il loro ornato parlare, il falso apparere vero et il vero falso.

E’ poeti, che secondo Orazio e giovano e dilettono, che scrivono altro che finzioni e favole? E pure sono in tanta essistimazione. Sonci dipoi certi scrittori che si possono chiamare di titolo ambiguo come Plinio, Aulo Gellio, Macrobio, Apuleio e, de’ nuovi, il Poliziano, il Pontano, il Crinito, e’ quali, chi leggerà, troverrà pieni di dottrina, ma con essa ammiste molte cose debole e false e basse. Nondimeno sono letti volentieri et approvati.

Sono in ultimo gli storici, e’ quali certamente sono da lodare perché danno notizia del passato, acciò che li uomini possino vedere per quelli essempli come s’hanno a reggere e governare. Ma quante cose false, quante per blandire et adulare li uomini grandi sono scritte! E di questo possiamo fare coniettura perché vediamo quelli che hanno scritto istoria ne’ nostri tempi quanto dalla passione, negligenzia et adulazione sieno stati tratti fuori del retto tramite. E però possiamo credere che il simile facessino li antiqui perché erono uomini.

Vedendo, adunque, in ogni qualità di scrivere li uomini esser ripresi, e pure seguire quello hanno ordinato né temere le vane voce, farò ancora io il medesimo. E se alcuno dicessi [25v] che con  queste novelle d’amore si dà malo essemplo e s’insegna a chi non sa, risponderei che, se questa ragione tenessi, sarebbe da fuggire il leggere come un venenoso serpe, perché sono pochissimi libri d’onde non si possino trarre mali essempli. La Bibbia non è ella tutta piena di storie lascive? Nel Libro de’ Re non vi sono innamoramenti, fornicazione, adulterii, fraude, rapine, occisioni? Nondimeno si mette in mano insino alle tenere fanciulle. Le cose mal fatte non lodo nelli miei scritti, ma le danno; e con essi li uomini si potranno guardare di non incorrere ne’ medesimi lacci, che sono incorsi quelli di chi scrivo. E però, sanza più lunga escusazione, seguirò il mio cammino.

 

Havevo lasciato come a dì 4 di luglio arrivai a Trento in sabato; e vi stetti tutto il giorno. E come accadeva in quelli tempi che si diceva che lo Imperatore voleva passare in Italia, li uomini erono molto curiosi investigatori chi passassi in Alamagna. Per questo vennono a me il giorno molti lombardi, che erono in Trento, per sapere chi fussi o dove andassi. Tra li altri vi venne un prete fiorentino, chiamato prete Tommasso, il quale per altri tempi avevo conosciuto. E li feci grata accoglienza e più d’una ora stetti con lui a ragionare di varie cose. Quando fu partito, che era tardi, l’oste, che m’aveva veduto parlare a lungo e solo con lui, mi domandò se io conoscevo ben questo prete. Io li risposi averlo già visto in Firenze e che m’aveva detto essere [26r] allora in Trento per certe sue faccende di benefici.

A che lui disse: « Questo prete è stato in questa terra circa dua anni e guadagna la sua vita col dire messa. E poi che è qui, ha tramutato dieci o dodici case perché si diletta sempre seminare scandoli, in modo che li uomini di questa terra ancora che nel principio lo ritenghino volentieri, come hanno cominciato a conoscere e’ suoi costumi, presto se lo lievono da torno. E non è molto li fu fatto da uno uomo da bene un tristo scherzo.

Chiamasi costui messer Giovanni della Val di Sole, il quale aveva in casa la madre et una sorella d’età d’anni quaranta, rimasta vedova, in sulla dota della quale messer Giovanni, per avere avuto mala sorte, s’era ridotto a vivere. Prete Tommasso cominciò a pigliare pratica seco e s’accordò di tornare in casa sua e pagarli il mese fiorini tre di Reno. E messer Giovanni li consegnò una buona camera et onoravalo quanto poteva. Ma prete Tommasso, non potendo lasciare il suo abito di commettere male et iudicando non potere far nascere scandolo intra la madre et il figliolo, deliberò tentare se tra la sorella et il fratello poteva mettere zizania.

Et accortosi che messer Giovanni viveva in sulla roba della sorella, propose a quella di volerli dare marito, col dirli che era troppo giovane a star vedova, e che era sì ricca e di tal parentado da trovare ogni gentiluomo, e che quivi consumava la roba sua sanza onore, e che il fratello se la godeva. La donna, che era savia et amava [26v] assai il fratello, poche parole gli rispose. Et avendo deliberato star vedova, gli venne in odio il prete, considerando la sua grande ingratitudine e pessima natura, e riferì tutto al fratello, el quale deliberò vendicarsene.

E pensando al modo, li occorse di menarlo una sera a una sua villa, la quale è in su una isoletta che fa l’Adice, dove non è altra abitazione che la sua. E condotto quivi il prete del mese di gennaio in una barchetta, un dì che era bel tempo e quieto, ma freddo grandissimo, e quivi cenato e dipoi andati a dormire, a mezzanotte ordinò fussi fatto gran romore in una loggia che era avanti alla camera. Per il quale desti, messer Giovanni pregò il prete che aprissi l’uscio e vedessi che cosa fussi. Il prete corse là in camicia, e messer Giovanni subito gli serrò l’uscio a dosso, e lo lasciò così in camicia nella loggia che era in sull’Adice. E per non sentire più la notte il suo chiamare o ramarico, vestitosi rimontò in sulla barca e se ne venne a Trento. Il prete tutta la notte e dipoi il dì sequente in camicia stette sotto la loggia, insino che vi passò un fodero che veniva d’Igne, in modo che era già pel freddo mezzo morto. E però alli uomini v’erono su ne increbbe e, levatolo di quivi, lo recorono in Trento allo spedale, dove penò dua mesi a riaversi; et in parte fu gastigato dell’errore commesso dalla sua maladetta lingua.

 

Stetti la notte in Trento e la mattina cavalcai per tempo. E mi bisognò andare a desinare [27r] a uno luogo detto Monti, distante da Trento ben quattro miglia, che sono venti delle nostre, perché vi erono molti luoghi vessati di peste. Raggiunsomi la mattina pel cammino dua gentiluomini, che ancor loro andavano dallo Imperatore: l’uno era mandato dalla donna che fu del re Federigo di Napoli, el quale aveva nome messer Luca Buonfini; l’altro, che si chiamava Borso da Mantova, andava per commissione delli signori Lodovico e Federigo da Bozzole, che sono di casa Gonzaga.

Accompagnammoci insieme e ci posammo per desinare all’osteria sopradetta, la quale era presso all’Adice e nuova e pulita; ma in quella non trovammo altri che una fanciulletta d’anni quattordici. E, volendo desinare, non potemmo avere altro che uova sode ancora che fussi domenica; il vino era assai buono. E noi mangiavammo fuori al fresco sotto una pergola di melo, come s’usa in Alamagna, quando giunse quivi el cavaliere del capitano di Trento che andava uccellando et, ancorché fussi tedesco, parlava molto bene italiano. Dolemmoci con lui che il primo alloggiamento che avammo fatto in terra tedesca c’era riuscito assai cattivo.

Lui disse: « Non vi maravigliate di questo, perché l’oste qui suole tenere chi va a torno molto bene, ma li è accaduto a questi giorni uno infortunio per il quale è suto necessario partirsi di qui con la famiglia, altrimenti saria capitato male. Lui ha nome mastro Antonio da Tremino. [27v] E sono quattro fratelli di detto luogo, divisi l’uno dall’altro, e stanno assai commodamente di roba. Detto mastro Antonio aveva dato moglie a un suo figliuolo una da Bolgiano, la quale è così bella cosa quanto abbi questa valle. Et il marito, benché sia giovane, è brutto e disadatto in modo che ella gli portava poco amore. Capitava qui spesso un nipote di mastro Antonio, detto Clemente, giovane pulito e bello, el quale cominciò a porre amore alla fanciulla che si chiamava Apollonia. Et in effetto s’innamororono l’uno dell’altro. E, non trovando modo come potessino essere insieme, rimasono che martedì passato, che era il dì di s. Pietro, l’Apollonia fingessi d’aver male per non andare alla festa a Marano dove il marito andrebbe da sé, e che Clemente venissi la notte e con una scala salissi alla sua finestra, e che quivi starebbono tanto insieme quanto volessino, ché altra via non v’era perché il marito, che n’era geloso, sempre, quando si partiva, la serrava in camera colla chiave.

Piacque a Clemente l’ordine, e venuta la notte del martedì con una scala s’accostò a questa casa e posela alla finestra della camera e, per essa salito, se n’entrò in camera con l’Apollonia. Accadde a punto che certi del paese che passavano, veduta la scala in quel luogo, dubitando non vi fussi stata posta per rubare, la levorono e la prostesono in terra. Clemente, quando fu stato tanto che iudicava il giorno esser vicino, se n’andò alla [28r] finestra per partirsi e, veduto non v’essere la scala, fu malissimo contento. Et essaminato intra sé diversi partiti, sendo giovane e gagliardo, pensò saltare a terra della finestra che altro modo non vedeva a salvare la vita sua e l’onore della Apollonia. E, saltando, male gnene colse perché, sendo la finestra alta braccia dodici e giugnendo giù in sulla scala che era suta posta in terra, tutto si rovinò in modo che la mattina a buona ora fu trovato morto. El romore fu grande. E stimorono e’ parenti che lui fussi venuto con la scala per salire alla finestra e che, trovandolo, mastro Antonio et il figliuolo l’avessino morto: perché l’Apollonia, accortasi del miserando caso di Clemente, subito aveva la finestra stangata e confitta.

Clemente era molto amato, di qualità che si congregorono assai uomini del castello di Tremino per venire assaltare mastro Antonio. E lui, sendo avvisato, si partì con tutta la sua brigata e si ritirò nel castello di Tirolo.

Et io, oltre all’uccellare, passavo oggi qui per vedere se potevo fare qualche composizione. E però voi non vi maravigliate se non siete stati trattati come vi si conveniva ».

 

Noi stemmo poco, dopo le parole del cavaliere, a montare a cavallo e la sera ci fermammo a un borgo detto Erce assai buono. L’osteria bene assettata e per ostessa trovammo una gentil fanciulla. Ponemmoci a cena [28v] Luca, Borso et io e, secondo me, fummo trattati bene.

Né a pena avammo la cena finita che venne il famiglio di Borso con un maniscalco del borgo e disse al padrone che avea fatto mettere un ferro nuovo al cavallo e che dessi al maestro quattro crazie. Questo Borso era il più iracundo uomo che io praticassi mai e, se bene faceva al presente l’essercizio di mandatario e tramatore, diceva essere stato soldato e tagliava e’ nugoli. Et, udito quello gli diceva il famiglio, né avvertendo che era vicino a Italia a una giornata e che quivi intendevono tutti italiano come lui, cominciò a saltare e bestemmiare divotamente, con dire che amazzerebbe e taglierebbe e che aveva a essere l’utriaca de’ tedeschi. E sempre aveva la mano in sulla spada, in modo che il maniscalco e certi altri che v’erono, rispondendo certe poche parole in lor lingua, si partirono.

Borso rimase sempre sbuffando e diceva al famiglio che non voleva gittare e’ danari, e che bisognava monstrare il viso alli uomini come avea fatto lui. E, stando in su queste parole, udimmo per la villa suoni di tamburo. Io pensai lo facessino per festa, sendo domenica, ma presto comparsono nella stanza, dove eravammo, circa cento fanti, armati come se avessino a combattere con corsaletti, alabarde e scoppietti. Et uno se n’accostò a me e mi disse non dubitassi. Messer Luca et io, paurosi, aspettavammo

il fine di questa cosa. Borso [29r] era diventato tutto palido e tremante: e così lo presono e con grida e tumulto lo menorno, dicendo volerlo dare nelle mani del capitano di Tirolo, perché aveva bestemmiato Cristo.

Io, veduto questo, feci dire all’oste per un tedesco avevo meco, che Borso era uomo nobile mandato all’Imperatore dal marchese di Mantova per faccende importante, e che non si poteva negare non fussi un poco collerico, ma che guardassino che l’Imperatore non avessi per male quello avevon fatto, e che chi era mandato a lui, esso lo poteva gastigare, e non era conveniente fussi gastigato da’ popoli.

L’oste, udito il mio tedesco, andò a parlare alli altri del borgo. Et in effetto, la notte, Borso stette in prigione. La mattina lo rendorono, dicendo che lo concedevono a noi. Né so se questo atto fece rimutare Borso perché io, iudicandolo uomo da non potere conversare seco, mi partì’ la mattina sanza aspettarli e mi posai a Marano, che è un borgo come un grosso castello.

L’oste mi tenne bene e, nelli più de’ luoghi buoni d’Alamagna, quelli che fanno osteria sono ricchi in modo possono trattare bene chi va a torno.

 

Dopo mangiare, capitò nell’osteria uno ciurmatore e giucolatore di bagatelle et aveva gran seguito di gente. E, se bene parlava italiano, adoperava più le mani che la lingua, di sorte che ragunò, con questa sua articella, qualche somma di crazie. Quello facessi non dico, perché [29v] noi altri siamo tanto usi a vedere simil cose che scriverle saria superfluo. Né avea in tutto finito di raccorre e’ danari e rassettare le sue bagatelle, che sopragiunsono quivi forse dodici famigli e con furia lo legorno e menoronlo. Domandai l’oste della causa. Dissemi:

« Tu cavalcherai per Alamagna e troverrà’la piena di danari, il contrario di quello che voi credete in Italia. E questo interviene perché noi Alamanni abbiamo gran considerazione di curare che del paese non eschino danari per conto alcuno. Costui era qui e con questi modi li portava via, et ancora che fussino pochi, venne a notizia al borgomastro e vi ha provisto in questo modo. E sommi già trovato in Augusta che vi era lo Imperatore, e con la Imperatrice essere uno Lombardo che guardava la mano e prediceva la sorte di questo e quello, e guadagnava qualcosa, et essere venuto tal cosa a notizia al borgomastro e consiglieri della città, e subito aver pregato lo Imperatore lo levassi via, et averlo levato ».

 

Il giorno, dopo mangiare, cavalcai lungo un fiumicello e mi fermai la sera a una villa in gran parte ruinata, chiamata Orchen. Lo Imperatore, non molto avanti, aveva avuto guerra co’ Svizzeri, e loro, scesi, avevano guasto circa dua giornate di paese, dove avevo a cavalcare. E tutto si trovava arso e rovinato, pure si cominciava a rassettare. Alloggiai con uno oste ricco di bestiame e praterie, ma la casa era tutta di legname [30r] e, perché era a canto al monte, l’acqua per tutto si conduceva insino presso al tetto. E per farmi più onore, mi fece cenare in su uno tavolato alto forse dieci braccia da terra che era avanti a una camera; et in su esso veniva una doccia d’acqua. Il vino era buono, et i cibi non erono tristi. Ma non avevo ancora mezzo cenato, che il tavolato ruinò e tutti noi che in su quello ci trovammo. Né io né alcuno delli miei sentimmo nocumento alcuno, perché cademmo avanti la stalla, dove era il letame alto un braccio. L’oste, non so come, si ruppe la gamba, credo per esser grasso e vecchio, in modo che, la notte, poco si poté dormire ché del continuo si senti romore per casa che faceva lui e quelli che lo medicavono.

La mattina cavalcai, trovando sempre paese guasto da’ Svizzeri, e mi posai a una villetta detta Crust. E fu’ forzato, per non trovare altro, stare in una osteria tutta fracassata che aveva solo rassettata e fatto quasi di nuovo la stalla: il resto era come essere allo scoperto. Eravi una ostessa di forse anni cinquanta, ma piacevole et allegra, e, secondo il luogo, ci trattò bene. Dopo mangiare lei faceva una gran gargagliata con uno tedesco avevo meco. Volli intendere quello diceva. Lui mi disse che, per la guerra fatta in quel paese da’ Svizzeri, lei aveva marito e tre figliuoli e’ quali, quando e’ Svizzeri arrivorno qui, erono malati di peste in modo non si potettono né aiutare né partire e da loro furono morti, e la casa messa a sacco et in parte arsa. Ella, [30v] veduto questo e considerando che li nimici dovevono stare qui qualche giorno, deliberò, se bene dovessi morire, vendicare tanta iniuria. E, per potere mettere ad effetto tal pensiero, finse esser matta e cantava e saltava e rideva e faceva cose tutte contrarie a una afflizione nella quale si doveva trovare.

Era alloggiato in questa casa uno svizzero con tutta la sua famiglia, che aveva sei figliuoli tra maschi e femmine, e la donna. E tutti li avea condotti qui per fare allegrezza e traevonsi piacere di questa donna sbeffandola. E lei faceva il pazzo al possibile né li avevono li occhi alle mani, ma la lasciavono andare e stare dove ella voleva. Cominciava a venire il verno e però tutta la brigata del svizzero si riduceva nella stufa che dal fuoco aveva patito manco, in modo che essa, una notte, sotto questa stufa condusse gran quantità di legne e dua bariglioni di polvere, la quale loro tenevono in su questa piazza in su un carro, rispetto al fuoco. E così, ordinato tutto, in su la mezzanotte, quando ciascuno dormiva, messe fuoco nelle legne e nella polvere. La stufa era di legname, le legne secche, la polvere faceva romore di qualità che vidde ardere la casa, il svizzero e tutta la sua famiglia. E così vendicata, si fuggì in un bosco qui vicino e vi stette tanto che li altri svizzeri si partirono. Et al presente è ridotta qui, et ha qualche bestia e praterie, ma non ha che un piccolo nipotino, che in quel tempo non era in questo borgo.

 

Io, come ebbi mangiato, mi partì’ subito perché il luogo arso monstrava maninconia. [31r] Et il paese dove avevo a cavalcare era assai fresco, perché cominciavo a salire il monte, il quale, se bene è grande, non è dificile, perché in Alamagna le strade sono molto bene assettate, e per tutto vanno li carri. La sera alloggiai a Nait, a piè del monte et, ancora che fussi di luglio, mi ridussi volentieri nella stufa calda. Nella medesima osteria erano la sera certi carrettoni che venivono d’Italia con mercantie. E con loro era un mercante bergamasco che era suto alla fiera di Marano con esse e, non l’avendo potute finire quivi, le voleva condurre a Lindo.

Questo mercante aveva anni sessanta et era piccolo e brutto: nondimeno, vedendo quivi, la sera, una fanciulletta dell’oste, piacevole che parlava italiano, gli piacque tanto che non si poteva saziare di guardarla. E considerò che lei quando andò a dormire entrò nella stufa allato alla camera dove dormiva lui e gli parve che l’uscio stessi aperto. E quando credette che per ogni uomo si dormissi, uscì di camera e così a tasto n’andò all’uscio della stufa perché, rispetto al fuoco, nelle case d’Alamagna la notte non stanno lumi accesi e, trovatolo serrato, stimò aver preso errore. Era presso a quello uno uscio ch’entrava in su uno palchetto dove era il necessario, che riusciva in su un fiume grosso e veloce. Il bergamasco, trovando questo aperto, entrò drento. Il cielo era oscuro, il palchetto sanza sponde, in modo che nel fiume rovinò e, nel cadere, cominciò a gridare. Quelli ch’erono nell’osteria subito si levorno e stettono alquanto [31v] avanti che del caso s’accor  gessino. Pure, sentendo le grida, corsono al fiume e trovorno il misero bergamasco che notava e s’aiutava quanto poteva, ma non bastava contro all’impeto del fiume, fatto grosso per le nevi che si struggevono ne’ monti. Alfine con fune gli gettorono, lo riebbono, ma in modo assiderato che non si poteva muovere.

Io, avendo avuto e l’altra notte e questa piena di romori, avevo poco dormito; e dormì’ la mattina più che il solito perché, avendo a cavalcare per luoghi freddi, non importava il cavalcare tutto il giorno. Posà’mi a desinare a un castellato detto Cozer allato a un fiume. Volevo a punto cominciare a mangiare, quando per il castello si levò gran romore e ciascuno fuggiva. Stetti un pezzo avanti potessi sapere che fussi; pure poi intesi che fuggivano perché il fiume cresceva rispetto alla neve che sì struggeva, e che era necessario ritirarsi ne’ luoghi alti per non annegare. E già e’ miei cavalli erono con l’acqua al corpo nella stalla; fecili cavare, e con gran fatica in su un monte vicino mi ridussi. E bisognò passare il fiume in su tavole messe allora quivi per fuggire tal pericolo. Stetti la mattina sanza mangiare e, per via strana e non usata, con gran circuito di miglia, la sera arrivai a Landec dove il fiume ha il ponte, et è luogo alto da non temer l’acqua.

 

Nella medesima osteria dove ero io, alloggiorono la sera quattro fanti tedeschi che dicevono [32r] venire d’Italia. E tra essi era uno che aveva molto bene la lingua italica e diceva essere stato più anni col duca Valentino per staffiere; e lodavalo in molte cose come dell’essere non che liberale, ma prodigo, ardito ne’ pericoli, bel parlatore; ma diceva che era gran mancatone di fede, e che non aveva uomo appresso di sé che lui amassi. E soggiunse:

« Io ti voglio narrare quello intesi, non è molto, da uno spagnuolo suto trinciante del cardinale Borgia. Questo Cardinale fu mandato legato a Milano da papa Alessandro, quando il duca Lodovico era per perdere lo stato. E giunse che l’aveva già perduto e n’erono signori e’ Franzesi. E perché lui era uomo molto leggieri, e del quale el Papa, ancora che li fussi nipote, poco confidava, mandò seco il vescovo di Setta, uomo prudente, al quale commisse che avessi cura alle azioni del Cardinale e le correggessi, bisognando. In modo che il Cardinale, accortosi di questo, portava al Vescovo odio grandissimo.

Giunti a Milano, trovorono il duca Valentino col Re. Il quale Duca faceva tante dimonstrazioni d’amore verso Setta, che non si potrebbe dire più. E questo accrebbe ancora l’odio del Cardinale verso il Vescovo e, traportato da quello, pensava di farlo morire. E chiamato un giorno questo suo trinciante, gli dette un cartoccetto di polvere bianca che era veneno e li ordinò lo mettessi in sulla vivanda del Vescovo. Il trinciante, se bene stimava assai il padrone, vedendo il Vescovo in tanta grazia del Duca, deliberò referire tutto a detto Duca [32v] forse per paura d’esso e forse stimando esserne di meglio. Il Duca stette a udire quello che il trinciante li disse e niente altro li rispose se non che dessi il veneno a l’uno e l’altro. Il che avendo udito il trinciante et iudicando gran pericolo per sé a non essequire il comandamento del Duca, messe detta polvere in sul cibo che avevono a mangiare il Cardinale et il Vescovo. E fu di sorta che il Vescovo in cinque giorni morì. Il Legato, avendo a ire a Roma per faccende, cavalcò in poste e per il cammino s’ammalò et a Urbino morì. Il trinciante non ne fu di meglio altro se non che ebbe qualche spoglio del Cardinale in su che è vivuto poi a Roma dolcemente. Né io presi ammirazione che il Duca facessi dare il veneno al Cardinale, perché si sforzava privare di vita qualunque fussi grato al Papa, ma mi dette che pensare assai che volessi far morire Setta nel quale pareva avessi tutta la sua fede. Et io lo so benissimo che allora ero a Milano seco; né passava mai notte che non stessino insieme a parlare insino appresso al giorno e, come avea a diterminare cosa grave, faceva chiamare il Vescovo. Et avendolo trattato così, si può dire esser vero quello dissi di sopra che lui non amava uomo alcuno e che tutti li servitori et amici ingannava, quando gli veniva a proposito ».

 

Stetti la sera a Lundec, e la mattina poi andai a desinare a una osterietta a piè della montagna di San Niccolò dal lato di qua, dove trovai dua giovanetti da Marano che andavono a Constanzia. L’uno di loro era calzolaro, l’altro non [33r] aveva arte alcuna e dolevasi assai. Et io lo intendevo perché alle volte diceva qualche parola latina e, non avendo io altro che fare, lo domandai donde venissino tante sue querele.

Risposemi che si lamentava con ragione perché, sendo stato lasciato ricco, era constretto andar quasi mendicando, e che suo padre faceva la principale osteria di Marano, et aveva, tra case possessione e bestiame et altro, tanto che ascendeva alla somma di fiorini dodicimila di Reno o più, e che quando morì lasciò la donna e cinque figli maschi et una femmina, e lui era il maggiore di tutti, e che avevono certi statuti che provedevono che la moglie erediti la metà de’ beni del marito, in modo che alla madre rimase più che fiorini seimila di Reno. E restando governatrice de’ figlioli, che erono pupilli, si poteva dire potessi disporre di tutta la roba che era suta del padre. Onde lei, traportata dalla libidine, tolse per marito un giovane che stava per famiglio col padre e gli dette il dominio di tutto. Lui, caldo di roba e desiderando levarsi davanti e’ figliastri, gli bastonava, percoteva, dava lor mal da mangiare e peggio da bere, di qualità che in dua anni n’erono morti tre. E lui, vedendo questo, aveva deliberato partirsi e cercare in qualche altro luogo sua ventura.

Increbbemi del giovane e li offersi che, quando fussi in Constanzia, li farei quello poco di bene che potessi. E considerai quanto pazzamente faccino quelli che lasciono le moglie a disporre di loro eredità, delle quali [33v] è qualcuna che la conduce bene, ma infinite che a cattiva fine le indirizzano. Né voglio dare di questa materia essempli perché sarebbero odiosi, ma chi andrà essaminando la città nostra troverrà esser così.

 

Passai il dì la montagna predetta, la quale è aspra. Et ancora che fussimo a dì 6 di luglio, v’era qualche poco di neve e freddo grande, e perché ero vestito da state, mi dette non piccola molestia. E la sera, fermandomi a un luogo detto Clost, poco potetti mangiare. Andàmene a dormire e mi parve mille anni fussi giorno per cavalcare. E mi posai la mattina a un castelletto nominato Nint in una osteria dove l’ostessa ordinò presto da desinare. Ma, mentre mangiavo, sentì’ cantare preti: fecimi alla finestra e viddi portavono a sotterrare una fanciulla e la traevono dell’osteria. Feci domandare di che male fussi morta e mi fu detto di peste, in modo che rimasi mezzo attonito e subito mi partì’ e del continuo mi pareva aver la morte direto. Pure la fatica del cavalcare mi fece dimenticare la peste e massime perché andai tutto giorno per vie piene d’acqua. E la sera tardi alloggiai a una casa sola, detta Paur, che in lingua nostra vuoi dire villano, la quale era tutta di legname. Né v’erono stalle e però bisognò che i cavalli stessino fuora. Io volli e mangiare e dormire presso a loro con li miei servitori. E mi venne ben fatto perché, in su la mezzanotte, s’apiccò il fuoco nella osteria et arse tutta, benché non vi ardessi che un prete tedesco che avea tanto beuto che non si destò a tempo. [34r] E lui fu causa dell’arsione, ché accese un moccolo per dire l’uficio e si addormentò sanza spegnerlo. Il fuoco, trovando la casa di legname e calda per il sole, in una ora ogni cosa consumò.

Partimmi la mattina e non ebbi a fare conto perché quivi non era restato né oste né ostessa. Et andai a desinare a un castelletto in sul Reno chiamato S. Pietro. Quivi era il dì, come interviene ne’ paesi nostri, che certi scioperati stanno in su l’osterie a parlare con chi va a torno. Tino vecchio, che diceva essere stato già servitore del magnifico Pietro di Cosimo de’ Medici, cittadino principale della città nostra a’ tempi suoi, e per aver inteso li discendenti suoi, per fazione civili, esser suti fatti essuli da Firenze, era diventato inimico a tutti e’ Fiorentini. Et avendo saputo da un de’ miei che ero fiorentino, non restava di mordermi e dire che li Fiorentini furono sempre inimici all’imperatori, e che ordinorono già che fussi dato il veneno a Enrico terzio nel sacramento, e che al presente ero mandato per ingannare Massimiliano.

Io, indicando pazzia il risponderli, fingevo non intendere bene né pensare a cosa che lui dicessi. L’ostessa era presente et intese dal mio servitore tedesco quello che il vecchio diceva, e li disse che si partissi e mi lasciassi in pace. Ma lui allora più infuriava e minacciava e gridava, onde ella, partitasi, andò in persona per il borgomastro del castello. El quale, [34v] venuto quivi subito con un solo sergente, il vecchio chiamò et al sergente lo fe’ mettere in carcere. Et a me fece grande escusazione, dicendo che li Signori delle Leghe, de’ quali era il castello, volevano che pel paese loro ogni uomo andassi sicuro e fussi onorato. Ringraziò’lo, pregandolo che avessi compassione a quello uomo vecchio et affezionato a’ discendenti del suo antico padrone.

 

E, partito, prima lungo il Reno e poi lungo el laco di Constanzia cavalcai: il quale è bellissimo, di circuito circa miglia cinquanta, dove sono molte terre e castelli buoni; l’acqua lucidissima che in ogni parte del laco permette vedere il fondo; fa molti pesci e buoni. Il dì smarrì’ il cammino, perché il lago sempre rode la terra et aveva in qualche parte tanto roso, che bisognava scostarsi et andare per certi monticelli dove la guida mia più volte s’aviluppò.

Pure molto tardi giunsi a una osteria in su detto lago detta Sciat, dove erono ridotti la sera tutti e’ villani del paese a lavarsi e radersi, perché quivi era a modo nostro una stufa, la quale i tedeschi usano la state dua volte alla settimana et il verno una. Stavano in quella stufa a lavarsi una ora, et uscivano d’essa bolliti e sudati. Et, accostatisi al lago, quelli massime che sapevono notare, vi si gittavano drento che arei creduto fussi loro diacciato il sangue a dosso e che fussino subito morti. Ma loro dicono che in quel luogo l’aria comporta così. E perché la sera ero stracco per il caldo e per aver errato [35r] il cammino avevo fatto maggior viaggio, onde li cavalli erono molto affaticati, feci cercare d’una barca che portassi me e li miei la notte a Constanzia, la quale dicevono essere a punto lontana dua miglia tedesche. E trovatola vi montai con li miei cavalli e servitori. E non potetti arrivare, per esser poco vento, prima che a ore cinque di giorno. Fermà’mi un poco alla porta per mandare a cercare d’alloggiamento, ma vi era concorsa tanta moltitudine d’uomini, per esservi lo Imperatore e tenervi la Dieta, che ogni casa era piena. Pure trovai uno araldo, ch’era suto in Italia, el quale in una osteria vicina mi fece alquanto riposare e mi disse che quella città era alli confini de’ Svizzeri, e’ quali avevon fatto ogni opera per ridurla alla loro volontà e mai avevon possuto, e che signore ancora nel temporale arebbe a essere il Vescovo, ma che li cittadini s’avevono usurpato il governo et avevono ordinato una repubblica.

Ha la città da una parte il lago, che da essa piglia il nome e si domanda il lago di Constanzia e quivi si riduce nel fiume del Reno. E vi è un bel ponte di legno che passa il principio di detto fiume. È città famosa pel Concilio che vi si congregò l’anno 1417, nel quale fu eletto papa Martino. E si congregò in detta città il Concilio perché, avendo il fiume et il lago, ha gran facilità di condurre viveri da potere nutrire [35v] gran quantità d’uomini. E però lo imperatore Massimiliano vi teneva la Dieta di tutti e’ principi ecclesiastici e secolari d’Alamagna. La città non è molto grande, ma bene abitata.

 

Io, come dissi di sopra, giunsi in quella alli 11 di luglio e, riposatomi alquanto nell’osteria della Croce Bianca, cercai d’alloggiamento e per ordine dello Imperatore mi fu dato. Et in esso stetti tanto quanto detto Imperatore stette in quella città. Il padrone dello alloggiamento avea nome Giorgio e l’arte sua era navicare e per lago e pel Reno, e condurre vettovaglia e rivenderla, et in quel tempo guadagnava molto bene. Era uomo grande e grosso e molto piacevole.

Era alloggiato nella medesima casa uno imbasciadore del conte di Traietto di Frigia, che si chiamava messer Fizio Dornit, uomo veramente prudente e nobile, et avea veduto assai costumi d’uomini e varie città. Era stato in Italia, ma non sapeva parlare italiano, ma benissimo latino e tutte le cose che io volevo sapere da lui, volentieri me le diceva.

Domandà’lo quanti prelati fussino adunati alla Dieta. Dissemi che il primo verso Italia era il vescovo di Trento, il vescovo di Cur, il coadiutore del vescovo di Brissina, perché il vescovo proprio, che era cardinale, si trovava allora a Roma, il vescovo di Constanzia, di Basilea, di Salsburg, di Bamberg, d’Augusta, d’Erbiboli il quale è duca di Franconia, il vescovo di Spira e di Vorms, l’arcivescovo di Maganzia e di Treveri. [36r] Quello di Colonia non v’era perché, sendo molto grasso, non si poteva quasi muovere, ma vi era un suo procuratore. De’ principi disse esservi dua figli del Conte Palatino, in nome del padre elettore, il duca Federigo di Sassonia, il marchese Ioachim di Brandiburg elettori, il duca Giorgio di Sassonia, il marchese Federigo di Brandeburg, il duca Alberto di Baviera, il duca di Mechelburg, il duca di Vertinberg, il duca di Bronsvic, il lancravio d’Assia, conti dipoi sanza numero. Ma e’ conti non intervenivono a’ colloqui della Dieta, ma v’interveniva uno di loro in nome di tutti. Poi vi erono li oratori delle comunità e città imperiali d’Alamagna, le quali città sono assai. E la lega di Svevia ha nella sua congregazione centoventi buone terre, delle quali sono le principali Augusta, Norimberg et Ulma. La lega delli Sterlini contiene settantadue terre grosse, tra le quali sono le prime Lubic, Colonia e Danz. Sonvi poi altre buone terre, come Argentina che ha tanto d’entrata che dicono aver congregato in comunità molte centinaia di migliaia di fiorini. Mentz ancora, in latino detta Mediomatrix, è una buona città vicina al paese dello Reno. Sonvene poi assai altre, come Ratispona, Francfordia, Erfordia, ma di tutte non mi ricordo. Il duca di Julic e di Clevi non vi erono in persona per esser lontani ma avevon mandati loro procuratori et il duca dello Reno imbasciatori.

Passavomi il tempo dolcemente con questo frigio, [36v] perché aveva poca faccenda e lo Imperatore non vuole che gli oratori frequentino la corte e, quando hanno da fare, vuole che lo faccino intendere, e lui poi li chiama.

Era in Constanzia molti italiani imbasciadori et altri: per il Papa il signore Gostantino Greco, per li Veniziani messer Vincenzio Quirino, per il duca di Ferrara messer Antonio Constabili, pe’ Sanesi Domenico Placidi, e molti usciti lombardi e genovesi. E tutti quasi si trovavono la mattina nella chiesa maggiore e dicevano quello sapevano di nuovo. Ma delle cose ordinavono e’ tedeschi poco s’intendeva, perché loro fanno professione d’essere molto secreti. Eronvi ancora certi mandati dal re di Spagna e certi essuli castigliani.

Io volentieri m’internavo a parlare con messer Fizio, ricercandolo de’ costumi di Frigia, e del parlar suo pigliavo gran piacere. E, per esser ragunato gran quantità d’uomini in quella città, vi accadeva tutto giorno casi diversi, come ne acascò uno presso alla nostra abitazione.

Alloggiava a canto a noi uno abate di Vestfalia, el quale era venuto imbasciadore dell’ordine suo perché, possedendo certi castelli, ancora quello ordine era tenuto a sovvenire l’Imperatore ne’ suoi bisogni. Questo abate era bene accompagnato, e fingeva semplicità e bontà con raro parlare, con udire messe, dire suoi offici, leggere, con dimonstrare di digiunare. Il padrone dell’alloggiamento nostro aveva, drieto a quello, [37r] una stanzetta dove entrava per il medesimo uscio che nella propria abitazione, nella quale teneva due sorelle che facevano piacere a chi le pagava. L’abate, avendo visto dalla finestra della camera la più giovane, che avea nome Magdalena, e sendoli piaciuta, per uno suo fidato li mandò imbasciata. E, consentendo la Magdalena, era spesso in quella casa, benché v’andassi più celatamente poteva. La fanciulla, sperando trarre da lui assai, vedendo che così si contentava, quasi tutti li altri amici aveva licenziati. Ma il disegno non gli riusciva, perché l’abate spendeva adagio; onde ella, avendo licenziato li altri, era constretta industriarsi di piacerli per trarne. E deliberò chiamarlo a cena et abergo, il che insino allora, stando in sul tirato, non aveva fatto.

E, convenutasi seco della sera che fu in martedì, fece ordinare una buona cena e, benché fussi di luglio, l’abate per non esser visto, entrò in casa di notte. E quivi mangiando e beendo assai, perché vi erano di più sorte vini, dopo cena mezzo cotto se n’andò al letto e la Magdalena con lui. Et erano stati poco insieme quando nell’osteria vicina, dove l’abate alloggiava, s’apiccò il fuoco, et il romore era grande. Onde l’abate, dubitando delli cavalli et altre cose sue, si levò e, presa la tonaca in spalla, corse verso l’uscio per sovvenire al fuoco. La Magdalena la sera uno uscio, che quasi mai s’apriva, [37v] aveva lasciato aperto perché, sendo il caldo grande, più vento entrassi in casa. Riusciva detto uscio in su una parte del lago, che entra in Constanzia per canale, dove e’ cavalli beano e si sguazzono. L’abate, trovando tale uscio aperto, sendo l’aria oscura, credendo fussi quello donde era venuto, per esso saltó fuori e ritrovossi nell’acqua. Le grida eron grande per l’arsione vicina. Lui era grasso né sapeva notare. La Magdalena forse del suo cadere nell’acqua s’accorse, ma, essendoli rimasta la scarsella, tacette in modo che il meschino abate, ancora che poca acqua in quel luogo fussi, affogò. E, trovato la mattina da’ suoi e vulgatosi il caso, il borgomastro fece diligenzia et essamine per intendere se vi fussi stato gittato. E non ritrovando confetture o verisimili di questo, si concluse che, per l’austerità della vita, li umori melancolici li avessino dato al capo e fattolo fare tal cosa. La Magdalena non fu mai richiesta né essaminata, perché li servitori dell’abate non vollono dare al patrone infamia d’essere andato a dormire con una femmina. Onde essa si godé circa fiorini trecento che trovò nella sua scarsella; et a noi vicini, quando fu passata la furia, il caso come era successo narrò.

 

Alloggiava ancora, non molto lungi da noi, uno oratore del re di Portogallo, uomo leggieri e [38r] superbo, come è la maggior parte de’ portoghesi. L’oste suo era calzolaro, povero uomo, et aveva una bella figlia della quale a questo imbasciadore venne voglia e, non avendo la lingua tedesca, non sapeva in che modo farli intendere la intenzione sua. Aveva un famiglio tedesco al quale conferì il suo desiderio. Il famiglio, come l’ebbe inteso, piacendo la fanciulla ancora a lui, pensò di vedere se poteva colli danari del padrone contentarsi. E, chiamato un giorno il calzolaro, dopo molte parole, li disse che volentieri torrebbe la figlia per moglie. Il calzolaro disse che gnene darebbe volentieri, ma che era povero e non aveva allora da darli dota. Il famiglio rispose che alla dota non pensassi perché, se si governava a modo suo, né a lui né alla figlia mancherebbe da vivere. E gli conferì come il padrone era innamorato della fanciulla e quello disegnava fare: il che piacque tutto al calzolaro. Onde, tornato al padrone, gli disse che la fanciulla, che aveva nome Illa, era contenta di compiacerli, ma che per niente voleva trovarsi con lui in casa il padre, perché n’aveva troppa paura; ma che a sua posta se n’anderebbe seco, pure che essa credessi che lui gli volessi bene, e per averne qualche arra voleva di presente cento fiorini, e che come li avessi avuti era contenta che il famiglio la menassi dove gli paressi, e che lui si potrebbe sempre escusare e dire che il tedesco [38v] l’avessi trafugata.

Lo imbasciadore approvò il modo, parvonli ben troppi e’ danari perché non era molto in sul grasso. Pure il famiglio gli disse che gli riarebbe perché, come Illa fussi ferma seco, vedrebbe tanti segni di benivolenzia che gli renderebbe e’ suoi danari. In effetto lo imbasciadore providde e’ cento fiorini eli dette al tedesco con ordine menassi via Illa la notte sequente e l’aspettassi a Chent, perché intendeva che lo Imperatore voleva ire a quella volta. Il famiglio, presi e’ danari e fatto la sera lo sposalizio d’Illa, montò con essa in una barca e la condusse la notte a Sangallo, terra de’ Svizzeri. Il calzolaro era svizzero e la mattina, simulando non sapere dove la fanciulla fusse, ragunò otto svizzeri. Et entrando con essi nella stufa dove era l’oratore, cominciò a fare romore e dire che lui s’era portato villanamente a mandar via la figlia e minacciarlo che, se non la faceva tornare, l’amazzerebbe. Lo imbasciadore, fatto buono animo, prese l’arme sua e si ritirò in una altra stanza, dicendo non li avere tolta la figlia, ma che il tedesco l’aveva menata via da sé. Lui pure instava di rivolerla et allegava certe conietture e concludeva che non era per lasciarlo uscire di quella stanza, se la figlia non tornava. E’ servitori suoi, che ne aveva quattro, impauriti, vedendo il loro patrone in tanto pericolo dettono notizia del caso all’Imperatore. [39r] El quale mandò alla casa uno delli suoi che intese la verità dallo imbasciadore e praticò di contentare il calzolaro con danari, e concordò in fiorini dugento, e’ quali bisognò che lo imbasciadore pagassi subito. E gli parve aver buon mercato a uscire di tanto pericolo con danari. E la mattina sequente si partì per seguire la fanciulla e, giunto a Chent non trovò né lei né il famiglio, ma intese ch’erono a Sangallo e che il famiglio diceva che Illa era sua moglie. Ebbe pazienzia il meglio potette, e fece sanza danari e sanza la fanciulla, et il famiglio attese con essa a godere.

Così con poche faccende e con queste novelle passai il tempo in Constanzia. Et alli dieci d’agosto, sendo qualche dì avanti dissoluta la Dieta e licenziati e’ principi, parve a Massimiliano partirsi. E perché voleva ire cacciando per luoghi aspri e salvatichi, non volle dalli imbasciadori esser seguito, ma ordinò andassino a Iberling e quivi stessino tanto che significassi loro dove l’avessino a trovare.

 

 

LIBRO TERZIO

 

Quando il duca Lodovico Sforza nel 1499 ritornò in Milano, donde era, pochi mesi avanti, suto cacciato da Lodovico re di Francia, sendo molto essausto di pecunie et avendo bisogno d’assai per mantenere quello stato, in tutti li modi poteva s’ingegnava congregarne domandandone a più principi e comunità, et in presto et in dono. Et [39v] intra li altri che ricercò furono e’ Sanesi a’ quali mandò uno uomo in poste e richiese in presto ducati dodicimila. Consultorono e’ Sanesi quello dovessino rispondere al suo mandato. E messer Niccolò Borghesi, che era allora riputato de’ savi uomini di Siena, diceva a ser Antonio da Chianciano, che era capitano di popolo e per tal degnità gli toccava a rispondere, che lui rispondessi che la comunità voleva prestare al Duca li danari ricercava, ma che era affannata e sopraffatta dalle spese e, destramente, monstrassi che non poteva. Ser Antonio, poiché ebbe udito un pezzo le parole di messer Niccolò, disse: « Io non so parlare la lingua toscana se non in un modo. Volete voi che io li dica che la comunità gnene presterà, o no? Ché questo ’destramente’ io non lo intendo e quello non intendo non crederrei far capace a altri ».

Così voglio dire io che sono certo sarò biasimato, perché in questi miei scritti non sia altro che giunsi, venni, arrivai, partì’, cavalcai, cenai, desinai, udì’, risposi e simil cose le quali, replicate spesso, a il lettore fanno fastidio. Ma io non ho imparato il parlare toscano se non in questo modo et, avendo a dire queste cose e replicarle spesso, non posso usare altri vocaboli né altri termini: et ho preso tal materia perché mi é piaciuto. Chi non vorrà leggere li miei scritti gli lasci; chi [40r] se ne infastidisce, letti che li  ha un poco, gli posi.

 

Iberling è castello distante da Constanzia un miglio tedesco, pure in sul medesimo lago. Il paese intorno è abbondante d’ogni cosa da vivere e massime di vino. E si afferma per li abitanti che ciascuno anno entrano in quel castello diecimila fiorini di Reno di vini, che si vendono fuori del paese. Quivi giunto, alloggiai in casa uno orafo, chiamato Bartolo, uomo, a mio iudicio, di buoni costumi, come mi parve ancora fussino li altri di quello castello, perché osservano molto la iustizia. E viddi questo che mi parve cosa mirabile : uno essere preso per la vita e stare, la notte et il dì, in sulla piazza sanza guardia alcuna, solamente colli piedi ne’ ceppi, né essere uomo che ardissi di toccarlo.

In quel luogo non avevo che fare e però me n’andavo a sollazzo fuori della terra, vedendo il paese, e poi me ne tornavo allo alloggiamento a parlare con Bartolo, el quale mi referiva le guerre che erono seguite in Alamagna a suo tempo. Ma le diceva senza ordine e con poca verità, come fanno ancora qui li nostri artefici. Pure, perché era suto in persona alla guerra che aveva fatta Massimiliano al Conte Palatino, narrava questa con più verisimili che l’altre. [40v] Filippo, conte palatino, ebbe per donna  una figlia del duca Giorgio di Baviera. E, per essere il Conte ancor lui della casa di Baviera e per non avere detto Duca figli maschi, il Conte stimava l’eredità appartenessi a lui. Da altra parte il duca Alberto, che era nipote del duca Giorgio di fratello, credeva che a esso di ragione s’aspettassi. Morí il duca Giorgio et il Conte occupò tutto il suo tesoro, che fu grandissimo, et oltre a questo parte dello stato. Alberto, avendo per donna la sorella dell’Imperatore, li domandò soccorso parendoli essere oppressato iniustamente. Lo Imperatore, avuto consiglio da più principi Alamanni, fece più volte intendere al Conte che desistessi di molestare Alberto e che fussi contento che quello che era tra loro in diferenzia fussi iudicato di ragione. Il Conte, sendo caldo di danari e sostenuto dall’amicizia del re di Francia e de’ Svizzeri, poco conto teneva delle parole dell’Imperatore in modo bisognò venire all’arme. E la Lega di Svevia tutta s’unì con Massimiliano e qualche altro principe a destruzione del Conte, perché pareva loro crescessi troppo.

La guerra si cominciò et andò in lunga perché, come il Conte

fu molestato, fece muovere e’ Svizzeri [41r] in modo che l’Imperatore fu constretto a voltarsi contro a’ Svizzeri e lasciare lui. Così la cosa stette qualche anno ché quando si perdeva e quando si guadagnava, ma non si veniva al fine. Lo Imperatore, avvedutosi di questi modi del Conte e sappiendo il favore che lui aveva di Francia, deliberò accordare con quel Re e por fine a molte inimicizie avevono l’uno con l’altro. E, trattandosi questa pratica, se ne venne alla conclusione e nel 1502 Si fermò lo accordo a Aganon dove fu presente il cardinale di Roano pel re di Francia. E tra li altri capitoli fu questo: che il Re non potessi in modo alcuno dare favore al Conte Palatino e, più, fussi tenuto operare che Svizzeri non l’aiutassino.

Fermo lo accordo, subito lo Imperatore ragunò in Augusta buono essercito a piè et a cavallo. Il Conte, inteso lo accordo, non cadde d’animo e, non potendo avere Svizzeri, condusse cinque mila fanti boemi, e messe insieme millecinquecento cavalli, e con questo essercito si fermò presso a un suo castello chiamato Brette. Lo Imperatore deliberò andarlo afrontare e si mosse d’Augusta col suo essercito. Il Conte, quando intese lo essercito inimico avicinarsi, conoscendo non essere pari alle forze dell’Imperatore, non li parve da mettere a pericolo sé e li suoi cavalli, ma volle che li fanti boemi facessino esperimento della fortuna. E disse loro che si voleva mettere in aguato con li cavalli per assalire [41v] poi lo essercito dell’Imperatore, quando fussino insieme alle mani. E con questo modo partitosi, si ritirò co’ cavalli al sicuro. Lo Imperatore col suo essercito assaltò e’ boemi, e’ quali combatterono virilmente; ma, sendo di numero inferiori e non avendo cavalli, furono constretti a cedere e di nove mila non ne campò che cinquecento. Il Conte, inteso il caso, cercò per mezzi placare lo Imperatore e, lasciato tutto quello teneva della eredità del duca Giorgio et una gran parte del suo proprio, con dificultà ottenne la pace.

Queste e simili altre novelle mi diceva tutto giorno l’oste mio, le quali mi facevono passare il tempo. E bisognava, perché lui non aveva lingua né italiana né latina, che le dicessi in tedesco e poi mi fussino riferite in italiano.

 

Accade, nel tempo che ero quivi, a un medico cosa da volerla intendere. Costui avea nome mastro Enrico et era stato a medicare in Venezia, et essendo in medicina et in astrologia ben dotto, aveva ragunato molti danari. E già vecchio d’anni sessantacinque, s’era ritornato nella patria, murato una bella casa e comprato possessione. E perché era in ottima valetudine e buona prosperità di corpo, aveva preso donna assai giovane, ma era suto ingannato da chi aveva condotto il parentado: perché, volendo moglie bella, l’aveva avuta bruttissima e di qualità che non se ne contentava punto. Et avendo in [42r] casa una servente bella e fresca, d’età  d’anni sedici, a lei pose il suo amore e spesso con essa si trastullava. Né poté fare questo sì cautamente che la donna non se n’accorgessi. Di che oltre a misura dolente, pensava che rimedio dovessi trovare a rimuovere l’animo di mastro Enrico dalla servente e tirarlo a sé; né poteva mandarla via perché temeva che il mastro non l’avessi tanto per male che cacciassi lei. E molte cose rivolgendo per la mente, gli occorse ch’el medico aveva uno fedele servo napolitano, chiamato Andrea, stato con lui insino da fanciulletto e però aveva preso qualche leggieri notizia di medicina, e spesso dava qualche rimedio alle infermità, così alla grossa.

Deliberò dunque con lui consigliarsi e, chiamatolo un giorno in secreto, gli fece intendere l’amore che portava il mastro alla servente et il dispiacere ragionevole che lei ne aveva. E lo pregò che gli dessi qualche rimedio, se alcuno ne sapeva, e che da ora, se seguissi l’effetto che essa desiderava, gli donerebbe dugento fiorini d’oro. Andrea, inteso la donna, sendo avarissimo, pensò vedere se poteva guadagnare e’ dugento fiorini. Et alla donna rispose che de’ rimedi c’erano assai e che molto bene gli sapeva e che, se essa seguiva il suo consiglio, il medico sanza dubbio alcuno, leverebbe l’amore alla serva et [lo porrebbe] [42v] a lei lo porrebbe, come era conveniente; e però volentieri se ne impacciava.

E pensò il famiglio comporre certo lattovario d’erbe calde e cose odorifere che fussi potente a incitare il medico alla libidine e che, incitato, non si potessi contenere dalla donna colla quale dormiva, e lei, vedendo questo fuori del solito, stimassi che il medico avessi rivolto l’animo a essa e subito li dessi e’ promessi danari. E, trovato molte erbe calde, delle quali aveva già sentito parlare al medico, et altre cose aromatiche e fattone una composizione tanto calda che era come veneno, alla donna la dette e li disse la mescolassi in buona quantità ne’ cibi del medico, e che stessi sicura che intra dua giorni seguirebbe l’effetto desiderato.

La donna non prima tal composizione ebbe che la sera nella cena del medico con uova la mescolò. El quale, avendo mangiato il cibo, senti grandissimo caldo e, continuo crescendo, gli eccitò una ardente febre et intensa, la quale in ventiquattro ore lo condusse a morte. La servente, che sempre gli stava intorno et aveva veduto la patrona prima a secreto con Andrea e dipoi in cucina diligentemente ordinare la vivanda, a’ nipoti del medico tale conietture referì, e’ quali feciono ritenere Andrea alla iustizia et essaminare sopra questo caso. El quale confessò, sanza tormento, a punto come fussi successo. E però fu presa ancora la donna, [43r] benché fussi di buono parentado nel castello, e monstrando a altri medici di che erbe fussi la composizione sopradetta, fu iudicato essere pestifero veneno. E, se bene da Andrea e dalla donna non era ordinata a mal fine, per dare essemplo furono condannati a morire, et in pubblico decapitati.

Increbbemi veramente della povera donna, la quale, non per altro se non per casto amore del suo marito mossa, era incorsa in tal miseria.

 

In questo luogo, come ho detto, erano adunati tutti li oratori che seguivono lo Imperatore e molti altri italiani e spagnuoli. Eravi il Generale dell’ordine delli Umiliati, gentiluomo milanese da Landriano che, per più sua sicurtà, s’era ritirato in Alamagna insino quando il cardinale Ascanio fu preso da’ Viniziani, perché allora era in sua compagnia. E con l’aiuto d’un buon cavallo scappò; e dipoi aveva sempre seguito Massimiliano e patito assai incommodi e dificultà, come avviene a chi seguita le corte. Narrava, intra l’altre cose, quello che dua anni avanti li era accaduto in sul Danubio. Lo Imperatore era ito alla volta d’Ungheria et il Generale lo voleva seguitare; ma lui, aspettando di fare compagnia a monsignor Gurgense, soprastette qualche settimana. E non partendo detto Gurgense, il Generale si misse in cammino con altri che trovò. E furono circa quaranta cavalli che si mossono d’Augusta al principio di quaresima e giunsono il Danubio che era mezzo marzo, et il diaccio si comminciava [43v] a dissolvere. Et arrivorno circa a ora di vespro a uno villaggio in sul Danubio, detto Firt. Et avendo a navicare qualche giorno per il fiume lui, per andare con più sua commodità, comperò una barca e condusse li uomini che la menassino; e si consigliava con li uomini del villaggio se era da imbarcarsi la sera o no. E qualcuno diceva esser pericoloso trovarsi la notte nel fiume, perché, dissolvendosi il diaccio, vengono qualche volta pel fiume gran pezzi d’esso e, non si potendo vedere per la oscurità, danno nella barca e la fanno affondare. Pure, dicendo qualcun’altro ch’era ora ché di giorno s’arriverebbe a San Gherardo, villaggio non molto discosto, dove era migliore alloggiamento che quivi, lui, desideroso d’andare avanti, si messe in barca con tutta la sua compagnia, eccetto che un vecchio tedesco che con tre suoi famigli, conoscendo il pericolo, non si volle imbarcare.

Né poterono andare si presto a il luogo destinato, che la notte non gli giugnessi. E per la oscurità d’essa non potendo vedere né fuggire e’ grandi pezzi di diaccio che giù pel fiume con rapido corso venivano, fu un tratto da un gran pezzo di quello la barca investita, di sorte che andò sottosopra e tutti quelli v’erono su nel fiume cascorono. Il Generale, apiccatosi alle redini d’un suo buon cavallo, a un pezzo di diaccio che nel fiume [44r] era ancora fermo, si ridusse; e sei altri delli suoi, notando, quivi approdorono molli e paurosi, e del continuo aspettavono la morte. Il freddo era grande, la notte tenebrosa; non avevono da mangiare et in fine non vedevono modo alcuno di poter campare. E così stettono tutta la notte et il dì sequente e poi l’altra notte. L’altro giorno a ora di nona passò una barca la quale, chiamata da loro, gli levò e gli condusse salvi in terra. E mentre stettono in sul diaccio non mangiorono altro che un tordo el quale, stracco, tra loro si posò; e loro così crudo sel divisono e mangiarono.

 

Stetti a Iberling tutto agosto e poi insino alli 6 di settembre nel qual giorno mi parti’ per ire a Ulmo. E si accompagnò meco uno messer Matteo Davis, el quale era appresso lo Imperatore per il signore di Camerino, uomo pratico e molto piacevole. E la prima mattina ci fermammo a desinare a un borgo di case detto Mituac. E, mentre s’ordinava la vivanda, capitò nell’osteria il prete della villa e cominciò a parlare con esso noi una certa gramatica grossa e domandare di molte cose di Italia. Et intendendo che Matteo era servitore del signore di Camerino et avendo udito dire più volte della Sibilla cose grande, lo pregava gnene dicessi il vero. Matteo, accortosi che il prete era semplice, li diceva le maggior bugie del mondo e di qualità che quelle del Meschino sarebbono parse un niente, [44v] et affermava essere stato nella stanza della Sibilla et uscitosene che a pochissimi riesce. E tanto infiammò colle parole il prete che si dispose a ogni modo volerci seguire perché Matteo lo conducessi là. Al quale parve avere messo mano in pasta e si escusava dicendo che aveva che fare assai in Alamagna e che era per starvi molti mesi. In effetto non gli valsono escuse né parole a fare che il prete non fussi a cavallo quando noi; e seguitò poi Matteo insino in Italia. E pel cammino n’avemmo sempre buona compagnia, e ci faceva trovare buone osterie e spendere manco che li altri. La sera, il prete ci voleva condurre a un castello detto Bibrac, ma, sopragiunti dalla notte, ci fece alloggiare in casa un villano suo amico, lontano un miglio da detto castello.

Questo villano aveva una bella moglie la quale doveva esser piaciuta al prete altre volte che v’era passato. E la sera non se li partì mai da torno né fece altro che ridere e motteggiare con essa. Et, avvedutosi che nella stufa era a nostro modo una zana da tenere fanciulli che poppano, stimò che la donna la notte avessi a capitare in questa stufa. E però disse al villano che volentieri, per darli manco molestia, dormiremmo nella stufa. Onde lui recò certe materasse sopra le quali ci posammo. Ma io, vedendo in quella zana non esser né fanciullo né altri, del luogo dove era la mossi [45r] et in essa entrai perché era assai grande, in modo che il prete, a mezzanotte desto, per la stufa della zana andava cercando e, non la ritrovando, salì in su una panca per tastare se quivi fussi; e tanto s’avviluppò, che cadde e si ruppe un ciglio.

Il romore fu grande e tutta la brigata di casa si levò, et al prete fasciorono il capo stimando che, riscaldato dal vino, fussi caduto. E per la notte non si poté più dormire. Io stimai che lui, avendo rotto il capo, non volessi più cercare di Sibilla, ma fu il contrario, perché montò a cavallo prima di noi; et insieme seguitammo il cammino verso Ulmo.

La mattina ci fermammo a mangiare a un luogo detto Ander in sul fiume del Danubio, che quivi è ancora piccolo. Pure il nostro prete, volendo in quello guazzare il cavallo per il cammino stracco, non ebbe rimedio che non si mettessi a diacere nel fiume.

E bisognò che tutta la villa corressi in aiuto del prete; e fu riavuto molle e mezzo morto. Ma, avendoci fatto buona compagnia e volendo venire avanti, aspettammo tanto che tornò in sé e s’asciugò: e però la sera tardi ci conducemmo a Ulmo e, guidati da lui, andammo a una buona osteria dove stemmo dua giorni.

 

Ulmo è in Svevia, terra grossa, forte, populata e piena d’arte. È posta in piano eli corre a canto il fiume del Danubio, [45v] che quivi comincia a portare legni. Ha molti belli fossi murati e pieni d’acqua, ha dua ordini di mura e, tra l’uno e l’altro, un fosso profondo; la terra è quasi per tutto al pari de’ merli. Li uomini sono molto religiosi: e mi fu affermato da un frate da bene che più che la decima parte ogni domenica pigliava la comunione divotamente.

Trovai in Ulmo Antimaco da Mantova, che ancor lui era appresso a Massimiliano per sua faccende. Era suto secretario del marchese Francesco di Mantova e, venendoli sospetto che non rivelassi secreti suoi a’ Veniziani, fu constretto fuggirsi in Alamagna. Era uomo dotto e buono e molto religioso.

Era la Natività di Nostra Donna alli otto di settembre, et insieme visitammo qualche chiesa d’Ulmo; e tra le altre udimmo il vespro alli frati predicatori. E detto il vespro, il priore del convento, avendoci conosciuti italiani, ci fece carezze e ci menò per tutto il convento. Et entrati in sacrestia, vedemmo nella bara una giovene morta la quale era stata condotta quivi la mattina per seppellirla. Et inteso il priore che lei, avendo avuto nuove che il marito era morto in Fiandra, sendo gravida, era morta di subito, deliberò tenerla tutto il giorno avanti la lasciassi sotterrare. Antimaco, come fu giunto nella sacrestia, come uomo molto divoto, si pose in ginocchioni avanti a uno altare: [46r] io rimasi a guardare la donna e parvemi nel guardarla udire certo tenue mormorio. Domandai il priore che cosa fussi. Lui, preso una candela, s’accostò alla morta e trovò che li battevano i polsi e menava il meglio poteva i piedi e le mani legate e, colla debile voce, si ramaricava; onde lui chiamò subito li altri frati e fece recare aceto e vino et altre cose da farla rinvenire, et ordinò fussi portata in una camera.

Il romore andò subito per la terra: fecesi grande concorso di popolo e li più stimorono che per l’orazione d’Antimaco fussi resuscitata, perché fu veduto avanti l’altare in orazione.

E non era possibile si difendessi dalla moltitudine la quale, per divozione, gli lacerò una vesta lunga che aveva indosso. Et insino alla notte oscura non si potette trarre di quel convento, in modo che, la mattina sequente avanti giorno, per fuggire tal molestia si partì e rimase d’aspettarci a Meming, perchè io avendo bisogno vestirmi da verno, mi fermai tutto quel dì in Ulmo. E l’altra mattina a ora di terza cavalcammo e la sera giugnemmo a Meming, la quale è terra medesimamente in Svevia piacevole e bella, dove il vescovo di Triesti ci fece soprastare tre dì, dicendo che lo Imperatore doveva venire quivi.

 

Trovommovi messer Bastiano, elemosiniere dello Imperatore, uomo allegro, gran ciarlatore e vano che era preposto della [46v] chiesa principale. E, mentre vi stemmo, c’intrattenne e menò a torno vedendo la terra. Et un dì di festa ci condusse ne’ fossi a vedere trarre colla balestra, che è cosa da considerare in Alamagna, ché in ogni minima villa è l’ordine et il luogo dove li uomini si riducono le feste, chi a trarre colla balestra e chi con lo scoppietto, e così s’assuefanno e questo ordine non si preterisce, et in ogni terra e villa io fui, lo trovai. E quivi era il luogo bene ordinato ne’ fossi e gran concorso d’uomini, chi per vedere chi per trarre. Menocci ancora a un convento di certosini, distante dalla terra un miglio, e ci fece dire tutta la loro vita e regola. E, come è costume de’ Tedeschi, quelli monaci ci dettono bere di più sorte vini che, ancor là come qua, questi conventi di Certosa stanno molto ben forniti delle cose da vivere. La sera ce ne tornammo all’osteria; et io con l’oste, ch’era buon compagno, parlavo dove ero stato il giorno e di questo convento.

Lui mi disse: « Io voglio che tu sappi che tal convento sono manco di venti anni fu edificato; et il modo ti dirò. Era in questa terra un ricco mercante, detto Arnaldo Spiner, el quale nelle sue faccende era suto fortunato e prudente, in modo s’era ridotto qui con grossa [47r] somma di danari. Non aveva donna né figli et, essendo d’età d’anni settanta, non era per torne; aveva dua nipoti e’ quali amava grandemente, e si credeva che loro avessi a lasciare eredi.

In quel luogo dove è al presente la Certosa, era una piccola chiesa dove stava un prete molto astuto, ma aveva poca entrata. E, venendo spesso nella terra et inteso per fama la ricchezza d’Arnaldo, cominciò a esserli intorno e con parole e con qualche piccolo dono. Et in brieve tempo contrasse tanta familiarità con lui che il vecchio andava spesso alla chiesa sua e vi stava dua o tre giorni; et il prete non mancava di cosa alcuna da potere tenere uno uomo ben contento. Nondimeno con tutte queste arti poco ne traeva, perché Arnaldo amava tanto e’ nipoti, che ogni cosa che dava a altri li pareva tôrre a loro.

E pensando il prete il modo da potere diventare signore della roba d’Arnaldo dopo la morte sua e cognoscendolo tanto inclinato e’ nipoti, che con parole non vedeva ordine di tirarlo al disegno suo, deliberò vedere se poteva ingannarlo con colore di religione. Aveva un cherichetto allevato da piccolo che non era manco tristo di lui, e si consigliò seco di fare nell’assito della camera del prete uno canale che riuscissi a punto drieto al capo d’Arnaldo quando dormiva: perché il prete [47v] aveva piccola stanza, dove era una stufa con una camera allato con dua piccoli letti. Nell’uno stava il prete et il cherico, nell’altro Arnaldo solo quando veniva a stare col prete. Feciono dunque una buca nel legname, che si partiva dal luogo dove stava il cherico e riusciva dove stava Arnaldo; et iudicorono che lui non avessi a pensare vi fussi malizia, sappiendo che in quella casa non era altri che loro tre che si riducevono tutti in una camera.

Et una notte che il vecchio vi venne, il cherico, stando desto, come lo sentì sputare, come usano fare e’ vecchi, messe la bocca al canale aveva fatto e disse: "Arnaldo, se tu vuoi esser salvo, edifica un convento e dotalo". E questo replicò più volte. Arnaldo, udendo le parole, stette attonito: pure la prima notte non lo mossono, perché dubitò sognare. Ma, stato alquanti giorni e ritornatovi, et avendo prima dal prete molte essortazione circa il disprezzare il mondo e quanto sia brieve questa misera vita a comparazione dell’altra, et udito la notte più volte le medesime parole, deliberò referirle al prete.

Il quale, inteso Arnaldo, li disse: "Tu puoi aver visto, Arnaldo mio, nel tempo che abbiamo avuto conversazione insieme, che niente altro mi ha mosso a portarti amore e riverenzia, se non uno ardente desiderio che, sendo tu oramai vecchio, l’anima [48r] tua alla fine in buon luogo si riposassi. Et in questo ho messo ogni mia forza et industria perché, avendo fatto professione di prete, di questo mondo non ho a portare altro. E potrebbe essere che il Nostro Signore Iddio t’avessi voluto illuminare per questo modo che tu mi di’, perché a lui non è cosa più accetta che l’edificare chiese e monastieri, dove li religiosi congregati possino cantare le laude sua. Non di meno questo che hai udito potrebbe essere tua imaginazione, potrebbe ancora essere fraude diabolica; però non è da creder cosí al primo tratto né al secondo, ma stare a vedere se seguita, et allora disporsi a fare quanto l’angelo di Iddio t’ammonisce ".

Arnaldo, udito il prete, rimase satisfatto e ritornossi alla terra. E dopo quindici dì s’andò di nuovo a stare col prete, e stettevi tre notte, et udendo più volte le medesime parole, stimò venissino di buon luogo e si dispose al tutto della sua sustanzia edificare un convento e dotarlo grassamente; et al prete disse la sua deliberazione.

Il prete, considerando che l’ordine di Certosa ha bisogno di tante sustanzie che pochi si truovano che possino dotare un monasterio convenientemente, pensò che, sendo causa di fare seguire un simile effetto, facilmente otterrebbe dal Generale d’essere abate a vita, e che d’ogni altra religione non l’interverrebbe così.

E però, [48v] lodato molto l’ordine di Certosa e predicando la santa vita di quelli monaci, confortò Arnaldo a fare uno ordine di certosini. Al vecchio piacque quello gli disse il prete et, ordinato il suo testamento, lasciò che in quel luogo s’edificassi un bello monasterio, come l’hai potuto vedere, e del resto della sua sustanzia si comperassino beni acciò che li monaci ne potessino abundantemente vivere. Et i miseri nipoti esseredò e’ quali, avendo preso moglie sotto speranza d’essere eredi et avuto più figliuoli, oggi sono ridotti in somma miseria.

Arnaldo fatto il testamento non visse dua mesi et il prete, subito che fu morto, n’ andò dal Generale de’ certosini e, narratoli il caso, ottenne quello voleva. Et in mentre visse governò la badia a suo beneplacito. E morì uno anno fa il cherico, che dal prete li erono sute fatte molte promesse, se seguiva l’effetto desiderava. Non li piacendo, quando crebbe, star suddito al prete, tutto il fatto come era successo divulgò, ma il testamento non potè tornare a rietro, tanto ci hanno stretto con lor legge e capitoli questi preti e frati. Et è un tempo m’accorsi che loro usano ogni arte per torci il nostro e goderselo, e fare stentare noi. E sono molte centinaia d’anni che cominciorono a pensare a questo, e però diceva Braccio da Montone, perugino, capitano eccellentissimo a’ suoi tempi, che le legge canoniche non contenevono altro che " tôrre a’ laici [49r]e dare a’ cherici ".

 

Vedendo noi che lo Imperatore non veniva, facemmo pensiero andarlo a trovare e ci partimmo Antimaco e Matteo et io da Meming; e la mattina andammo a desinare a un castelletto chiamato Chent.

All’osteria non era altro oste che tre fanciulle galante. Matteo, sendo stato altra volta in Alamagna, aveva un poco di lingua tedesca e, motteggiando con una di loro, si compose seco che, se con lui voleva stare a darsi piacere una ora dopo desinare, gli donerebbe uno fiorino. La fanciulla accettò il partito e, dopo mangiare, subito il chiamò. Lui, seguitandola, con essa in una camera si condusse, la quale aveva nel mattonato uno sportello a uso di colombaia da potere discendere a basso in una altra stanza. E come fu in detta camera, gli disse che bisognava che scendessi a basso e quivi l’aspettassi, perché s’uscirebbe di quella camera et entrerebbe nell’altra da basso per uno altro uscio, e si stimerebbe per le genti di casa che essa andassi alla camera per qualche faccenda e non perché vi fussi lui, el quale era suto visto andare di sopra. Matteo acconsentì e, perché tornassi più presto e volentieri, il fiorino promesso li dette. Lei, come fu sceso, lo sportello con buone chiave serrò e partissi.

Noi, stati un pezzo e fatto conto con l’ostessa, di Matteo facemmo cercare e, non si trovando, pensammo fussi ito a spasso pel castello. E più che [49v] dua ora l’aspettammo e, non tornando, ci pareva strano, ma sendo tardi deliberammo partire e lasciare quivi il suo famiglio co’ cavalli; e lo chiamammo prima per tutta l’osteria e lui non rispondeva perché non udiva. Io, sendo per montare a cavallo, in una corticella di là dalla stalla entrai e di nuovo chiamai Matteo. In su questa corte riusciva quella stanza dove Matteo era suto rinchiuso dalla fanciulla, et era luogo che raro alcuno vi capitava, onde lui, sentendosi chiamare e conoscendo la mia voce, rispose e mi disse il caso li era intervenuto.

Io allora, fatto chiamare l’ostesse, le pregai che al nostro compagno aprissino. Quella che l’aveva serrato, diventata un pochetto rossa, disse che, andando a dormire, da sé medesimo in quel luogo doveva essere entrato; e che quelli loro serrami tedeschi per loro medesimi si chiudano e difficilmente si possono aprire. E fece trarre Matteo di quella stanza el quale, sanza pensare altrimenti al fiorino, presto fu a cavallo e si misse in cammino. La fanciulla aveva pensato, vedendo Matteo piacevole e stimandolo ricco, che se quivi rimaneva e con lei si cominciassi a sollazzare, poterli trarre di mano buona somma di danari.

In effetto avemmo fatica, la sera, di condurci a Nesselban e, perché Antimaco usava dire un proverbio mantovano che "a gorga laudata non [50r] si debbo pescare", ci attenemmo al consiglio  suo. E sendo quivi l’Osteria della Corona tenuta la principale, ce n’andammo a una osterietta, nella quale pochi forestieri dovevono alloggiare. Ma ci riuscì bene, perché ci dette buon vini e buone vivande et a Matteo il letto fornito d’una che andava cantando pel paese et in quel modo viveva. E così, quello che il giorno con prieghi e spesa aveva desiderato, né potuto avere, la notte con poche parole e pochi danari ebbe.

Il prete, ancora che della Sibilla cercava, si giaceva con l’ostessa mentre che l’oste giucava nella stufa, et avendo beuto la sera molto bene, presto s’adormentò. E volendo l’ostessa farlo levare, perché dubitava che l’oste, finito il giuoco, non lo trovassi quivi, non potette mai, in modo che corse all’oste e gli disse che, sendo stato insino a quella ora a rassettare la cucina e volendo ire a dormire, aveva trovato il prete nel suo letto né aveva rimedio a farlo levare. Il marito, inteso il caso e perdendo, si levò con ira e, preso un bastone, andò alla camera dove era il prete e tante bastonate li dette, che da esse fu svegliato e condotto nella stufa, dove il resto della notte stette. E la mattina si trovò mezzo fracassato, pure insieme con esso noi il cammino seguì. E ci posammo a fare un pochetto di colazione alla Chiusa, che è una osteria sola con uno castello di sopra [50v] con uno muro dal castello al fiume  dove le mercantie, che entrano et escano del contado di Tirolo, pagano il dazio.

E quasi sempre interviene che, ne’ luoghi dove è una osteria sola, e’ forestieri sono male trattati, perché all’oste pare che chi passa dalla forza sia constretto alloggiare con lui. Et a noi accadde la mattina mangiar poco e spendere assai, sicché espediti presto, facemmo il dì gran cammino. E passammo la montagna e ci conducemmo a Nazaret ch’era tardi, e trovammo tutte l’osterie piene in modo che ci bisognò pregare un villano del borgo che in casa di grazia ci ritenessi. Et entrati in casa sua, trovammo lui e la donna che altro che piagnere tutta la sera non feciono, onde dissi al mio tedesco domandassi la causa di tanto suo dolore.

Et il villano alla dimanda rispose così :

« In questo borgo non è il più ricco contadino di me e di possesioni e di bestiame, et ho avuto una sola figlia chiamata Orsola, la quale allevai ben costumata e col timore di Iddio. Era già d’anni sedici e mai fu vista la più bella e gentil cosa. Accadde che un giovane qui del borgo, di buon parentado, nominato Gianni, di lei s’innamorò e sì disperatamente, che giorno e notte mai si partiva da questa casa: e l’Orsola monstrava punto di lui non si curare. Fecemela domandare per donna et io, satisfacendomi e del giovane e del parentado, [51r] volentieri gnene davo. E ne domandai l’Orsola, la quale rispose non volere marito insino che non aveva venti anni et in questo mezzo voleva attendere a servire a Dio come si richiede a una fanciulla. Et io, non la potendo sforzare, a Gianni feci intendere questa risposta e li feci dire che, se lui voleva aspettare ancora anni quattro, gnene darei volentieri. A lui parve il tempo troppo lungo e tanto dolore se ne prese che s’ammalò, e non si trovando alla sua infermità rimedio, in capo a dua mesi morì. Sparsesi la novella, né io m’aviddi che l’Orsola niente si turbassi. Viene il giorno che lui è portato alla chiesa et a caso ebbe a passare avanti la nostra casa. Sentonsi e’ preti cantare, l’Orsola si fa alla finestra e, mentre che il corpo di Gianni passa da quella, si getta nella strada e tutta si rovinò, né s’intesono altre parole delle sua se non: " Seppelitemi a canto a Gianni ". E così ordinai si facessi. E sono a punto oggi quindici giorni che tal caso segui, sì che nessuno si maravigli se io piango e sospiro sendo privato, privato dell’unica figliuola in modo tanto subito et extraordinario ».

Con questi pianti non fu che il villano non ci tenessi bene, pure partimmo la mattina di buona ora e la sera ci conducemmo a Ispruc, dove era lo Imperatore.

 

Era a punto mezzo settembre quando arrivai <a> Ispruc, el  quale è un piccolo castello nel [51v] contado di Tirolo; ma perché il duca Sigismondo, zio di Massimiliano, abitava in quel luogo assai e perché vi sono vicine le fornace che affinono l’argento, è accresciuto assai di borghi. Lo Imperatore vi ha un bellissimo palazzo e la state vi sta assai perché, essendo tra monti, vi si sente poco caldo. Passa a lato al castello un fiume grosso, che porta navili da condurre vettovaglie, e si domanda il fiume Is et ha un ponte di legname, donde è nominato Ispruc, che in nostra lingua vuol dire ponte a Is. Trovai in quello castello tanto concorso d’italiani e massime lombardi, che a me pareva essere in una delle buone terre d’Italia. Eravi il cardinale di Santa Croce, mandato da papa Iulio legato per confortare lo Imperatore a fare la impresa contro a’ Veniziani, acciò che loro, impauriti, restituissino le terre tenevono della Chiesa. Et era tanta la paura in Italia della venuta dello Imperatore, che non era rimasto a rietro alcuno, benché minimo principe, che non avessi mandato uomini da Sua Maestà. E’ Sanesi, ancora vi avessino Domenico Placidi, di nuovo vi mandorono messer Antonio da Venafro, iurisconsulto eccellente e nelle cose delli stati molto esperto e di lingua tanto atto a persuadere, che pochi credo ne abbi pari.

Io alloggiai in una stanzetta nel borgo di qua verso Italia, vicina a quella aveva messer Antonio. E perché esso era [52r] uomo affabile e faceto, presi grandissima familiarità seco; e perché non eravammo occupati in molte faccende, passavammo il tempo con dare a intendere qualcosa estravagante a un suo cancelliere molto semplice, o col farli qualche piacevole giarda.

Chiamavasi costui Deifrido da Piombino, et avea qualche lettera, ma se li sarebbe dato a intendere ogni gran cosa. Era, oltre a questo, fuor di misura voglioloso e, sendo di settembre, si ricordava dell’uve e de’ fichi d’Italia e mai domandava se non se ne potessi avere. Messer Antonio, accortosi di questo, domanda una sera un suo servitore chiamato Salimbene, astuto quanto el diavolo, se fussi possibile trovare fichi in quelle parte, perché n’arebbe gran voglia. «Come!» rispose Salimbene, «e’ ne son portati ogni mattina a vendere, ma, per essercene gran carestia, mai si conducono alla piazza perché sono venduti prima; e bisognerebbe tenere uno alla porta che ne comperassi quando sono recati.»

Deifrido, udito il ragionamento, s’offerse di starvi lui la mattina sequente. E così l’altra mattina vi stette insino a nona et i fichi non comparsono. E, parendoli già ora di desinare, se ne tornò a casa e disse non avere veduti fichi. Rispose allora Salimbene: «A che porta se’ tu stato?». E dicendo lui: « A quella del ponte », messer Antonio cominciò a gridare e dire a Deifrido ch’era uno scimunito; e come lui voleva che dalla porta del ponte che viene di verso a’ monti, venissino e’ fichi, e che bisognava stare a quella [52v] che viene di verso il piano. Tanto che Deifrido, dalle grida stordito, andò all’altra porta e vi stette insino a sera, che non vidde né uva né fichi. E così il povero uomo che poco altro nella Magna desiderava che mangiare, fu tenuto con questa arte digiuno insino alla notte.

Un’altra volta el detto Salimbene, dormendo in una medesima camera con Deifrido, apostò a punto il luogo dove lui dormiva. E, fatto nel palco di sopra una buca e messovi una conca piena d’acqua e turatola bene, appiccò una cordella al turacciolo; et in su la mezzanotte, quando Deifrido era profondato nel sonno, tirò detta cordella. La conca si sturò e l’acqua cominciò a venire a dosso a Deifrido di qualità che, dalla moltitudine d’essa svegliato, si ritrovò tutto molle. E Salimbene li fe’ credere che la notte fussi piovuto forte e che quelli tetti non resistono all’acqua come li nostri.

 

Intesi in Ispruc cosa da considerarla perché, come è noto a ciascuno, in Alamagna de’ soddomiti si fa asperrima iustizia, in modo che si può credere che questo vizio di quella provincia sia quasi del tutto estirpato.

Erano alla corte dell’Imperatore dua piemontesi, e’ quali cercavano la investitura d’un castello e per questo piativono insieme. L’uno si chiamava Simon da Chieri, l’altro Ioan Polo da Casale e, come interviene, per questa lite erano diventati inimici mortali.

E considerando Simone che Ioan Polo aveva [53r] migliore ragione, e gli pareva ancora fussi più favorito, deliberò provare se con uno scelerato disegno lo poteva mettere in ruina. E sappiendo che Ioan Polo teneva per ragazzo un fiammingo d’età d’anni quindici, un giorno che passava per la via lo chiamò et, avvedutosi nel parlare ch’el fanciullo non era molto bene contento del patrone, li disse che se lui voleva accusare alla iustizia, per un caso che lui gli direbbe, il patrone, lo farebbe per sempre ricco; e li donò per arra dua fiorini.

Il fanciullo, di natura maligno, volendo male a Ioan Polo, incitato da’ doni et offerte, gli promesse fare quello voleva. E Simone disse che accuserebbe Ioan Polo per soddomito e che lui et il patrone sarebbono presi; e li ordinò quello dovessi dire, e li messe cuore che non dubitassi per minacce o spaventi li fussino fatti, ma sempre dicessi il medesimo, e che questo era il modo a vendicarsi del patrone e diventare ricco.

Il fanciullo, che non sapeva che cosa fussi soddomia né come in quel paese tal vizio fussi punito, rimase d’accordo di fare quello che Simone li ordinava; onde lui accusò Ioan Polo al borgomastro, secondo era convenuto col ragazzo. Il quale subito fece pigliare Ioan Polo et il ragazzo. Et essaminando Ioan Polo, che era innocente, trovò che audacemente negava. Ma il ragazzo subito confessò e dette tante conietture e verisimili, aspettando minacci e battiture, che Ioan Polo [53v] fu messo alla tortura. La quale e’ Tedeschi danno in questo modo che distendano uno uomo in su uno desco, e poi li legono le gambe e le braccia, e tirano a lieva, come si fa a caricare una balestra. Et è questo sì gran tormento, che nessuno vi può reggere: sì che Ioan Polo, vinto dalla passione, confessò tutto quello che diceva il ragazzo, ancora che non fussi vero. E però furono sentenziati al fuoco lui et il fanciullo, secondo il costume del paese.

Era in quel tempo oratore appresso lo Imperatore per il re Federigo di Napoli messer Francesco de’ Monti, famoso iurisconsulto et uomo molto da bene e prudente nelle cose del mondo. E trovandosi in Ispruc et avendo amicizia con Ioan Polo, teneva per certo che lui in questo caso non avessi colpa. Ma questo vizio è tanto nel paese abominabile che non arebbe usato parlarne, né raccomandarlo. E la mattina che si doveva fare l’essecuzione, gli occorse che fussi possibile che al fanciullo fussi suto promesso che non morirebbe, e però che lui stessi sì ostinato in accusare Ioan Polo. Et andato dal borgomastro, gli disse il dubbio che aveva e lo pregò che fussi contento far prima morire il ragazzo; al che il borgomastro acconsentì.

Sono menati Ioan Polo et il fanciullo al luogo della iustizia. Il borgomastro ordina che prima sia arso il ragazzo il quale, veduto avere a morire contro a quello li era suto promesso, ogni cosa per ordine cominciò a narrare e confessare chi l’aveva [54r] indotto a questo e con che arte. Simone, il quale era a cavallo a vedere, subito udite le parole del ragazzo, quanto più presto poté si misse in fuga. Ioan Polo fu libero et il fanciullo fu arso, ancora che fussi giovane, perché il borgomastro non volle che alcuno pigliassi essemplo di calunniare il patrone a torto. E Ioan Polo di poi, sendo libero, intra pochi giorni ottenne la sua sentenzia.

 

Lo Imperatore, mentre stemmo a Ispruc, ogni giorno andava a caccia; e, per festeggiare il Legato, fece un dì una caccia a Cirle, luogo quivi vicino a dua miglia. E fece estendere alquanti padiglioni in su una prateria, la quale aveva dalla man destra il monte e dalla sinistra il fiume, in modo che le fiere che si levavono nel monte erano necessitate, non potendo passare il fiume per essere largo e profondo, tutte venire a morire nel prato davanti a’ padiglioni. E furono presi in quella caccia più che venticinque cervi e’ quali, perseguitati da’ cani, né potendo fuggire al monte per timore delli uomini che v’erano, si gittavono nel fiume; e lo Imperatore coll’arco gli saettava e poi mandava uomini con uno navicello a pigliarli; e quasi mai traeva saetta in fallo. E volle fare uno esperimento che li riuscì, che a un cervo, che avea le corna sì piccole che poco apparivono, trasse in maniera dua saette, che le fece uscire pel capo e tanto a punto che parevono le corna d’esso cervo. [54v] Fece ancora il giorno cacciare a’ gems, le quale in lingua italiana chiamiamo camozze, in latino dorcas.

Abita questo animale ne’ monti più aspri e dirupati che si truovino, perché in tali luoghi non li pare potere essere offeso, e massime dalli uomini. Pure vi sono uomini che vanno con certi ingegni per quelli monti e rupe, che è iudicato cosa impossibile. La camozza li aspetta in tali luoghi; e bisogna che loro sieno molto accorti perché con le corna gli ferisce e spesso gli fa ruinare giù per l’altezza de’ monti, e si truovano a basso in pezzi. Et il giorno ne viddi l’esperienza perché in quello monte fu levata da’ cani una d’esse, la quale si ritirò alto agli scogli e rupe, in luogo che cani non vi potevono salire. Uno uomo, uso a tale essercizio, con certi ferri a’ piedi et una lancia lunga in mano, andò a essa; e già l’aveva presa per le corna, ma tanto s’avvilupporno insieme, che caddono giù pel monte: l’uomo si fracassò in tutto e la camozza, giunta sana al piano, da’ cani fu presa.

 

Presso a Ispruc a un miglio è uno bel castello, chiamato Alla, in sul medesimo fiume, e quivi si fa il sale. El quale non si cava de’ pozzi né d’acqua marina, come ne’ paesi nostri, ma viene una acqua grossa d’un monte altissimo, la quale, bollita, diventa salina tanto bella, quanto si potessi imaginare, donde lo Imperatore [55r] trae grande emolumento. In questo castello, mentre stetti a Ispruc, si fece la fiera che durò quindici dì; e vi vengono assai mercantie d’Italia e massime panni non molto fini.

Intra li altri, in questo tempo vennono a detta fiera dua mercanti bergamaschi, nominati l’uno Andrea, l’altro Nicodemo; e per che causa si fussi menorono con loro le moglie giovane e belle, le quali aiutavano loro vendere e’ panni e poi facevono l’altre faccende di casa. Andrea era vecchio e brutto, e la moglie, che Angiola avea nome, poco di lui si contentava e molto li piaceva Nicodemo. El quale, ancora che non fussi molto giovane, era appariscente e gagliardo, ma amava tanto la moglie, che Ferretta si chiamava, che l’Agnola si disperava potere mai ottenere da lui cosa che la volessi. Ma, accortasi che un giovane della terra, detto Vulgan, molto spesso stava a motteggiare colla Ferretta, pensò d’aiutare questo amore per vedere se con questo modo potessi mettere ad effetto il suo.

E venne a punto bene che Andrea, sendo stato otto dì a Alla, deliberò portare una parte de’ panni più grossi a Sboz, luogo non molto lontano, dove sono le cave dell’argento, stimando finirli meglio. E lasciò l’Angiola che vendessi li altri e si stessi con Nicodemo come faceva prima. La quale, parendoli che la fortuna l’aiutassi, cominciò con destro modo a lodare Vulgan alla Ferretta e dirli che s’era bene [55v] avvista che Nicodemo aveva qualche pratica d’altre donne, e che si maravigliava che, avendo occasione di godere sì bel giovane, non la pigliassi; e che, se ella fussi amata da lui, non indugerebbe troppo a contentarlo. E tanto infiammò con queste et altre parole l’animo della Ferretta, che lei si dispose a far piacere a Vulgan, ma rimase che l’Angiola pensassi al modo. La quale andò subito a trovare il giovane, che molto bene parlava italiano, e compose seco che la sera, a notte, venissi e che lo metterebbe in camera sua a dormire colla Ferretta.

Nicodemo, sendo del mese d’ottobre, usava ogni sera aver cenato a una ora di notte, et a dua andare a riposare, e lasciava la Ferretta insieme con l’Angiola che rassettassino e’ panni e li ordinassino per la mattina sequente. E come lui fu ito a dormire, ne venne Vulgan et insieme colla Ferretta n’andò nel letto dell’Angiola. E, sendo domandata dalla Ferretta dove essa dormirebbe, disse si starebbe nella stufa e, quando li paressi tempo, gli chiamerebbe acciò che Nicodemo non pigliassi sospetto. Né stette molto che in camera di Nicodemo al buio se n’entrò e con lui si messe nel letto. E cominciolli a fare tante carezze che Nicodemo si maravigliò perché la Ferretta sua non era usa a far così: pure fece il debito suo, e più d’una volta.

L’Agnola, per aver causa di levarsi quando gli pareva tempo, quando entrò in camera [56r] legò all’uscio una corda e la portò al letto perché, tirandola, facessi romore. E volendosi partire, tirò la corda, e l’uscio fece romore; e lei ebbe causa di levarsi per vedere che cosa fussi. E, tolto piano li panni suoi, andò dalla Ferretta e li disse ch’era tempo. La quale malvolentieri dal suo amante si partì, perché li parve che la trattassi altrimenti che Nicodemo. Pure, per non dare ombra, a lato al marito n’andò e per monstrare non essere stata con altri, gli fece più carezze non soleva, onde lui disse: " Donna, e’ bisognerebbe che io fussi più giovane a contentarti! ora mi ti lievi da canto per il romore sentisti e di nuovo torni a darmi fastidio". La Ferretta in su queste parole stette sopra di sé, pensando quello volessi dire il marito; e li venne in fantasia quello era seguito a punto ma, trovandosi incolpata, non volle rimescolare questa materia.

L’Angiola, tornata in camera e trovato Vulgan solo né li parendo che Nicodemo fussi riuscito secondo pensava, a lato a lui se n’entrò e, trovandolo giovane, fresco e gagliardo, pensava un modo da poterlo ritrarre dall’amore della Ferretta e porlo a sé. E li venne per la mente questo che, stata alquanto nel letto, monstrandosi molto afflitta disse: "Vulgan mio, noi altre donne siamo tutte fragile e meritiamo escusazione perché così ci ha creato la natura. Tu puoi avere veduto quanto io abbi favorito l’amor tuo con la Ferretta e si può dire che io sia stata causa del peccato seguito tra voi. E questo ho fatto non tanto per lo amore [56v] portavo a te, quanto per potere giacere con il marito della Ferretta, ora che Andrea mio era a Sboz. E questa notte sono stata seco in cambio della moglie, di che mi pento insino all’anima. E mi duole che uno sì galante e pulito giovine, come se’ tu, sia stato con la Ferretta, considerato al pericolo porti, perché ho trovato questa notte Nicodemo tutto piagato di male francioso; di che, come m’aviddi, sanza avere a fare cosa alcuna seco, impaurita mi partì’. E te conforto a non volere avere più pratica con la Ferretta, acciò che da lei non pigliassi simile male, che sai quanto è contagioso e quanti belli gioveni per questo sieno guasti e ridotti in miseria. E, se bene io non son bella come la Ferretta, non credo, quando converserai meco, dispiacerti ".

Il giovine, trovandosi nel letto e temendo di quello li era detto, a essa s’appiccò e li promisse di lasciare in tutto l’altra e così insieme el resto della notte si dettono piacere. La mattina il giovane, per tempo levato, si partì, e le donne e Nicodemo tornorono al loro mestiere usato di vendere e’ panni. Né prima s’appressò a sera che la Ferretta, sendoli piaciuto Vulgan, pregò l’Angiola che la notte lo facessi venire; la quale gli rispose che quando si partì li disse che non potrebbe tornare l’altra sera, non di meno lo fece venire per sé. E così l’altre notte, quando con una scusa e quando [57r] con un’altra la Ferretta trastullava e con Vulgan si giaceva. Ma essa, dopo sei giorni, cominciando a dubitare di quello era, né li parendo che Vulgan la guardassi più come soleva, se ne volle chiarire e, postasi una sera in luogo secreto, s’accorse molto bene che Vulgan dall’Angiola andava e con essa dormiva.

Onde, infuriata, tutto l’amore che all’Angiola et a Vulgan portava in odio convertì; e li entrò fantasia volersi vendicare.

E, sendo intra quattro giorni tornato Andrea, tutto questo caso per ordine gli narrò, monstrando farlo per affezione e per tener conto dell’onore suo. Andrea fu malissimo contento e non volle prestare subito fede alla Ferretta ma, dopo che fu stato in Alla dua giorni, disse alla donna, la mattina in sul desinare, che il dì voleva ire a Ispruc a riscuotere certi danari e che non tornerebbe la sera. La donna, sendo stata sei dì sanza l’amante, gli pareva ogni ora mille che il marito si partissi, et a Vulgan fece cenno che venissi la sera da lei. E sendo venuto et entrati insieme nel letto, il marito, che non s’era partito ma era stato ascosto in casa, a mezzanotte si scoperse e trovò li amanti nel letto. Ma Vulgan, veduto Andrea, niente impaurì: prese le sua arme e disse all’Angiola che seco se n’andassi. Andrea volle fare alquanto di resistenzia ma, sendo vecchio e debole, Vulgan irato l’amazzò e, presi certi danari trovorono di suo, [57v] lui e l’Angiola del castello si partirono.

Nicodemo, avendo la notte sentito il romore e veduto quello era seguito, deliberò la mattina per tempo con la moglie partirsi. E rassettate tutte le cose sua et ancora quelle d’Andrea, pensando, come s’usa per parte de’ mercanti, della roba d’Andrea a nessun dare conto, e parendoli per questo non avere male guadagnato alla fiera, se n’andava assai contento. La Ferretta, conoscendo che il disegno suo era tutto riuscito al contrario e che l’Angiola era per godere Vulgan un tempo tutto libero, non poté stare paziente e pensò lasciare il marito e cercare se poteva ritrovare Vulgan. E però si compose con un famiglio tedesco che Nicodemo teneva e la notte s’andò a Mastera, dove si posorno il primo dì che partirono da Alla. Sappiendo dove Nicodemo teneva li suoi danari, quelli tutti tolse e la notte si partì col famiglio.

E così delli duoi mercanti che menorno le donne alla fiera, l’uno fu morto, l’altro restò sanza la donna e con pochi danari. Se la Ferretta trovò poi Vulgan o no, o quello di lei seguissi non so, a punto perché il caso nacque mentre ero a Ispruc. Ho bene inteso poi che si ridusse in Argentina con quel famiglio a fare osteria. E Vulgan ancora insieme con l’Angiola in Boemia si fuggì, dove bisognò stessi qualche tempo.

 

Come [58r] ho detto di sopra erano in Ispruc assai italiani, mossi  in sulla fama della venuta dello Imperatore in Italia. Tra li altri vi era, per faccende di Ioan Paulo Baglioni, uno perugino chiamato ser Ciabattella, el quale era uomo faceto e sollazzevole. E non avendo molto che fare, spesso se n’andava a un munistero de’ frati conventuali di San Francesco, che era poco fuori del castello. E, come interviene a chi pratica in un luogo, prese grande familiarità con uno d’essi frati, chiamato Idrico. Et, ancora che ser Ciabatella non intendessi tedesco né il frate italiano, parlavano insieme una certa gramatica grossa in modo s’intendevano.

Aveva questo frate, al lato, un paio di gentili coltellini forniti d’argento, con un cucchiaio pur d’argento, li quali piacevono molto a ser Ciabattella, ma non poteva investigare modo di levarli al frate. Ma, considerando che il frate gli teneva appiccati al cordiglio con una cordellina di seta galante, cominciò a fare il divoto con questo frate. Et una mattina, andando da esso a buona ora, li disse che avendo a ire appresso allo Imperatore, che di quivi si voleva partire, aveva deliberato, remossa ogni cagione, avanti sua partita confessarsi, e che l’ora della morte è incerta, e che era ben contento mettere per il suo Signore la roba e la vita, ma non l’anima; e che lo pregava per carità l’udissi in confessione.

Il frate, prestando fede a tante sue divote parole, prese il carico [58v] d’udirlo e, cominciando la confessione, l’andava interrogando sopra e’ comandamenti. E lui gli rispondeva che pareva la più divota persona del mondo. E così seguitando, quando il frate venne al precetto che dice: ’Non furare’, lo ricercò se avessi mai furato cosa alcuna. Ser Ciabattella, che ad altro fine non si confessava che per tôrre e’ coltelli al frate, messe a questa interrogazione un grande sospiro e, quasi lacrimando, rispose: « Io ho furato e furo ». E mentre disse queste parole, con un paio di forbicine, più piano che possette, la cordellina tagliò e si prese e’ coltelli.

Il frate di questo atto niente s’accorse; ma, attendendo alla confessione, ser Ciabattella, che aveva essequito la sua intenzione, si sforzò d’abbreviarla et in ultima, presa l’assoluzione e la penitenzia, si partiva con buon passo dal frate. El quale, cercando il cordiglio e non ritrovando e’ coltelli, pensò subito che ser Ciabattella li avessi tolto e con gran voce indrieto lo richiamò. Ser Ciabattella alquanto fermatosi li disse: « Frate, non fare romore e sia contento non manifestare la confessione, che sai in quanta pena s’incorre! Io mi son confessato da te e detto che avevo furato e furavo, e tu non puoi in modo alcuno ridirlo ». Il povero frate, considerando che ser Ciabattella diceva il vero, raffrenò la voce; e lui con li coltelli se li levò davanti.

 

 

[59r]  LIBRO QUARTO

 

Essaminando qualche volta tra me medesimo quanti sieno li affanni, le turbolenzie, le guerre e pericoli ne’ quali si truova non solo la città nostra, ma tutta Italia, e non solo Italia, ma quasi tutto il paese di che abbiamo cognizione, ho pensato non solo lasciare lo scrivere, ma omettere ogni altra cosa della quale potessi pigliare piacere alcuno. Ma meglio a quello che è passato pensando e per la mente rivolgendolo, ho conosciuto in ogni età quasi queste medesime cose essere successe; e poi che il mondo fu creato, non esser mai stato pacifico, ma sempre inquieto.

E mettendo da parte l’antiquità delli Egizi, Assiri e Medi, quelle republichette di Grecia e Lacedemone e Tebe e Atene e tante altre sempre stettono in risse e contenzione e sempre l’una consumò l’altra insino che si destrussono. Alessandro Magno grande briga al mondo dette, più popoli in servitù ridusse, molte provincie guastò.

Cominciorno poi e’ Romani, che alla misera Italia, alla afflitta Grecia, all’Asia, all’Africa, a’ Galli, a’ Germani et a molte altre nazione furono per molti anni flagello durissimo. E quando furono cresciuti, nacquono tra loro le guerre civili, che furono causa che, in Italia et altrove, molte città a sacco e fuoco andorono, e che molte meschine verginelle in servitù fussino condotte.

Quanti pessimi tiranni in Roma [59v] si viddono! Quanti scelerati  e pazzi in Roma dominorono! Quante volte la republica in mano di falliti e rovinati venne, insino che Costantino, d’Italia partito, non più una parte d’essa, ma tutta in preda a più popoli barbari la lasciò, a Unni, Eruli, Vandali, Gotti e Longobardi!

Et essa Roma, da loro presa, fu in tutto messa in preda e desolazione; et il resto d’Italia fu guasto, rubato, dissipato et arso.

E così dipoi successivamente spesso li è accaduto; in essa sono venuti Galli, Germani, et altri popoli, Federigo Barbarossa, Federigo secondo, tanti Ottoni et Enrici, che quella, quando un poco s’è riavuta, di nuovo hanno prostrata. E se qualche volta cinquanta anni da’ barbari è suta libera, non è che non abbi avuto continua suspizione d’essi e che tra sé medesima non si sia insanguinata.

Non è dunque maraviglia se ne’ nostri tempi sono accascate le medesime cose che altre volte sono state. Non s’hanno per questo li uomini a ritrarre, per quanto è lor possibile, dalli studi et essercizi consueti, perché Iddio e la natura, che questa variazione lasciano seguire, niente fanno in vano e vogliono che questo mondo, quanto dura, del continuo più bello e più delettabile diventi. Né questo seguirebbe se li uomini, impauriti delle guerre, dubitando della morte, a niente altro che a dolersi attendessino. E però noi, che in questi tempi siamo, imitando e’ passati che in simili travagli [60r] e forse più gravi si sono trovati, non desisteremo da fare quelle opere indicheremo a proposito: et io non desisterò dal mio scrivere.

 

Era già l’autunno passato e ne veniva il verno, e massime in Alamagna dove li freddi cominciono prima e durano più che in Italia. E per questo lo Imperatore, al principio di novembre, volle partirsi dalli monti e ridursi alle pianure in Svevia, et ordinò che il Legato e li altri oratori lo seguissino. E però messer Antonio da Venafro et io, a mezzo novembre, ci partimmo d’Ispruc con freddo grande e neve, e ci fermammo la sera a Delfo che è un buon borgo, distante da Ispruc quattro miglia.

Nella medesima osteria dove noi, erano la sera alloggiati uno archidiacono d’Erbipoli, che andava a Roma, et uno prete da Santes vicino al Paese Basso che veniva da Roma, dove era stato un tempo cappellano del cardinale di Pavia, et infastidito de’ costumi della corte se ne tornava a casa. E come accade che chi vuole andare in un luogo volentieri parla e domanda quelli vi sono stati e che di quivi di poco si partono, l’archidiacono interrogava il cappellano di molte cose di Roma e, sendovi stato altre volte, lo ricercava se era vivo questo e quell’altro prelato, e molto lodava la corte di Roma, come è costume di tutti e’ prelati ricchi che in essa stanno perché [60v] quivi sanza alcuno rispetto conseguono tutte le lor voglie. Il cappellano, che mal contento da Roma si partiva, dannava il Papa, i cardinali e tutti e’ prelati, e li costumi e cerimonie della corte romana e, per scoprirli meglio, disse essersi trovato alla morte di papa Alessandro e che lui fu avenenato. E domandandolo io in che modo, rispose che e’ segni del veneno si viddono certi, ma il modo è dubbio, e che lui n’aveva uditi contare tre.

Il primo, e che è creduto dalli più, fu che papa Alessandro, avendo bisogno di danari, pensò di dare il veleno a tre cardinali ricchi et ordinò che il cardinale Adriano lo invitassi una sera alla sua vigna, dove fece ancora chiamare quelli cardinali a’ quali voleva dare il veneno e delli altri per levare il sospetto. E del modo del veneno dette la cura al duca Valentino, il quale fece tôrre dua fiaschi d’ottimo vino et in essi messe il veneno. E mandò detti fiaschi per un suo servitore alla vigna, dove avevono a cenare, con ordine fussino messi in fresco. Et era rimasto col suo credenziere a chi avessi a mettere di detto vino; né s’accorse il Valentino di conferire al Papa quello aveva ordinato. Occorse che il Papa giunse alla vigna avanti al Valentino et, avendo sete, gli fu dato bere del vino di quelli fiaschi. Et a pena aveva finito [61r] di bere che il Duca arrivò et ancor lui assaggiò un poco del medesimo vino et, accortosene, subito conobbe che il Papa n’aveva beuto assai e che non vi era rimedio. Et il convito fu tutto conturbato e per la sera non si cenò altrimenti, perché il Papa subito ammalò et in quattro giorni morì. Et al Duca ancora venne male, ma perché era giovane et aveva beuto poco, ebbe grande infermità, pure se ne liberò.

Altri dicono che il cardinale Borgia, nipote di papa Alessandro, il quale morì a Urbino, aveva un fratello, chiamato messer Ramirro capitano della guardia del Papa, e pensava che la roba del Cardinale avessi a essere sua. Ma, avendosela presa il Papa, lui ogni giorno con importunità la domandava, onde il Valentino lo cominciò avere in odio e pensò levarselo davanti. Et una sera che il Papa cenava alla vigna d’Adriano, fece invitare messer Ramirro, che v’andò malvolentieri perché era stato malato et ancora non era ben guarito. E però fu dato ordine al cuoco che ordinassi per messer Ramirro qualche vivanda a proposito. Et il Duca si compose con un suo servitore, el quale adoperava a queste cose, che mettessi in sulla vivanda di messer Ramirro certa polvere bianca, che era veneno. Il servitore, andato in cucina, domandò il cuoco se aveva [61v] ordinato niente da parte per messer Ramirro, et il cuoco disse di sì e gli monstrò certo biancomangiare in una pentola. Il servitore, stato alquanto in cucina, appostò che il cuoco fussi occupato e messe la polvere nella pentola e poi si partì. Il cuoco, come è di costume, assaggiando poi il biancomangiare, subito si senti cuocere la gola, perché il veneno era ancor di sopra, e pensò quello potessi essere stato, perché sapeva e’ modi del Papa e del Duca. E, conoscendosi mortale, volle che delli altri, e gran maestri, morissino quando lui. Et avendo a fare una torta, prese la maggior parte di questo biancomangiare e ne compose la torta la quale, portata in tavola, offese più o meno, secondo la quantità ne fu mangiata.

Il Papa, al quale simile vivande piacevono assai, ne mangiò tanta che subito cascò malato e presto morì. Il Duca, che ne mangiò poca, ammalò ma guarì, e così feciono delli altri. Messer Ramirro, che mangiò la minestra, in dua giorni andò via.

Sonci di quelli che dicano che al Papa fu dato il veneno da un suo cameriere, nel modo che io dirò.

Era in Roma uno scrittore appostolico, cortigiano antico, uomo da bene, ricco e di buon costumi. A costui dispiaceva assai la vita di papa Alessandro e non aveva altro desiderio se non di sopravvivere a lui [62r] e, conoscendolo robusto e di gran complessione, pensò che, se non fussi aiutato morire, era per vivere un tempo. E per vedere se poteva venire a questo suo disegno, prese pratica stretta con uno cameriere del Papa, el quale era spagnuolo ma molto semplice. Et ogni giorno gli donava qualcosa e gli faceva conviti e l’accompagnava per Roma, onde il cameriere pose tanta affezione allo scrittore che non sapeva vivere sanza esso. Et essendo molto forte innamorato d’una vedova milanese e non trovando conrispondenzia in questo amore, lo conferì uno giorno allo scrittore, richiedendolo d’aiuto e di consiglio.

Lui rispose: « El consiglio che io ti darei, sarebbe che tu ti levassi dalla fantasia questo amore ma, quando tu non possa o non lo voglia fare, credo bene trovare modo di farti conseguire il desiderio tuo. Ma bisogna che quello abbiamo a fare sia secreto perché sarà forse necessario venire a certi incanti che, quando s’intendessi che io li usassi, potrei essere disfatto dal mondo. Però voglio mi dica il nome di questa tua innamorata et il luogo dove sta, et intra quattro giorni ne parleremo altra volta insieme ».

Il cameriere gli disse quello che li domandava e li promisse tenere tutto secreto. Lo scrittore, intesa chi era la donna, l’andò a trovare e [62v] tanto con parole e doni e promesse la seppe persuadere, che essa si dispose in questo amore del cameriere governarsi appunto secondo la volontà dello scrittore. Onde lui intra duo giorni trovò il cameriere e gli disse che, se sapeva trovare ordine di fare dare alla dama certa polvere incantata nella vivanda, che vedrebbe che ella gli porterebbe tanto amore che ne resterebbe maravigliato. E rispondendo il cameriere che aveva tanta amicizia con una servente della dama, che non gli mancherebbe modo a darli la polvere, lo scrittore lo menò seco verso certi luoghi solitari di Roma. E, monstrandoli una erba che aveva le foglie molto grande, gli disse che la mattina, due ore avanti giorno, venissi in quel luogo e ricogliessi la polvere che troverebbe in su quelle foglie e di quella facessi poi dar mangiare nella vivanda alla dama. E come furono partiti l’uno dall’altro, lo scrittore tornò e in su quelle foglie messe certe polvere odorifere e partissi.

Il cameriere, la mattina sequente, all’ora ordinata, tornò a quel luogo e levò delle foglie quella polvere, e pensò che la notte dal cielo vi fussi caduta. E per un suo servitore la mandò alla servente della dama acciò gnene mescolassi nella vivanda. Lo scrittore, come intese questo, andò dalla vedova e [63r] la pregò che la sera, quando il cameriere vi passava, gli facessi buona cera e l’altro giorno lo mandassi a invitare a cena, tanto che, seguendo queste cose, il cameriere indicò che quella polvere fussi mirabile. La vedova era fine e non li compiaceva però d’altro che di parole e d’accoglienze e piacevolezze, ma a esso bastava questo, e gli pareva essere il più felice innamorato di Roma.

E pensando alla virtù di questa polvere et ancora che fussi cameriere del Papa non li parendo essere favorito a modo suo, ringraziò un giorno lo scrittore del servizio li aveva fatto, e li li conferì quanto fussi in grazia della dama e lo domandò se questa polvere opererebbe così in uno uomo come aveva fatto nella sua innamorata. Lo scrittore, che gli parve che la lepre andassi verso le rete, gli rispose che la virtù non era solo nella polvere, ma era nelle parole e che, quando lui gli dicessi a chi la volessi dare, farebbe lo incanto di nuovo, e che era certo ne seguirebbe il medesimo effetto.

Il cameriere allora li aperse l’animo suo che era che il Papa li ponessi più amore, acciò ne potessi trarre più, donde tutti a dua ne diventerebbono felici. E però lo scrittore li disse che andassi la notte sequente a il medesimo luogo e ricogliessi la polvere delle foglie e poi la dessi al Papa. E partitosi da lui n’andò là e  messe in sulle foglie [63v] veneno in polvere bianca la quale, raccolta dal cameriere e data nella vivanda a papa Alessandro, della quale mangiò ancora il Valentino, fu causa che l’uno morissi e l’altro infermassi gravemente. E così lo scrittore conseguì, con sottile arte, il desiderio suo e, venendo a morte, confessò il caso e ne volle l’assoluzione da papa Iulio.

 

Arebbe il cappellano detto molte altre cose e l’archidiacono risposto ma, sendo già gran pezzo di notte, noi volemmo cenare e poi dormire. E la mattina, rispetto alli diacci, non cavalcammo per tempo et avemmo fatica condurci la sera a uno villaggio chiamato Ulbach.

Nel medesimo alloggiamento trovammo certi servitori del Legato, intra quali n’era uno spagnuolo nominato Gaioso che, vedendo una nipote dell’oste, o forse bisnipote perché lui era vecchissimo (e dicevono le donne lo governavono che aveva più di cento anni) gli parve molto bella e, considerato la sera dove s’andava a posare, vidde andava nella stufa dove, in certe cucce separate, dormiva lei e quel vecchio. Et iudicò esser facil cosa, non sendo altri nella stufa, entrarvi la notte e menar via la fanciulla perché il vecchio non era atto a difenderla. Et in sul primo sonno entrò con un famiglio nella stufa e s’accostò alla cuccia della fanciulla la quale, con timore destasi, cominciò tanto forte a gridare che tutti quelli di casa, udito il romore, si levorono e chiamorono e’ vicini, [64r] che armati corsono: e le campane cominciorno a sonare  e tutto il paese si voltava quivi.

A noi pareva essere a tristo partito; pure, avendo certi servitori tedeschi, facemmo intender per loro alle brigate che venivono che quelli del Cardinale erano separati da noi in modo che scampammo quella furia. Gaioso et il servitore furon morti e certi altri spagnuoli che li vollono difendere; li altri furono lasciati liberi. Per questo pericolo noi, da quel tempo avanti, non volemmo alloggiare in osteria dove fussino ispagnuoli.

 

La mattina, sendo freddo, ci partimmo tardi e la sera ci posammo a Fiessen che è assai buon castello al principio di Svevia, signore del quale è il vescovo d’Augusta. Alloggiamo con un oste che pareva buon compagno: ma la notte vi stemmo, gl’intervenne un caso strano e piuttosto tragico che altrimenti.

Lui era d’età d’anni cinquanta et, essendoli morta la prima donna e restatoli d’essa un figliuol solo, d’età d’anni diciotto, gentile e grazioso, prese una altra donna giovane e bella. E l’amava fuori di misura, pure non la poteva contentare in tutto di quello che le più delle giovane donne desiderano. Teneva costui in casa, come è costume delli osti, più famigli, onde lei tra tutti ne scelse uno più galante et, in conclusione, con esso suppliva a quello che il marito mancava. Né questo poté fare sì cautamente che il marito, che [64v] astutissimo era, non se n’accorgessi e, pensando intra se stesso come se n’avea a vendicare, l’amore che portava alla donna fece che inclinò a punire il famiglio e deliberò amazzarlo. Dormiva questo famiglio in una camera presso alla porta della casa, nella quale qualche volta il figliuolo dell’oste, quando tornava tardi la notte, come fanno e’ giovani, entrava per non esser sentito dal padre e quivi dormiva il resto della notte.

Accadde a punto che l’oste pensò essequire la sua fantasia la notte che fummo quivi. E quando li parve tempo che ogni uomo dormissi si levò et andò alla camera del famiglio, la quale trovando aperta, perché il famiglio era ito fuori di casa e lasciato nel letto il figliuolo dell’oste, accostatosi al letto, con dua ferite il proprio figlio amazzò, credendo aver morto il famiglio. E, perché non si ritrovassi, prese a dosso il corpo morto e lo gittò in un canale non molto lontano dalla casa sua.

La mattina per tempo l’oste si lieva e, fattosi alla finestra, vede il famiglio che spazzava avanti la porta e, tutto tremante e pallido, corre al canale e trovò il morto corpo in sulla riva e, sanza pensare a altro, nell’acqua furiosa si gittò e la misera vita finì.

Noi, che pensavammo a buon’ora mangiare, sentimmo a un tratto pianti e romore per l’osteria de’ parenti e vicini e per questo, quanto più presto potemmo montati a cavallo, del castello ci partimmo e, con grande incommodo, la sera [65r] ci conducemmo a Cofpair, che è una piccola terra libera in Svevia.

 

Era in quel luogo alloggiato lo Imperatore perché, sendo terra di piano e con palude intorno, aveva commodità d’andare a caccia d’oche salvatiche e germani e simili uccelli; et aveva gran piacere nel pigliarli. Per essere il luogo stretto vi era dificultà d’alloggiamenti. Pure a noi fu dato uno oste ricco, ma oltre a modo fastidioso e villano e, perché vi stemmo quattro giorni, venne tanto in odio a’ nostri servitori, che volentieri li arebbono fatto ogni male.

Lui non restava mai di gridare, sempre rimbrottando chi alcuna cosa li domandava. Faceva mercantia di vino e n’aveva sempre nella volta gran quantità, onde uno de’ nostri, più astuto che li altri, chiamato Gianni, pensando di vendicarsi di questo vecchio, una mattina a buona ora andò in corte e, cantando come era solito con certi cantori dello Imperatore, venuta l’ora di far colazione come assaggiò il vino, disse che non valeva. E, rispondendo il mastro di casa che in quella terra non era il migliore, Gianni soggiunse che, se lui facessi cercare nella osteria dove era alloggiato il suo padrone, lo troverebbe buono e di più sorte. E però il mastro di casa fatta insegnare la stanza a’ suoi servitori e così e’ cantori non restorono in quello tempo vi stettono di mandare per esso. Il vecchio lo dava malvolentieri, ma non poteva negarlo; se non che, quando n’ebbe consumato circa cinquanta barili, cominciò a dire [65v] che il resto serbava per noi. Il che come Gianni intese, a tutti quelli che venivono per esso, diceva che del vino n’era assai, e che a noi non aveva voluto dare, e che ci bisognava mandare per esso fuori. E però quelli di corte a gara mandavono per esso; et il vecchio non voleva che l’attignessi altri che lui.

Onde Gianni, per fornirlo meglio, una mattina per la scala molte noce gittò e subito fece venire uno de’ credenzieri dello Imperatore a domandare il vino per la persona di detto Imperatore. Onde l’oste, correndo giù per la scala, trovando le noce, cominciò al terzo scaglione a sdrucciolare e si condusse insino a basso. Era vecchio, aveva l’orciuolo in mano, in modo che si percosse tutto e si roppe una gamba: e così fu gastigato della sua avarizia e perversa natura.

 

Partendo di quivi lo Imperatore, noi lo seguimmo in un castelletto chiamato Mindelen e la sera alloggiammo in casa uno sarto. La casa era grande e più bella che non pareva ricercassi la condizione sua; e noi fummo ammirati che, sendo stati delli ultimi di corte a comparire, trovassimo sì buono alloggiamento vacuo.

Né prima fummo smontati, che il patrone della casa ci si fece incontro e ci disse: « Uomini da bene, io vi ricevo molto volentieri e di quello potrò vi farò onore e carezze. Doggomi bene che arete una incommodità grande circa il dormire, perché in questa casa è uno spirito che non resta mai in tutta la notte di fare romore: e però ci sto drento io che so[66r]no povero compagno, e di sì buona  casa pago un niente ».

Il Venafro, stimando che lui dicessi queste parole per metterci timore, acciò non stessimo quivi, li disse: « Buono uomo, pensa che da noi se’ per trarre, perché ti satisferemo di tutto quello torremo del tuo, e largamente, sì che non bisogna ci metta paura perché ci partiamo, perché oramai non possiamo ire altrove ».

Il sarto monstrò accettarci lietamente, ma replicò che lo spirito era verissimo e lo affermò con tanti giuramenti, che gli cominciammo a credere. Ma, non potendo partirci, pensammo vedere la notte questa festa e, sendo dieci in compagnia, ci riducemmo tutti la notte a stare nella stufa e quivi facemmo portare e’ letti. Aveva seco messer Antonio uno che di sopra nominai Salimbene il quale, sendo soldato, volle fare la notte il bravo e promisse i volere vedere che spirito fussi questo. Cenammo molto bene poi serrammo molto bene l’uscio della stufa e ci mettemmo a dormire. Salimbene tenne appresso di sé un torchio et un lume coperto, da poterlo accendere.

Era già circa a mezzanotte, quando sentimmo aprire per forza l’uscio della stufa; et al romore tutti ci destammo e, stando in orecchi, sentimmo per essa strascinare a modo di catene che facevono romore grandissimo. Salimbene, subito, salta fuori del letto et accende il torchio e niente vedeva. Pure il romore del continuo cresceva e però lui si dispose seguitare [66v] questo romore e chiamò Ulivieri, mio servitore, che ancor lui si faceva di buone gambe, e lo menò seco. Et andavano a punto dove udivono il romore, il quale durò nella stufa più d’una ora continuo, poi se n’uscì; e Salimbene et Ulivieri drieto, e quasi per tutta la casa s’aggirorono seguendo queste catene. Quando fu presso a dì, il romore se n’andò verso le scale e scese da basso nella volta. Et allora loro referirono avere visto uno uomo grande, tutto vestito a nero lungo, che gli faceva tremare, con una barba lunga folta e nera, che copriva la qualità del viso; et a un tratto in un canto della volta essere sparito, e prima aver detto certe parole in tedesco, le quali loro, per non sapere la lingua, non avevono intese.

Tornorono di sopra tutti tremando e stettono più che mezza ora avanti potessino parlare; pure, ritornati in loro, dissono quanto avevono visto. Et il sarto si fece condurre in quel luogo e, cominciando a cavare, trovò ossa quasi consumate et appresso uno calderotto di rame, pieno di fiorini di Reno che erano più che quattromila. Andò alla chiesa pe’ preti e fece portare l’ossa nel cimiterio; e li udimmo dire poi, più d’un mese che vi passammo altra volta, che non aveva sentito più romore alcuno. Se danari li tolse per sé o li dette al patrone della casa, non so; ma a’ nostri fece buona mancia, che la meritavano.

 

E noi, seguendo lo Imperatore che era ridotto in Meming, in quel luogo [67r] il dì medesimo che lui giugnemmo, dove stemmo fermi  quasi un mese. E perché io avevo poca faccenda, attendevo a passare il tempo con andare a torno fuori delle mura, che era dilettevole gita perché la terra è posta in piano et ha dua ordini di fossi, pieni d’acqua di pesci; e tra l’uno e l’altro fosso perché non vi possono ire e’ cavalli, è bello andare a piè.

Et avendo preso pratica con uno della terra chiamato Guglielmo, ogni giorno con lui andavo una volta a torno alla terra. E, se bene non intendeva italiano, intendeva un poco di latino e tanto che di tutto quello domandavo ero da lui satisfatto. E lo domandai un giorno come si governavono.

Lui mi rispose che quella terra dava l’anno allo Imperatore fiorini trecento di Reno e, quando veniva quivi, li ordinavono l’abitazione e li donavono, quando giugneva, tanto che poteva valere fiorini venticinque in pesci e vino; dipoi lui non s’impacciava in niente nelle faccende loro. Creavono uno borgomastro per uno anno, e dodici consiglieri e questi iudicavono de’ casi criminali e civili come pareva loro, et alle sentenzie d’essi non si poteva appellare. Et avanti finissino il magistrato, eleggevono da loro medesimi un nuovo borgomastro e dodici consiglieri. E così si faceva successivamente, né ragunavono popolo né consiglio altrimenti.

Avevono le loro entrate delle gabelle e del sale, delle quali pagavano [67v] il diritto all’Imperatore; poi tenevono guardie per  potere castigare e’ tristi, a fine che per il paese loro si potessi ire sicuro. Spendevano in rassettare ponti e vie; comperavono munizione e di vettovaglia e d’altre cose necessarie alla guerra e, se avanzava, cumulavano per potere aiutare le città e principi della lega di Svevia, quando fussino molestati. E mi disse che in quella terra era un vivere queto e pacifico e che ciascuno godeva il suo dolcemente.

Questo Guglielmo aveva preso tanta familiarità meco, che volle andassi una sera a cena con lui: non a convito, ma a cena più che ordinaria. Né mi pare inconveniente, per dare miglior notizia de’ costumi d’Alamagna, scrivere l’ordine della cena.

Era del mese di dicembre et il freddo era grandissimo, e però era la stufa calda. Et a una ora di notte ci mettemmo a tavola, lui, la donna, un portoghese servitore del Legato et io.

La tavola era quadra et in ogni quadro stava uno; et il più degno luogo è quello che è volto verso il muro. Avanti ci mettessimo a tavola, ci lavammo le mani a un cannellino a vite, che era in un vaso di stagno appiccato all’asse della stufa, e sotto aveva un gran bacino d’ottone da ricevere l’acqua.

In tavola la prima cosa fu posto un cerchio d’ottone nel mezzo del quadro, dove s’avevono a mettere e’ piatti, acciò non guastino la tovaglia. In su questo cerchio fu posto un piatto di lattuga da paperi et in su li orli del piatto [68r] quattro uova sode divise pel mezzo. Levato questo, vi fu messo un piatto grande, dove era un bel cappone e certi pezzi di vitella et il brodo con questa carne. E ciascuno aveva avanti una fetta di pane più bruno che quello che mangiava et in su detta fetta tagliava la carne che levava del piatto et, a ogni vivanda, da’ servitori era mutato fetta. Dopo, venne un piatto piano, dove era pesce, e certi scodellini d’aceto; appresso un piatto di vitella arrosto; poi un grasso cappone, pure rostito; poi un piatto d’orzata con brodo di pollo; dopo, pere non buone e cacio tristo; vino bianco e vermiglio, di più sorte e buono, in bicchieri d’argento; et acqua con dificultà a chi la domandava. La donna non dimestica come in Francia né selvatica come in Italia.

Cenammo molto bene, parlammo di più cose e poi ciascuno se n’andò allo alloggiamento.

 

Io stavo all’Osteria del Sole in piazza, con uno oste ricco e buon compagno, il quale aveva la donna giovane. Alloggiava in questa medesima osteria uno spagnuolo, detto Castro, che era a presso lo Imperatore, per avere danari per capo di fanterie.

Era uomo piccolo e sparuto e superbo e vano, e gli pareva che ogni femmina si dovessi innamorare di lui. E sendoli piaciuta l’ostessa, che era piacevole come da quello essercizio e scherzava e motteggiava qualche volta seco, prese tanto animo che, apostata una sera la camera sua [68v] e sappiendo che il marito era ito a cena  fuori, se n’andò a quella camera. E stimando esser da lei raccolto amorevolmente, entrato drento, subito gli gittò le braccia al collo.

Ella, spaventata, cominciò a gridare. L’osteria era piena: corsono là assai garzoni e, tra li altri, il fratello dell’oste il quale, inteso il caso, gli menò d’una spada in sul capo e ferillo a morte: e tal fine ebbe la matta presunzione dello ispagnuolo.

Né voglio omettere di narrare una giarda, o per meglio dire un furto, che fu fatto in quel tempo a uno italiano, sottilmente.

Era alla corte un certo milanese, chiamato Franceschino, che diceva che negoziava per il signore di Pesero, tristo il possibile, dispettoso e baro, et avea fatto in modo, con suoi giuochi e barerie, che avea ragunato fiorini milleduecento; e li aveva messi insieme in un legato di canovaccio e gli teneva nella stanza dove stava in una sua bolgetta. E perché era vano e leggieri, come si trovava con altri italiani, parlava di questi suoi danari et, essendo stato scoperto baro, non era alcuno che volessi più giucare seco.

Era allora in Meming un veniziano, detto Polo, el quale era stato servitore di messer Vincenzio Quirino oratore veniziano et, innamorandosi d’una tedesca, era rimasto quivi. Et essendo povero et avendo più volte udito dire a Franceschino che aveva questi danari e [69r] che si voleva partire perché li consumava non trovando più con chi giucare, cominciò a stare spesso intorno a detto Franceschino e trarseli di testa, lodarlo, accompagnarlo e, perché il servitore suo s’era partito, a servirlo, tanto che, a poco a poco, Franceschino gli pose amore e si fidava di lui in ogni cosa. Et ancora che non li dicessi dove teneva e’ suoi danari, usando spesso la camera, e con Franceschino e solo, s’avidde che non potevano essere altrove che nella bolgetta. E, presa una volta la commodità, trasse il legato della bolgetta e, scioltolo, prese e’ fiorini, et in cambio di quelli, nel medesimo legato, messe quarteruoli. E, per fare che il legato pesassi come prima, vi aggiunse tanto piombo che a punto faceva il peso de’ fiorini e, rassettato il legato, lo rimesse nella bolgetta.

Ma, ancora che avessi tolti e’ danari, non sapeva come fare a partirsi e dubitava, partendosi, che Franceschino non se n’accorgessi e li mandassi drieto. Et, avendo a ire molte giornate per Alamagna e sendo veniziano, contro li quali lo Imperatore aveva dichiarato la guerra, temeva. E però pensò un modo che Franceschino lo mandassi fuori per tre o quattro giorni, ne’ quali piglierebbe tanto campo che non potrebbe poi essere raggiunto. E, trovatolo una volta in pensiero e fantasia, li disse:

« Patrone mio, io conosco che tu stai maninconico perché pel passato hai giucato e vinto et al presente, non trovando più chi giuochi teco, spendi e consumi. Ma io crederrei darti un modo col quale non solo vinceresti quanto hai di bisogno [69v] per spendere, ma ancora congregheresti grossa somma di danari.

Tu sai che messer Vincenzio, mio padrone, stette questo anno in Augusta dua mesi senza faccenda alcuna et io, in quel tempo, quasi libero non attendevo a altro che a giucare. Et avevo trovato uno che pareva il migliore uomo del mondo che faceva carte alla romanesca, le quali io tutte conoscevo di fuori; et a ogni giuoco di carte guadagnai assai, e guadagnavo più se non fussi stato una volta scoperto. Ma qui non se ne sa nulla, e però io pensavo, quando ti paressi, d’andare insino in Augusta, per venti o trenta paia di simil carte. E bisogna che io vadi e non mandi, perché colui che le fa teme tanto, che non le darebbe a altri che a me. E, quando sarò tornato con esse, tu mi potrai far forte di danari, et io giucherò per te, che a me ogni piccola parte basterà. E seguiteremo la corte, vivendo grassamente alle spese d’altri, et avanzeremo ancor tanto da potere sguazzare in Italia ».

A Franceschino, che era un fine tristo, non potette più piacere il partito e, perché potessi andare più presto, volle che menassi un suo buon cavallo. E così Polo, con il legato de’ fiorini, la mattina sequente a cavallo si partì e, come fu fuori della terra, prese il cammino verso Italia.

Da Meming a Augusta sono dua giornate e però Franceschino, insino in cinque dì, non stette ammirato perché pensava che dua ne mettessi a andare, dua a tornare et uno a star là. Ma come passò il sesto, cominciò a stare in fantasia e, per passarla, si pose [70r] a giucare con uno che ne intendeva più di lui. Et avendo perduto lor quanti danari si trovava acanto, mandò alla stanza sua per la bolgetta e, come fu venuta, ne trasse il legato e con uno coltello l’aperse e subito s’avidde che, in cambio de’ fiorini di Reno, v’erano suti messi quarteruoli: e tardi conobbe che Polo l’aveva ingannato e, disperato, a piè si misse a volerlo cercare. Et intesi che, per la fatica e dolore, presto s’ammalò et in pochi giorni a una osterietta si morì.

 

Era già più che mezzo dicembre, quando allo Imperatore parve di partire da Meming per ire verso Italia perché e’ principi e città cominciavono a mandare le gente a piè et a cavallo, convenute nella Dieta di Constanzia. Et a noi fu ordinato seguitassimo il Legato che andava in Augusta per vedere quella città, che in vero merita d’esser veduta volentieri. E però il Venafro et io ci partimmo un giorno dopo mangiare da Meming e, cavalcando per luoghi piani et acquosi, la sera arrivammo a un borgo detto Underberg e ci posammo a una osteria assai buona.

Quivi era la sera alloggiato Sigismondo tedesco, secretario del Legato, giovane d’anni ventidua e pulito e bello. L’oste aveva intra l’altre brigate una figlia, chiamata Margherita, d’anni diciotto, et ella ancora, secondo il costume della Magna, attendeva a servire e’ forestieri. E nel servire e motteggiare gli piacque questo Sigismondo e pensò la notte, a ogni modo, dormire con lui. Et, ordinatoli una buona camera, quando tutti gli altri [70v] furono a dormire, fingendo rimanere nella stufa per rassettarla, n’andò alla camera di Sigismondo e si voleva spogliare per entrare nel letto. Di che lui accortosi, perché aveva il lume, gnene proibì, o che lo facessi per continenzia o per dubbio di non l’avere a pigliare per moglie, se fussi suto trovato, o, forse, per essere assueto qualche anno a Roma non li andassino le donne a gusto.

Basta, che lei non li poté mai persuadere, né con parole né con atti, che lui si contentassi che ella dormissi seco. Ma perseverando lei e con prieghi e lacrime, lui minacciò di fare romore; onde ella, avendo convertito l’amore in odio, deliberò vendicarsene. E la mattina quando fece colazione, o nel vino o nelle vivande che lui mangiò, messe veneno; e perché si partì per tempo mangiò solo et altri non portò pericolo. Come ebbe mangiato si partì; e noi dopo lui circa dua ore facemmo il medesimo.

E non fummo cavalcati dua miglia delle nostre, che trovammo il meschino secretario stramazzato nel mezzo della strada e, per il dolore grande, non restava d’esclamare; et aveva un servitore a presso. Noi ci fermammo e lo domandammo che male avessi e donde potessi procedere. Lui narrò quello li era intervenuto la notte, e pensava che la Margherita li avessi dato veneno. Il Venafro, che non era molto sano, faceva sempre portare seco utriaca et altre medicine, e fece [71r] trovare detta triaca e ne dette gran quantità a Sigismondo, in modo che in capo d’una ora cominciò a star meglio. E lo conducemmo a una osteria vicina e si conobbe che il veneno era suto debole et in poca quantità. Pure ne stette debole et intronato più che un mese, e portò la pena di non aver voluto ricevere nel letto quella che volentieri vi si posava.

 

Per tale impedimento non ci potemmo condurre la sera in Augusta, come era nostro disegno, ma stemmo lontano un miglio, in uno villaggio detto Trii, in osteria tanto trista quanto altra ne trovassi in Alamagna. E la causa ci fu detta da un contadino vecchio, il quale la sera in tal modo ci parlò:

« Io conosco che siete male alloggiati, ma non voglio ne pigliate ammirazione. Questa soleva essere una delle belle ville di questo paese e, tra l’altre cose, c’era una chiesa bella e ricca che aveva d’entrata più che fiorini seicento di Reno. Occorse che, morendo un prete vecchio che aveva governato questo beneficio anni quaranta molto bene, il vescovo, contro a nostra volontà, elesse per piovano un suo figliuolo molto giovane, et era dissoluto e disonesto, sanza lettere, sanza costumi, sanza cerimonie. E bisognò stessimo pazienti. Prese la possessione e subito cominciò a mettere in essecuzione e’ suoi vizi: non diceva ancora messa, né ci teneva chi la dicessi, vespri o altri divini ufici non mai; confessione, se l’udiva, le ridiceva; rubava tutti noi popolani; voleva manomettere le donne e, se parenti non volevono, a chi dava et a chi prometteva.

Noi più volte ci querelammo di lui al vescovo, ma niente giovava, [71v] in modo che venimmo in tanta desperazione che, popularmente, pigliammo l’arme e l’andammo a trovare. Lui, sentendo il furore, si rinchiuse in chiesa con quattro servitori, ma niente li giovò che mettemmo il fuoco nella porta et, entrati drento, il tristo prete miseramente uccidemmo; e la chiesa in gran parte per il fuoco si guastò.

II vescovo, inteso il caso, procedé contro a noi come sacrilego profanatori de’ sacri templi et interfettori de’ sacerdoti; e, sendo signore di questa villa in temporale e spirituale, ci venne con armata mano. Il che noi intendendo né pensando potere resistere, tutti ci fuggimmo e ne portammo quello potemmo; onde lui, giunto qua, né ci trovando uomini, rivolse l’ira sua verso le case, le quali tutte arse e li uomini messe in bando. Pure, venendoci poi lo Imperatore, per intercessione di monsignor Gurgense, ottennemmo dal vescovo perdono. E ci siamo ridotti qui e, trovando le case arse, bisogna le rassettiamo e chi ci alloggia patisca come noi ».

 

Stemmo la notte come potemmo e la mattina, a buona ora partiti, presto giugnemmo in Augusta, la quale è grande e bella città, posta in piano, con fossi grandi murati da ogni parte, grosse mura, pulite case et ordinate strade. La città è governata da buone legge e si vive a republica et allo Imperatore non dà più che fiorini mille l’anno.

Quivi alloggiammo in buona stanza e vi stemmo sei giorni e, per onorare il Legato nelle feste di Natale, qualche cittadino fece conviti e monsignor Gurgense fece recitare uno atto scenico in tedesco il quale, aven[72r]domi fatto tradurre in lingua italica, non mi pare inconveniente scriverlo a punto. E credo darà più diletto a’ lettori, che non dette a noi che fummo auditori quando fu recitato.

 

 

<ATTO SCENICO>

 

ARGUMENTO

 

Constanzia da Casale di Monferrato è amata da Pietro da Nocera, da Ferrando spagnuolo e da Ulrico tedesco. Lei in fatto altri non ama che Pietro, ma con li altri finge per trarne. La madre ha in odio Pietro e vorrebbe che lei contentassi Ferrando. Ingannono quando uno e quando l’altro di questi amanti, et in ultimo si truova che Pietro è nipote di Ferrando, onde, d’accordo lui et ancora Ulrico, cedono la Constanzia a Pietro.

 

 

PROLOGO

 

Sono assai lodati dalli uomini litterati questi dua poeti comici Plauto e Terenzio, né io voglio essere tanto presuntuoso che nel conspetto vostro li danni. Pure non si può negare che non mancassino d’invenzione, perché, avendo a comporre favole nelle quale si può dire tutto quello che si pensa o s’imagina, sempre hanno voluto tradurre di greco, né di loro fantasia hanno composto cosa alcuna. Io liberamente confesso il vero e dico che questo atto è nuovo, stato recitato così in lingua tedesca e dipoi tradutto in italica. Né so per che causa le cose nuove non debbino piacere: et è stultizia di molti che con ammirazione considerano le cose antiche e le nuove disprezzano. Se tra voi spettatori è alcuno che la intenda in questo modo, partisi e lasci il luogo a quelli che delle cose moderne si dilettono. Li altri stieno con silenzio e, [72v] se lo atto piace, nel fine ne faccino segno.

Questa città, che vedete sì grande, è Roma perché quivi intervenne il caso. Una altra volta sarà una altra città.

 

 

<SC. I>

Paulina, Constanzia.

 

Paulina: Noi andremo insino a San Pietro; tu resterai in casa. Et apri al cuoco che manderà Ferrando, e vedi che le vivande vadino per ordine e che li capponi sien lessi et il cavretto arrosto, e soprattutto non sia arso; e per entrare di tavola, uno guazetto di curatelle et animelle, poi, in ultimo, buono cacio e pere. E dì a Alonso che truovi buono vino corso, ché in questo tempo non è da bere altro.

Constanzia: Matre mia, poi che Ferrando provede la cena, vorrà dormire meco et io ho promesso questa notte a Pietro, e non li voglio mancare.

Paulina: Avendo la mala sorte condotto te e me a vivere in tanta meschinità, a noi bisogna fare l’arte in modo che se ne tragga frutto, e se seguirai e’ consigli miei saranno di qualità che ci riuscirà questo effetto. Pietro è giovane e povero, Ferrando è ricco ma è spagnuolo e, mentre che lui regge a spendere, a mandarci roba a casa, darti veste e danari, è da fare ogni demonstrazione di volerlo contentare acciò non si sdegni. Pietro è in modo legato che non ti può fuggire e da lui puoi trar poco e quel poco non ti può mancare.

Constanzia: E mi pare strano romperli la fede. Ma che escusazione troverrò io con lui ?

Paulina: Ti mancheranno forse scuse che ti senta male, ch’el cognato [73r] sia venuto da Corneto, che potrà venire domandasera? Che dico io? Secento scuse arai, se tu vorrai!

Constanzia: Malvolentieri t’acconsento! Ma dimmi: tu vuoi che io mandi Pietro a domandasera; non sa’ tu che tu et io promettemmo a Ulrico d’ire a cena con lui con animo che io vi restassi a dormire? Che dire ma’ a lui? Mandianli a dire oggi che non possiamo andare.

Paulina: Questo non piace già a me, che non voglio in modo alcuno perdere quella cena. Lascia pur trovare il modo a me come tu ti possa partire. Ulrico è di buona pasta e non s’accorge delle nostre bugie. Et a lui bisogna dare buone parole e fare il fatto suo. Ha donna, ha figliuoli e non è per stare qua molto; e da esso non si può sperare cosa che abbi a durare.

Constanzia: In verità che Ulrico mi è stato buono amico, né gli ho chiesto cosa non abbi avuta! Pure farò a modo tuo. Seguitiamo la nostra via insino alla chiesa, acciò torniamo più presto in casa a preparare la cena, ché mi pare vi sia ordine di rallegrarsi perché io, a dirti il vero, come so avere ben da cena, tutto dì sto lieta e contenta, ma, quando non è bene provista, di niente mi rallegro.

 

<SC. II>

Agnese Serva, Alonso famiglio, Toso cuoco.

 

Agnese: Tu se’ venuto a una bella ora! Che avevo pensato, avanti che le patrone tornassino, ci dessimo un poco di piacere insieme, ma è sì tardi ch’el tempo nol patisce.

Di’ [73v] a Ferrando che qui non è comparso vino e che madonna vuole del corso, e così non ci sono legne né frutte d’alcuna sorte.

Alonso: Anima mia, a me per al presente basta baciarti! Questa notte poi dormiremo insieme a dispetto de’ padroni! El vino corso sarà qui adesso; legna non crederrei già trovare di presente, ma torremo de’ pali delle vite che sono nell’orto; frutte non sono di questo tempo se non mele, e di queste avete in casa voi, e massime la patrona vecchia! E la giovane ancora non dà delle sua malvolentieri.

Agnese: Deh, lasciamo andare il motteggiare! Provedi che il vino ci sia presto. Et io voglio andare insino in cucina a vedere come questo cuoco s’adatta, che mi pare, a vederlo, un cuoco ordinario da frati. Vedi che m’è riuscito, che ha già messo a fuoco lo arrosto e non sa che quello vuole esser cotto presto e con gran fuoco. Chi t’ha insegnato?

Toso:  Se io avessi imparato non farei il cuoco.

Agnese: Oh, non hai tu imparato a cuocere?

Toso: Tu hai imparato meglio di me che, non che altro, sai cuocere te medesima. E mi pari più cotta che non sarà alla cena questo capretto!

Agnese: Tu mi di’ villania e non sai che io sono sopra tutta la casa.

Toso: Se fussi sopra alla casa saresti in sul tetto, e tu se’ in cucina. Attendi alle faccende tue e lascia fare l’arte mia a me.

Agnese: Tu se’ il grande scimunito! Io [74r] voglio dire che governo  tutta la casa, ma, per la croce santa, che io dirò ogni cosa a Ferrando et a madonna e più non parlerò teco, che mi pari una bestia.

 

<SC. III>

Pietro, Lancillotto servo.

 

Pietro: Che di’ tu? Che t’ha detto Constanzia?

Lancillotto: Quante volte vuoi te lo dica? Che facci la scusa sua, che non può dormire teco questa sera perché li duole il capo, ma che domandasera sarà al piacer tuo.

Pietro: E questo t’ha detto?

Lancillotto: Questo m’ha detto.

Pietro: Deh, dimmi, per tua fe’, pareva a te che si sentissi male?

Lancillotto: A me pareva sanissima.

Pietro: Eraci presente la matre quando li parlasti?

Lancillotto: Eraci, e del continuo gli sussurrava negli orecchi.

Pietro: Più volte t’ho detto che questa sua matre è donna che non è sì gran male non meritassi. La Constanzia è più tosto troppo libera che mala, ma quella non pensa a altro se non come possa trarre danari di mano a questo e quello, e non è sì vile uomo al quale non sottomettessi la figlia se ne credessi trarre. Non ha discrezione alcuna e consumerebbe il mondo! E credo che abbi straziato, in quattro anni che io la conosco, de’ ducati più che cinquemila, che è gran cosa a una femmina, et ha condotta la povera figlia sanza onore e sanza roba. Perdio, che di Constanzia m’incresce! ma è tanta la malvagità di questa sua matre che ho deliberato non avere più pratica seco.

Lancillotto: Patrone mio, da una parte se facessi questo ti loderei, dall’altra [74v] no, perché io non ho conosciuto mai la più bella né la più dolce cosa che la Constanzia. E se la matre la fa errare che colpa è la sua? Da oggi a domani è poco, e credo che tu ti sia accorto già un pezzo che tu hai de’ rivali e più di quattro. Piglia da lei quello che tu puoi avere, che hai tanto speso, secondo ho sentito, in essa, che ora ne puoi trarre qualche piacere alle spese d’altri. Perché in fatto lei è innamorata di te, ma la matre non la lascia fare quello che ella vorrebbe.

Pietro: Io non credo che in tutta Roma né in tutta Italia si potessi trovare la più scelerata donna che è Paulina e molto bene conosco mi vuole male, come quella che è ingrata. Et ora che non posso più spendere, non si ricorda di quello ho speso e de’ benefici li ho fatti, che sono tanti e molti più che tu non sai e non pensi. Ma, poi che sono prolungato a domandasera, voglio sopportare con pazienzia, ma non sarò con loro più quel Pietro che solevo, che me la piglierò per uno ordinario. Andiamocene in casa.

 

 

<Sc.> IV

Sorbillo parasito, solo.

 

Non credo che sia uomo sotto il sole più infortunato di me, che mi sono condotto in Roma pensando con l’arte mia contentare più il ventre che in altro luogo, et il contrario mi riesce.

Ebbi in principio tanto favore che una volta fui condotto a cena col papa. Ma che mi giovò ? Erono intorno alla tavola trecento; chi mi guardava, chi mi [75r] bestemmiava; quello non mi dava bere in modo che era di state et in tutta la cena non potetti bere che una volta. Ho provato dipoi più volte a volere tornare dal papa e mai ho possuto. Tutte le porte ho trovate chiuse! Di quelli camerieri nessuno conosce Sorbillo e, se lo conoscano, fingano nol conoscere.

Con questi signori cardinali mai ho trovato modo di potere mangiare; con altri prelati e cortigiani il medesimo. Pure a questi giorni, trovai in Santo Pietro un tedesco et, entrando con lui in parlare, cominciai a lodare l’Alamagna; e volendosi partire, m’invitò a desinare. Non aspettai il secondo invito e fui tenuto, sendo di quaresima, molto bene. E gli piacque tanto la mia conversazione, perché in vero ho mille detti salsi e belli, che nel partire mi disse che voleva che tutta questa quaresima cenassi seco e che, per non dare malo essemplo alli suoi, ci ridurremmo in secreto e che potremmo insieme far buona cera.

Satisfecemi assai il suo parlare e stimai, per un tratto, avere trovato la ventura mia. E come s’appressava a notte, n’andavo là, et il pasto andava per ordine, e cominciavo a esser noto a tutti e’ servitori di casa. Iersera mi riducevo in là, secondo il consueto. Voglio entrare in camera; uno mi si para davanti e dice: « Non entrare, Sorbillo, che Ulrico ha questa sera occupazione ».

Malcontento, risposi se avevo a cenare: dissemi di no. Puoi pensare se mi partì’ dolente! E ritrassi da un altro servitore [75v] che la sera cenava seco una femmina, chiamata la Constanzia, e la matre, e che aveva inteso che, insino a Pasqua, vi verrebbono quasi ogni sera, in modo che io sono tanto avilito che non so che partito mi pigliare.

Il ventre è male avezzo et a cibi ordinari non sta contento. Voglio cercare in banchi se truovo qualche borioso e smemorato che si diletti delle mie buffonerie e, se non lo truovo, bisognerà mi getti in Tevere.

Ma mi parve vedere venire di qua Ulrico, tutto penseroso, e Gaspar suo servo. Metterommi qui da parte per vedere se potessi udire qualcosa a mio proposito.

 

 

<SC. V>

Ulrico, Gasparre servo, Sorbillo par.

 

Ulrico: Più volte t’ho detto che io voglio in ogni modo rompere con queste meretrice ribalde. E se mai fui in tal fantasia, ora vi sono, ché sono stato tanto iniurato da loro che non è possibile ne facci pace.

Gasparre: Che cosa è nata di nuovo tra voi? Ieri sera cenavi insieme sì allegramente et ora molto presto ti veggo mutato.

Ulrico: Io ti voglio contare per ordine la trama acciò mi possa consentire abbi ragione. Come tu intendesti, la sera passata per loro medesime si profersono di volere cenare meco, né io le potetti ricusare. E, come furono giunte in camera, Constanzia si messe a sedere in sul letto dicendo: Ceniamo presto, che ho gran sonno e, subito dopo cena, voglio mettermi a dormire qui ». Puoi pensare se tale parole mi piacquono! [76r]

Gasparre: Non solo lo penso, ma lo so di certo.

Ulrico: Cenammo di buona voglia e stati un poco a motteggiare, io chiamo Secondo, tuo compagno, che accompagni Paulina a casa. E, come è venuto, ella gli dice che chiami Guglielmo, suo servitore, perché li facci compagnia.

Gasparre: Oh, Secondo non bastava?

Ulrico: Ben sai che sì. Ma sta’ a udire. Come Guglielmo fu giunto, Paulina, come era composta con lui, li domandò se nessuno fussi stato a casa. « Come! » rispose Guglielmo, « e c’è stato il marito di tua figlia! ». Subito Constanzia e lei, impalidite e tremante, si rizzorono e Paulina disse: « Noi siamo ruinate! È lui ancora in casa? ». Guglielmo rispose di sì e che aveva mangiato un poco e ch’el cavallo era nella stalla. Infine, per non multiplicare in parole, loro si partirono dicendo che Constanzia tornerebbe questa sera. A me venne tanto sdegno, non che si partissi, che non sono sì grosso che pensi tenerla a mia posta, ma che usassino simili arte e non dicessino liberamente volersi partire e mi stimassino di sì poco ingegno, che credessino darmi a intendere simili favole: che ho disposto che loro attendino a fare e’ fatti loro et io e’ miei. E da ora ti dica che in casa loro, per mio conto, non metta più piede né mi porti loro novelle. E ricordati te l’ho detto!

Gasparre: Patrone, se tu non l’hai per male ti risponderò liberamente quello intendo.

Sorbillo: (Vogliomi accostare un poco per udir meglio, ché, forse, li dirò qualcosa li gioverà).

Ulrico: Di’ quello ti piace.

Gasparre: Spesso interviene che li uomini, quando ordinariamente non hanno d’avere passione, se la pigliono per qualche causa che  non [76v] doverebbono. Tu, mentre se’ qui, hai poco a che pensare e niente hai che ti dia molestia; nondimeno se’ caduto in questa infermità d’essere innamorato. E t’ho veduto con tanta passione che qualche volta di te m’è incresciuto. Pure, alla fine, se’ venuto al desiderio tuo et hai avuto la Constanzia tre volte e quattro e sette et otto, e non se’ di tanta auttorità né di tanta ricchezza né di tale età, che tu la possa tenere a posta tua. Lei spende e però ha bisogno di guadagnare, te li pare aver legato, come è in fatto, e che tu non li possa fuggire. Se un altro tordo dette iersera nella rete, che non era per darvi ogni sera et ella il volse pigliare, debbi tu avere di questo maraviglia? E trovò quelle scuse che stimò t’avessino a esser capace. Parti, però, essere stato tanto iniuriato che per questo voglia rompere ogni pratica, la quale domani vorresti poi rappiccare?

Ulrico: Non voglio credere a tue parole e voglio sia tagliata ogni pratica.

Gasparre: Di questa faccenda non ho se non fastidio ma, se ti governerai col mio consiglio, andrai così seguitando tanto che l’amore per se stesso si raffreddi, ché tagliarlo a un tratto sarà impossibile.

Ulrico: L’animo è fermo. Pure, se tu vi vai, vedi quello che lei dice.

Gasparre:. Ora mi comandi che io non vi vadi, ora vuoi che io intenda quello ch’ella dice.

Ulrico: Dico che non vi vadi per mio conto! Ma se v’andassi da te...

Gasparre: Tu mel comanderai dieci volte, avanti vi vadi una.

Ulrico: Io nol te comanderò.

Gasparre: Né io v’andrò! Ma non voglia parliamo più di questo al presente perché veggo il parasito tuo che sta qua a origliare. Ben debbe [77r] avere poco dormito questa notte, perché iersera  non cenò. È pur meglio dare il suo a una bella femmina come è Constanzia, che a un parasito briccone et adulatore che mai fa o dice altro che male.

Sorbillo: Io ti odo bene. E se Ulrico fussi prudente ti manderebbe a casa del diavolo.

Gasparre: Se fussi prudente, non vorrebbe mai li stessi a presso a un miglio, e ti fuggirebbe più che la peste!

Sorbillo: Te dovrebbe fuggire che sempre lo conforti et indirizzi al male! Non ho io al presente udito quello li dicevi, quando lui affermava volere lassare in tutto la Constanzia? Ma io non voglio più parlare teco e parlerò a Ulrico el quale da tutta Roma è amato et è tenuto un vero gentiluomo, ma, se seguita in questo amore, perderà l’onore e la fama e la roba.

Gasparre: Parla a chi tu vuoi, pure che io ti oda! Et a quello che non vorrà rispondere il padrone, risponderò io.

Ulrico: Hai tu udito, Sorbillo mio, quello ho parlato con questo mio servo?

Sorbillo: Ben sai che ho udito e mi pare che abbi parlato col sale.

Ulrico: Non iudichi tu che io abbi ragione a non volere più pensare alla Constanzia?

Sorbillo: Come! Ché, se vi pensassi, non ti terrei più in quel conto che io ti tengo! Ancora io fui già innamorato e so quello sanno fare le meretrice che ti toggono la roba e l’onore, consumanti la vita, et in ultimo, ti fanno perdere l’anima. Fingo alle volte non vedere, ma credi che io mi sono più d’una volta accorto in quanta angustia ti truovi quando [77v] ella ti prepone uno altro, quando non ti guarda con buon viso, quando non vuole rimanere teco sola, quando ti richiede di danari, quando di cose in presto, quando che parli a qualcuno, e non solo lei, ma la matre, il zio, il famiglio, la fante, ogni uomo che tu guardi per suo amore t’ha prigione! Che sarebbe meglio essere in galea che penseresti averne a uscire! Ma questo tormento non sai quando abbi a finire: ora temi che di lei non s’innamori un cardinale, ora un mercante! Che diavolo di vita è la tua, che aresti da trionfare più che uomo di Roma, favorito, amato, roba a sufficienza? E ti mancherebbono forse femmine, che crederrei fartele correre drieto per quattro iuli l’una? Ma questo tuo servo è causa d’ogni male che, come vuoi spiccare l’animo da essa, te lo fa rappiccare con sue novelle.

Ulrico: Conosco che mi di’ il vero, ma è dificile seguire il tuo consiglio.

Gasparre: (Che vero patrone! Che mai, alli giorni suoi, lo disse che bisogna che lui biasimi tanto l’amor delle donne, che non è cosa al mondo di che tanto giovi all’uomo quanto d’avere in braccio la sua innamorata. Oh che felice notte è quella!) Né mi persuado che le femmine faccino perdere l’anima, perché la felicità di quella consiste nel esser beata e, quando l’uomo è colla amata sua, ha l’anima in beatitudine. Né la fama ancora ti toggano, ma te l’accrescono, perché ti fanno trovare nuove arte e nuovi ingegni, e ti fanno acuto [78r] il cervello: e con questi modi si viene in riputazione. Né consumano la vita, ma la mantengono, perché le cose che piacciono, giovano. E se fanno dissipare la roba a che fine si cerca d’averne se non per questo? Che vuoi tu spenderla in dare le spese a un goloso, ribaldo, adulatore, come è qui Sorbillo, o in altre simili brigate, o in tenere una caterva di servi? Non è più gentil cosa spendere in vestire e contentare una bella e galante figlia che, sola a vedertela davanti, ti fa stare tutto allegro e gioioso? Credi a me, patrone mio, che questi filosofi s’avviluppano e non seguitano quello che dicono. A me pare che si tragga un gran piacere d’una formosa e linda femmina! Et abbiamo sì pochi piaceri in questo mondo che, quando possiamo aver questo, lo dobbiamo cercare. O tu consumi quello che hanno avere la moglie e’ figliuoli tuoi? Penso che la natura che li ha creati provedirà ben loro, et, a causa d’essi, non lasciar preterire una ora di consolazione. Io t’ho detto l’animo mio, e se farai bene, manderai via questo parasito. Et io me ne voglio ire a vedere Constanzia! E se tu se’ irato seco a me ne duole e non voglio essere adirato io.

Sorbillo: Se lui non fussi partito sì presto, avevo messo in ordine di risponderli per le rime.

Ulrico: Tra tu e lui m’avete pieno il capo di confusione e l’amore di Costanzia mi tira.

Sorbillo: Deh, lasciamo da canto l’amore et andiamo a desinare.

Ulrico: Sono in tanto travaglio che questa mattina non voglio mangiare.

Sorbillo: (Oh, sventurato Sorbillo!) E questa sera a che ora ceneremo?

Ulrico: Non so. E però non venire se non ti mando a chiamare, ché forse sarò occupato.

Sorbillo: (Ora sono in tutto spacciato e voglio, in nome del diavolo, andare in qualche luogo a impiccarmi!). [78v]

 

 

<SC. VI>

Gaspar, Ferrando, Alonso.

 

Gasparre: (Ho sentito in casa sì gran romore che non voglio salire le scale et Agnesa m’ha accennato che Constanzia non v’è. Ma vedo uscire Ferrando tutto turbato. Fermerommi per udire quello parla con Alonso suo).

Ferrando: Credi tu che io sia bene infortunato? Che maledetto sia il giorno che io viddi questa falsa meretrice nella quale consumo la roba e la fama! Et in ultimo ci ho a perdere la vita!

Alonso: Non t’ho io detto mille volte che faresti bene a pensare a altro e che lei t’inganna?

Ferrando: El caso è potere! Non vedi tu che ora, che non so dove sia ita, che non mi posso fermare, e muoio di dolore? Questo che viene di qua mi pare Gaspar, servo d’Ulrico. Parlerò con lui per intendere se sapessi cosa alcuna di lei che, se pure fussi fuggita a casa Ulrico, arei manco dispiacere.

Gasparre: (Veggo Ferrando tanto turbato nella cera, che non voglio mi conosca e voglio fuggire il più presto che io posso).

Ferrando: Non fuggire, Gaspar!

Gasparre: (Ora mi viene volontà di correre).

Ferrando: Fermati, Gaspar, di grazia, e rispondimi!

Gasparre: (È pur forse meglio gli risponda). Quale uomo mi chiama?

Ferrando: Uno tuo amico mal contento. Vieni in qua.

Gasparre: Oh! Ferrando mio! Io non t’avevo visto, ma sentivo tanto romore in casa di Paulina, che dubitavo vi fussi seguito disordine.

Ferrando: E v’è ben seguito, e grande!

Gasparre: Che cosa è suta?

Ferrando: Constanzia è fuggita.

Gasparre: Fuggita?

Ferrando: Sì, fuggita.

Gasparre: Oh, patrone mio, mala nuova ti porterò! Ma dimmi dove è ita?

Ferrando: Questo non so. Ma ti voglio ben dire il modo.

Gasparre: Deh sì, che te ne priego!

Ferrando: Oggi tutto giorno sono stato a cianciare seco e rimasto d’accordo che mi dia questa notte albergo. Come sono dua ore di nuovo mi manda [79r] a sollecitare. Vengo e, come entro in casa, Paulina mi si fa incontro e mi dice che Constanzia parla con Pietro in sala, ma che me ne vadi alla camera sua e l’aspetti quivi. Parvemi questa proposta strana pure, tirato dall’amore, v’andai e menai meco Alonso; e stetti poco che sentì’ Pietro venire verso la camera. Chiusi la porta perché tra noi non seguissi qualche scandolo. Constanzia venne alla porta e la volle aprire e non potette. E sentì strepito in camera, in modo che, o per paura o per qualche altra causa, fuggì nell’orto e si gittò a terra del muro e si misse a correre verso la casa del tuo patrone quanto poteva. Pietro, credo la seguissi. Et io ho aspettato insino a giorno per vedere se torna e, non sendo tornata, mi parto. Ho ben caro averti trovato per sapere da te se fussi venuta a casa Ulrico.

Gasparre: Mal caso è stato questo et a casa nostra non è venuta, né vi verrebbe perché Ulrico è adirato con lei.

Ferrando: Et io sarò il medesimo e, se saremo d’accordo Ulrico et io, staremo tanto a mettere il piede in questa casa, che ella e la matre ce ne pregheranno.

Alonso: Deh, patrone, lassa andare in che modo t’hai a governare in futuro e pensa come l’hai a ritrovare!

Gasparre: Io so così certo dove ella è, come io so che noi siamo qui. Lei è a casa Pietro né a altro fine s’è fuggita, se non per monstrarli quanto ella l’ami e che, per suo amore, abbandona te. Né va a casa Ulrico che è vicino, ma si mette andare per tutta Roma a mezzanotte.

Ferrando: Oh, come di’ tu il vero, Gaspar! Ma per e’ Vangeli di Iddio, che me non ingannerà [79v] più! Io li ho prestato mule e veste tutto questo carnovale per far maschere, donatoli danari e cose, provisto in casa da mangiare, e che al presente mi preponga Pietro non lo posso sopportare! E tu, se amerai il tuo patrone, lo conforterai a lasciarla in tutto.

Gasparre: Se li vorrò bene, m’ingegnerò conformarmi colla volontà sua, la quale so certo che è di sapere dove ella sia. E però voglio andare a cercarne.

Ferrando: Deh, se la truovi, viemmi a dire qualche cosa.

Gasparre: Non passerà una ora intera che intenderai dove ella sia. Va’ intanto e dormi, ché n’hai bisogno.

 

 

<SC. VII>

Gaspar solo.

 

Bene è sciocco Ferrando, ancora che sia spagnuolo, se crede quando la truovi gli vadi a dire cosa alcuna. Se la truovo a casa Pietro, la conforterò a starvi e so che il mio padrone arà più caro che stia là che qua, perché Paulina ogni dì pone una taglia a Ulrico e consiglia Constanzia male e vorrebbe metterla sotto a qualunque passa per la strada, pure che li dessi danari, e, per un paio di galline, acconsentirebbe che in sua presenzia la figlia li fussi abbracciata. Ma se starà a casa Pietro, non arà pratica con altri che con Lui e potrebbe essere che, stando lei discosto, l’amore che il mio patrone gli porta diminuissi. Ma io sono un matto perché questo sarebbe a proposito suo e non mio, perché m’adopera a questo. E solevo essere uno de’ più vili servi avessi in casa, ora sono quasi il primo; comando alli altri e sono ubbidito; solevo ire a piè, ora vo a cavallo, vesto bene e mangio meglio et in casa non fo se non quello voglio, perché sempre ho scusa d’essere stato in qualche faccenda per Constanzia: [80r] e però, essaminato tutto, per me fa mantenere questo amore.

Et ora, quanto più presto posso, voglio ire a ricercare di lei per poterne dire novelle a Ulrico che, se stessi dua o tre giorni sanza intenderne nuova, l’amore comincerebbe apassire. E, per non essere tenuto in ponte a parole da qualcuno che m’incontrassi, andrò per Transtevere e passerò Ponte Sisto.

 

 

<SC. VIII>

Lancillotto e Gaspar.

 

Lancillotto: (Quante volte ho io visto, e non sono però vecchio, uno uomo desiderare una cosa et averla e, come l’ha avuta, venirli in fastidio, e pensare levarsela da dosso! Così interviene ora a Pietro, mio patrone, il quale come non è con Constanzia muore et usa ogni arte per essere seco et, al presente che lei s’è fuggita in casa sua, pensa il modo da rimandarla e per questo mi manda a trovare Ulrico).

Gasparre: (Per questa via non scontrerò alcuno e se riscontrassi non li parlerò. Qua sta la sorella di Constanzia: andrò per questa altra via perché non mi chiami).

Lancillotto: (Mentre cammino, vo da me medesimo essaminando quello abbi a dire a Ulrico perché non abbi a male che lei sia venuta più presto a casa nostra, che è lungi, che alla sua che è vicina. Se dico che lei picchiassi e non fussi udita, mentirò e potrei esser riprovato perché da’ suoi servitori, quando picchiò gli fu risposto. Se dico che lei nol volessi destare, la conosce sia ardita et indiscreta che nol crederrà. Non so che dirmi! Veggo un là che va molto ratto e mi pare [80v] Gasparre, servo d’Ulrico, che quasi corre; vorre’li parlare ma non potrò. Pure lo chiamerò: « Guasparre!» Sì, non s’è volto! Chiamerollo più forte : « Guasparre! ».

Gasparre: (Vedi che non si può ire per sì solitaria via che l’uomo non sia impedito! Non mi voglio voltare).

Lancillotto: Gasparre!

Gasparre: (Chi diavolo mi chiama? Oh, è Lancillotto! Voglio tornare a lui). Che vuoi fratello?

Lancillotto: Cercavo di te e con diligenzia.

Gasparre: Et io di te e t’ho a dire cosa d’importanzia.

Lancillotto: Non mi dirai cosa non sappi.

Gasparre: Ben sai che quella puttana s’è fuggita!

Lancillotto: E certo lo so e però ti cercavo! Perché lei è in casa nostra e Pietro vorrebbe che ella ritornassi alla madre, perché stessi quivi con più onestà. E per questo venivo al presente a trovare il tuo patrone.

Gasparre: Con onestà starà una che è stata cinque anni in bordello ? Ma ti so ben dire che non bisogna per questo vadi a trovare il mio patrone, perché lui non ne vuole udir parlare.

Lancillotto: Come faremo dunque a farla ritornare a casa?

Gasparre: Che tu pensi forse che Paulina non la rivoglia? Che se non fussi lei stenterebbe come un cane!

Lancillotto: Penso che ella fingerà non la volere e vorrà fare un poco l’adirato.

Gasparre: E quando questo fussi, ve la rimetteremo per forza, avanti che gli togga ciò che ha in camera.

Lancillotto: Non farà però gran prechi. Ma dimmi: quando vogliamo noi rimettervela?

Gasparre: Come si fa notte.

Lancillotto: Vieni adunque meco a casa e rimarremo d’accordo del rimenarla e la conforterai a tornare [81r] per parte d’Ulrico, perché lei sta dura e non vuole tornare da Paulina.

Gasparre: Andiamo! E son certo che come li parlo farà ogni cosa.

 

 

<SC. IX>

Constanzia, Lancillotto, Gaspar.

 

Constanzia: Come una femmina nasce, si vorrebbe batterli il capo nel muro, e massime quando è figlia a matre inonesta, perché cerca sempre che lei diventi simile a sé. E non è al mondo la più meschina cosa che una femmina meretrice la quale perde l’animo, sta sempre del corpo inferma perché mangia e bee troppo, veglia assai, usa lisci et altre acque nocive, al mondo è vituperata, e’ parenti la minacciono e nessuno ne tien conto; roba non può congregare perché di raro si truova un solo che possa e voglia farla ricca e, se ha pratica con più, faccendo piacere a questo dispiace a quello, e sta in continua ansietà. Et io lo pruovo, che mi è testimone Iddio che mia madre, contro a mia voglia, m’ha condotto come sono e mi truovo inferma, povera e meretrice. Che maledetto sia il giorno che io nacqui ! Pietro cominciò aver pratica meco da putta: posegli amore. Ora lui non mi stima e li è parso mille anni li esca di casa e temeva non m’avere a dare le spese quattro giorni. Oh infortunata Constanzia, che bisogna per forza torni a sottomettermi a mia madre et a Ferrando!

Lancillotto: Madonna, che giova lamentarsi? Dove non è rimedio è di necessità andare avanti e far buon cuore e non si ricordare [81v] delle molestie che hai, ma de’ piaceri. E prima non cuci, non fili, non fai cosa alcuna di quelle fanno le donne oneste. Mangi bene e bei meglio e non pensi donde venga; dormi sempre accompagnata e, se questa sera non ti piace uno n’arai domandasera un altro che ti satisferà . . . Ma pensiamo, ché siamo a casa, come abbiamo a entrare. Va’ un poco avanti, Gaspar, e batti alla porta.

Gasparre: Ho battuto e mi è stato aperto sì che possiamo andare sicuramente. E tu Constanzia, se farai a mio senno, te n’entrerai in camera, sanza parlare a nessuno di casa questa sera; e Lancillotto et io staremo presso alla porta della camera, perché nessuno ti possa fare iniuria.

Constanzia: Così mi piace.

 

 

<SC. X>

Ferrando, Paulina, Constanzia.

 

Ferrando: (Io non voglio consumare il tempo in dolermi d’Imene e dell’arco e delle saette, perché ne sono scritte tante cose che, a leggerle, mi vengono in fastidio; e così credo faccino alli altri. Una volta io voglio bene a Constanzia e questa notte mai ho potuto chiudere occhio. Sommi levato per tempo per ire a intendere se è tornata . . . La porta è aperta. Sento Paulina ciarlare secondo il solito. Non voglio perdere le parole in salute):

« È tornata Constanzia ? ».

Paulina: Sì, col male che Dio li dia e la mala Pasqua! Che si sarebbe fatto per me esser prima morta che la partorissi, che è il vituperio di casa nostra e per suo [82r] amore non mi pare potere alzare li occhi. Io non li ho parlato e, se non avessi riguardo al vicinato, non li arei aperto, ma l’arei lasciata morir di fame col suo Pietro. Ma se lei stessi cento anni dove io, non sono per parlarli.

Ferrando: Ah! Paulina, sangue dolce! non se’ tu stata mai innamorata?

Paulina: Sono, ma con discrezione, né ho fatto le pazzie che fa lei.

Ferrando: Deh, lasciamo da canto tante querele, andiamo da essa!

Paulina: Ferrando mio, ogni altra cosa se’ per ottenere da me che questa.

Ferrando: Et io non voglio altro e bisogna che venga meco . . . Ben tornata madonna Constanzia!

Constanzia: El mal venuto sia Ferrando!

Ferrando: Oh, perché questo? Che iniuria ha’ tu ricevuta da me?

Constanzia: Attendi alli fatti tuoi e di me non t’impacciare.

Ferrando: Se io lo potessi fare non bisognerebbe me lo dicessi, ma voglio essere amico tuo, o vogli o no.

Constanzia: Sta’ discosto!

Ferrando: Dilli qualcosa, Paulina.

Paulina: Che vuoi che io li dica che crede quello a me che a quel muro?

Constanzia: Io t’ho creduto tanto che mal per me, che a tua causa mi truovo povera e puttana e tu, poi che hai gittata la roba di nostro padre, m’hai condotto in questo termine.

Paulina: Condotta ti se’ da te, che da me non avesti mai che buoni essempli.

Ferrando: Non romori, attendiamo a fare buona cera! Alonso mio ha portato, perché siamo di quaresima, due lacce et altri buoni pesci et un vino corso dolce, che mai assaggiai il migliore; et a tavola farem la pace. Però va’, Paulina, et ordina [82v] il pranzo!

Paulina: Non so dove mi voglia andare, tanta ira m’è venuta!

Constanzia: Et io non so dove mi voglia stare, tanto sdegno ho contro a te a ragione!

Ferrando: Magnamo prima e poi farem la pace. Et io mi offero esser iudice tra voi.

Constanzia: Sento la porta esser battuta molto forte et esser dimandata. Ferrando, andiamo da basso.

 

 

<Sc. XI>

Diego solo.

 

Sono lasso per andare tanto cercando Ferrando. Avanti un pezzo che io partissi di Sibilia ebbi lettere da lui per le quali mi significava esser secretario del cardinale di Pavia: è vero che sono più di tre anni.

Come arrivai a Civitavecchia, domandai di questo cardinale e mi fu detto era stato morto e che la famiglia sua era tutta dispersa. Fui malcontento ma, sendo sì presso a Roma, diterminai condurmi qui et investigare se ne potevo intendere cosa alcuna. E, perché sapevo che lui si dilettava assai delle femmine, come giunsi, cominciai a andare a casa le più celebrate ci fussino.

Fui a casa l’Albina, a casa l’Angioletta veniziana, a casa la Gumberta, a casa la Zazerona fiorentina, a casa molte altre e tutte non lo conoscevono, in modo ero quasi disperato dal trovarlo. Ma passando iersera da Torre di Nona, viddi in su una porta una femmina grassa che mi disse si chiamava la Nannina. Andai da essa e la domandai se conosceva questo mio fratello e li dissi di sua qualità e statura; e lei mi affermò che lui stava [83r] col cardinale  Cornaro. Ma, sendo l’ora tarda et io poco pratico per Roma, mi stetti con lei; e questa mattina levato, subito ne venni a casa Cornaro. Domando di Ferrando. Sono menato alla sua camera e mi disse un suo famiglio che era partito poco fa per ire a casa madonna Paulina che stava vicina e disegnavami un luogo che mi par questo . . .

Ho battuto la porta e non risponde alcuno. Batterò di nuovo.

 

 

<SC. XII>

Ferrando, Diego, Paulina, Constanzia, Lancillotto, Pietro, Ulrico, Gaspar.

 

Ferrando: (Per mia fe’ che nel farmi alla finestra ho visto quello che batte che mi pare mio fratello Diego! Voglio correre alla porta... È esso certo...) O fratel mio! o refugio mio! o consolazione mia! Come se’ così qui?

Diego: Sonci solo per vederti e t’ho cerco più mesi fuor di Roma et in Roma molti giorni; e la cagione è perché ti vorrei condurre al paese.

Ferrando: Tu sia il ben venuto! Ma di condurmi al paese non parlare, che siete tanti che la roba che abbiamo non vi basta. Io voglio stare qua a seguire mia fortuna la quale, insino a qui, non ho avuta molto prospera.

Diego: È necessario che tu facci pensiero a ogni modo tornare perché, di tanti fratelli, sono rimasto io che sono vecchio, come vedi, e non atto a avere figliuoli e tu e però bisogna sia quello che rilievi la casa nostra.

Ferrando: O come è possibile che sieno morti tutti nostri fratelli?

Diego: Così è. E nessuno ha lasciato figli.

Ferrando: O avevono pur moglie!

Diego: È vero! Ma nessuno ebbe figli, se non Sancio [83v] che n’ebbe uno il quale, pervenuto all’età d’anni dieci, sendo battuto un giorno dalla matre, per sdegno, con un famiglio se ne fuggi. Et il famiglio è dipoi tomato là e dice che lasciò Pietro, che così aveva nome, in uno piccolo castello, chiamato Nocera, e che stava per ragazzo con un povero uomo.

Ferrando: Almeno si trovassi questo Pietro, che lui sarebbe atto a rifare la casa nostra, ché io non sono per pigliar moglie! Ma tu debbi molto ben ricordare, partendosi di dieci anni, della effigie sua.

Diego: Come se io me ne ricordo! A punto come se l’avessi avanti alli occhi! Era collerichetto e leggieri, nero e sparuto et, intra gli altri segni, aveva una margine nella coscia destra che li fece la madre incautamente col fuoco.

Constanzia: (Per mia fe’, madre mia, che Pietro ha questo segno che dice questo forestiero! Et ho inteso da Lancillotto, più volte, che lui è di Nocera . . .) Se vedessi questo Pietro ora, riconoscerestilo?

Diego: Ben sai che sì, figlia cara!

Constanzia: Deh, Lancillotto, corri per Pietro!

Paulina: Lui è un contadino e ne fa ritratto, né è nato di gentiluomo come sono questi.

Pietro: Che vorrà adesso da me? Sempre ho a fare la pace?

Lancillotto: Non so, ma mi disse ti pregava venissi presto.

Constanzia: Guarda se conosci costui.

Diego: Ardirei di dire che questo è Pietro mio nipote.

Pietro: El cuore mi balza e pare m’intervenga qualche cosa nuova. Io non ho mai voluto dire la mia progenie perché non mi sarebbe stata creduta, ma questo forestiero mi pare Diego, mio zio.

Diego: Non posso contenermi non lo abbracci.

Pietro: Perché tante carezze?

Diego: Perché tu se’ mio nipote e questo è Ferrando, tuo zio.

Pietro: Te [84r] mi pare conoscere come per un sogno, ma questo altro non viddi mai se non in Roma. Se siete miei zii tanto meglio: et io voglio essere vostro nipote.

Ferrando: Et io ti voglio per nipote e da ora voglio pigli per moglie Constanzia, se lei e Paulina se ne contenta.

Constanzia: Sta bene, che io me ne contento. Va’, Gaspar, e chiama un poco Ulrico.

Ulrico: Ho inteso da Gaspar cosa che mi piace e di che sono molto allegro. Facciamo questo sposalizio.

Pietro: Faccisi presto.

Pauina: Io lo vorrei fare intendere alli miei.

Constanzia: Io non lo voglio fare intendere a altri. Andiamo in casa, su, Ferrando e Diego!

Gasparre: Non aspettate più di vedere o udire altro. Drento si farà il desinare e la cena, drento si faranno le nozze, drento sarà il notaro che rogherà il contratto e poi il marito e la moglie se n’andranno a letto e faranno quello hanno fatto più anni insieme; e Lancillotto et io be’remo e mangeremo quanto potremo. Valete!

 

 

 

LIBRO QUINTO

 

Quando udì’ recitare lo atto scenico scritto nell’altro libro confesso mi venne in fastidio perché, recitandosi in lingua tedesca, poco o niente ne intendevo; ma, avendolo poi fatto tradurre in lingua toscana e volendolo mettere in questi miei scritti, più volte ho pensato non lo fare perché in fatto le cose false son belle a  vederle et udirle, [84v] ma scritte non riescono perché mancano le voci e le azioni che sono causa principale di farle piacere.

Però volentieri ritorno alle mie vere narrazioni le quali, se non diletteranno chi le leggerà, dilettano me che le scrivo. Perché intra li onesti piaceri che possino pigliare li uomini quello dello andare vedendo il mondo credo sia il maggiore; né può essere perfettamente prudente chi non ha conosciuto molti uomini e veduto molte città. Ma a volere che questo succeda bene, bisogna che chi ha a ire a torno, abbi più condizioni: e prima che sia robusto e sano, che sia ricco et abbi compagnia facile e sollazzevole. E, se alcuna di queste qualità manca, il cammino non piacevole ma pieno di dispetto diventa. Quello che spesso li duole il capo o lo stomaco o il fianco o li denti o le gambe, a sé medesimo et a’ compagni è fastidioso. Quello che ha a pensare donde abbi a trarre e’ danari o che li ha con dificultà o che bisogna pensi pel cammino di guadagnare, non può pigliare piacere de’ viaggi perché li duole il soprastare più un giorno in una città, non può, per vederne una altra, allungare il cammino, piglia alterazione nel fare conto con l’oste, guarda se ha speso più un ducato che il compagno. Se la compagnia non è a proposito, similmente chi va pel mondo non può aver diletto; e chi ha seco tutti servitori non può con loro motteggiare né parlare di cose grave né sollazzare né [85r] giucare; chi ha compagni fantastichi, ritrosi e strani non che abbi consolazione nel cammino, ha dispetto grandissimo. Et oltre a tutte queste cose, bisogna esser libero, né avere faccenda alcuna e potere stare quindici dì in una città, andar per terra, andar per acqua e non essere ubrigato a niente.

Io, nel viaggio scrivo, ero sano, con buona compagnia, con danari perché non sono avaro et allora ne potevo spendere ché non mi davano molestia; ma non avevo questa ultima condizione d’esser libero, et ero necessitato seguire lo Imperatore et andare dove da lui mi era ordinato. Pure ebbi gran contento in questa peregrinazione e sempre me ne ricordo, ne ho più satisfazione e volentieri scrivo tutto quello mi occorse.

 

Stemmo in Augusta dua giorni dopo Pasqua e ci partimmo quando il Legato con freddo grande e neve. E la sera, adiacciati, giugnemmo a Lanzsberg in Baviera, castello del duca Alberto. E, standoci nella stufa, mi fu referito da un prete cosa da considerarla.

È in quel luogo un convento di frati predicatori, dove stanno circa dieci frati e, tra li altri, ve n’era stato uno di sì ottima vita in apparenzia, che da tutti era riputato un santo. E quasi tutti li uomini e donne del castello di qualche qualità si confessavano da lui, onde li accadde che udì la confessione d’una vedova ricca, alla quale era di poco avanti morto il marito e li aveva lasciati, in denari contanti, oltre alle altre cose, fiorini diecimila.

E come fanno le donne che dicono a’ confessori non solo e’ peccati loro [85v] ma a essi parlano d’ogni faccenda non solo appartenga loro, ma di quelle che attengono a tutto il vicinato e parentado, la vedova gli disse di questi danari aveva. Onde il frate, mosso da grandissima avarizia, poi che l’ebbe inteso non restava di pensare il modo col quale avessi a levare alla vedova detti danari e ridurli a sé. E quando lei si confessava, instava sempre in sul dirli quanto peccato fussi tenere le pecunie ascose, perché con quelle si potrebbono lavorare panni et altre cose di che e’ poveri si pascerebbono. E vedendo che la vedova non teneva conto di questo peccato, incominciò a metterli sospetto de’ servitori, de’ parenti e monstrandoli in quanto pericolo fussi la vita sua e che sarebbe facil cosa che dal qualcuno di questi, per torii e’ danari, fussi morta con ferro o con veneno. Alla vedova entrò questa suspizione, e più la mosse il timore della vita che quello dell’anima, e domandò il frate che consiglio gli dessi a ciò potessi fuggire tal pericolo. A che lui rispose che era bene dipositarli in qualche cauto Iuogo dove fussino sicuri e non stessino perduti, a ciò che li uomini ne potessino trarre profitto. E venendo la vedova a’ particulari a chi li aveva a depositare e nominandoli uno et uno altro mercante, questo diceva esser povero, quell’altro usurario, l’altro di mala fede, l’altro inviluppato, et in effetto non trovava nessuno li satisfacessi, se non qualche parente della vedova a chi sapeva che essa non era per crederli. E, sendo stati insieme gran pezzo a dibattere e disputare sopra questa materia, il frate li disse:

« Io ho uno amico mio el quale, se si [86r] contentassi pigliare questi danari, sarebbe molto a proposito perché è ricco, essercitasi in cose lecite et è secreto; ma io non credo che si volessi scoprir teco di volere pigliare questi danari, né che li volessi ricevere da te, né parlarne teco perché non vorrebbe si credessi che lui li pigliassi per bisogno. Et inoltre, quando fussi veduto parlarti, dubiterebbe non dispiacere a’ tuoi parenti ».

E gli disse il nome del mercante. La donna, conoscendo in lui quelle parti che diceva il frate, rispose che gnene darebbe volentieri e, perché la cosa non si scoprissi, gli fiderebbe a lui el quale poi ne piglierebbe cedola dal mercante, secondo gli paressi. Al frate parve che il tordo avessi fatto un gran sacco nella ragna e, sospirando forte, disse che non entrava in tali faccende sanza dispiacere, pure, per amore dell’anima della donna, non voleva ricusare questo carico, onde la donna gli recò e’ danari. E lui fatta una cedola di mano sua, in nome del mercante, della ricevuta e promessa di restituirli, in capo di dua dì la dette alla donna e li danari serbò appresso di sé. E del continuo pensava il modo come li potessi fare suoi, né li occorreva il migliore [86v] che la morte della vedova. Né potendo amazzarla con ferro sanza scandolo e pericolo, pensò al veneno. Né avendo commodità di mangiar seco, né di presentarla rispetto ai parenti, deliberò dargnene nel vino, quando era comunicata. E la mattina della Assunzione di Nostra Donna, venendo la vedova a comunicarsi secondo aveva di costume, gli mescolò nel calice veneno col vino, el quale poi che ebbe preso, non stette dua ore che perdé il parlare et intra dua giorni morì; e fu iudicato fussi morta d’apoplessia.

E’ fratelli di lei dopo la morte cominciorono a cercare della roba e, sappiendo che il marito li aveva lasciato buona somma di danari, si maravigliavono non li trovare. Et avendo assai cerco trovorono la cedola et allegri andorno con essa al mercante e gli domandorono la pecunia, come in essa si conteneva. Il quale, veduta la cedola, disse non esser di mano sua e che dalla donna mai aveva ricevuto cosa alcuna e, monstrato loro li altri scritti e libri scritti da lui, e’ fratelli conobbono molto bene la donna essere stata ingannata e rimasono malcontenti. Né potevono pensare chi avessi avuto detti danari.

Il frate, insuperbito per la pecunia, non poteva stare alla regola delli altri e, dubitando che la fraude non si scoprissi, chiese licenzia al priore d’andare a Roma per voto. E quivi condotto, [87r] ottenne dispensa di potere stare fuori dell’ordine e comperò una casa e masserizie et offici da poter vivere. Et essendo venuta questa nuova a Lanzberg, un fratello della donna, più esperto che li altri, ne andò a Roma con detta cedola et accusò il frate al governatore. El quale, impaurito, per mezzo d’amici compose di restituire una parte al fratello et una parte darne al governatore e qualcosetta, benché poco, rimase a lui, con la quale ancora oggi traduce la vita sua misera et infame.

 

Stemmo la sera quivi e l’altro giorno ci conducemmo a Scionga, castello pure del duca Alberto di Baviera che l’aveva murato di nuovo in modo vi erano poche case. Alloggiammo in una osteria, dove la sera si ridussono assai forestieri e, tra gli altri, un vescovo che era oratore all’Imperatore per il re Ferrando di Spagna. Costui, d’un ragionamento in uno altro, saltò in sul lodare il suo Re da tutte le parte e massime diceva che era eccellentissimo capitano nella guerra et iustissimo e laborioso nella pace.

Il Venafro, che volentieri s’opponeva perché gli pareva in quel modo dimonstrare meglio la sua eloquenzia et aveva odio particulare col re Ferrando, perché aveva lasciato perdere lo stato al re Federigo e toltone una [87v] parte per sé, gli rispose che non sapeva che nell’arme lui avessi fatto cosa alcuna eccellente e, se aveva vinto in molti luoghi, erono suti li suoi capitani e non lui, ma che molto più aveva ottenuto con fraude che con virtù; e che aveva ingannato il re di Granata e poi il re Federigo il quale, quando sperava da lui aiuto, si trovò l’armata, che credeva avessi mandato in suo favore, esserli contro; e che Consalvo ottenne poi la vittoria contro a’ Franzesi, quando il Re era in Ispagna (et il premio che ne riportò fu che subito gli diventò sospetto e l’abdicò da tutte le faccende et oggi si sta riposto in uno angolo di Spagna); e che nell’azione della pace non sapeva vedere, non sapeva discernere tanta sua iustizia e bontà, perché vedeva lasciava governare assai alla Regina e lui attendeva a darsi piacere, quando con altre donne, quando a giuoco, quando a caccia.

Il vescovo lo escusava con dire che era assai che avessi ordinato in modo la sua milizia che in essi fussino capitani che valessino, e che debellò la Granata per forza e non con fraude; e che, conoscendo che il re Federigo perdeva il Regno di Napoli e non lo potere aiutare, volle piuttosto averne una parte per sé che lasciarlo tutto al re di Francia, donde [88r] ne seguì che Consalvo, con sua virtù e prudenzia, possette cacciare e’ Franzesi di tutto quel regno; e che gli diventò sospetto con ragione, perché seppe certo che esso disegnava farsi re e nondimeno, avendo rispetto alla sua virtù, lo lasciò vivere e gli bastò non li potessi nuocere; e che dava grande auttorità alla Regina perché li era ubrigato e la conosceva donna che valeva assai; e, se si dava piacere con altre donne, era cosa naturale e che nessuna ne volle mai per forza né per mezzo d’esse elevò alcuno in grado; e che non voleva negare che esso non fussi dedito al giuoco, ma che in quello non usò mai fraude e si contentò sempre più presto di perdere che di guadagnare; e che la caccia è cosa propria de’ principi e’ quali in essa si debbono essercitare per non impigrire e marcire nell’ozio e per essere poi più robusti e nella milizia e nell’altre faccende hanno a fare.

Il Venafro aveva ordito di risponderli, ma, essendo già l’ora tarda e dubitando io che da queste parole modeste non si precedessi a altre non convenienti, m’ingegnai di rompere il ragionamento e che ciascuno s’andassi a riposare per potersi levare più per tempo la mattina. [88v]

 

Levati, con un grandissimo freddo e triste vie le quali la neve  faceva pessime, ci conducemmo la sera a un borgo di case chiamato Ambringa, luogo molto salvatico e povero. E la più parte delli abitanti, per possere vivere, attendono a intagliare ossi minutamente e mettere crocifissi o altre imagine, così intagliate, in gusci di noce e simil cose che si portono a torno a vendere. Quivi trovammo, la sera, alloggiato el luogotene[n]te del marchese Joachim di Brandiburg con cinquanta lance le quali conduceva a Trento, secondo era stato deliberato nella Dieta.

Li uomini d’arme alamanni sono molto più espediti che gli italiani o franzesi, perché sono armati leggieri e li cavalli non portano selle arcionate né barde, né hanno con loro cariaggi; ma, tra dette cinquanta lance, era solo un carro lungo tirato da cavalli, in sul quale tutta la compagnia usa mettere quello che vuole portare e, quando il campo si raguna tutto insieme, quando accade, detti carri possono servire per riparo del campo.

L’altro giorno cavalcando pure per luoghi montuosi et aspri, con gran fatica ci conducemmo a Portachirchen, borgo così chiamato. Et avendo mandato avanti i nostri tedeschi a cercare il logiamento, smarrimmo il cammino perché tra noi non era chi ne sapessi domandare né chi si ricordassi bene del luogo [89r] dove  avammo a andare; e ci conducemmo a un ponte, che era la via d’andare a Monaco in Baviera. Pure io mi ricordai del nome e domandai il meglio seppi e presi una guida che ci conducessi a detto Portachirchen.

Al Venafro, per il freddo e camino lungo e disagio, venne la sera febbre e bisognò tenere tutta notte lumi accesi e fuoco per fare creistieri, in modo che qualche suo servitore, forse riscaldato dal vino o forse per stracchezza addormentato, messe fuoco in un letto della camera dove lui era. El romore fu grande. Tutto il borgo concorse a spengerlo, come il costume d’Alamagna che, per avere in gran parte le case di legname, è stato messo grande ordine e provisione e rimedi da estinguere il fuoco, in modo che quivi, sanza molto danno, si estinse. E noi ci partimmo avanti giorno et a buon’ora ci posammo a un castelletto posto in uno monte alto, detto Zival.

Quivi, per l’essere lassi del cammino tristo e per non aver dormito la notte precedente, a buon’ora cenammo e ce n’andammo a posare. Et il giorno sequente ci conducemmo ad Ispruc dove la mattina appresso fu dal preposto della Iustizia condannata una femmina a essere arsa per uno eccesso aveva commesso, il quale a narrarlo sarà lungo, ma si considerrà per esso quanto le femmine sieno desiderose della vendetta et astute al vendicarsi. [89v]

 

Riducevasi in Ispruc spesso uno gentiluomo che aveva lo stato suo quivi vicino, chiamato Andrea Delitestan, parente di messer Paolo Delitestan, il quale era de’ primi uomini avessi lo Imperatore a presso di sé. Questo Andrea era giovane d’anni venti e li era di poco morto il padre che li aveva lasciato buono stato et inoltre danari e gioie et altri beni mobili. E, come interviene spesso a chi è ricco e pieno d’ozio, s’innamorò d’una femmina d’Ispruc, figlia a uno fornaro e, di volontà del padre, durò qualche anno a darsi piacere seco. E, benché fussi confortato da molti amici e parenti di prendere moglie, non ne voleva udire niente. Pure cominciando già a essere in età d’anni venticinque, sendo tutto giorno combattuto con parole e stretto in ultimo dall’Imperatore, prese per donna una figliuola d’un gentiluomo del contado di Tirolo bella, onesta e galante e con buona dota.

II che venendo alli orecchi della fornara, che Lisabetta aveva nome, n’ebbe quel dispiacere che si può pensare, iudicando avere a essere a un tratto priva e dell’innamorato e della roba ne traeva, che non era poca. Pure, venendo esso da lei come prima e dicendoli [90r] essere stato in modo astretto da Cesare che non aveva potuto negare il tôrre donna, essa monstrò crederlo e gli fece buona cera come prima. E seguitorno darsi piacere insieme insino che fu il tempo che Andrea doveva consumare il matrimonio.

Il quale, per potere fare le nozze più suntuose, deliberò farle in Ispruc, avendo commodità del palazzo dell’Imperatore il quale era assente.

Venuto dunque il giorno delle nozze, la Lisabetta pregò Andrea che fussi contento, la sera che si doveva coniungere con la moglie, come aveva cenato venire da lei e coniungersi prima seco, e che voleva tal grazia da lui perché era l’ultima volta s’avevono a trovare insieme in piacere. E lui gnene promisse. Lei dunque, pensando di nuocere a Andrea et alla moglie, non si curò di mettere ancora sé in qualche pericolo.

E la mattina che doveva la sera coniungersi con Andrea, a buon’ora, vestita a uso di servente, uscì d’Ispruc e, monstrando d’andare a certa chiesa per divozione, si fermò pel cammino avanti uno uscio d’una casetta dove stavano dua giovani leprosi. Mentre [90v] era quivi, passò un messo della corte che andava portando richieste pel paese, come è il costume, e gli parve conoscere la Lisabetta e si maravigliò fussi in quello abito, sola a quella ora; pure non disse niente.

Uno dei giovani leprosi usci in su la porta e lei gli domandò un bicchiere d’acqua. Lui rispose che, sendo infetto, non gli darebbe acqua perché non voleva essere causa di nuocere a lei. La Lisabetta gli rispose che non solo be’rebbe col suo bicchiere, ma ancora farebbe altro, quando lui volessi. Onde il leproso, sentendosi incitare et essendo giovine e per quel male fatto più libidinoso che prima, accettò lo invito e, tiratola in casa, usò più volte seco et il medesimo fece poi il compagno. E lei, quando li parve tempo, si partì da loro et a casa sua se ne tornò, aspettando con grande desiderio la venuta d’Andrea.

Il quale, secondo la promessa, venne al tempo ordinato e con la innamorata si congiunse e ne trasse la infezione della lepra e, quando gli parve tempo, non sanza lacrime, si partì. La Lisabetta, subito che lui fu partito avendo ordinato un bagno, molto bene

si lavò e con esso [91r] rimosse da sé la infezione. Andrea la notte giacette con la moglie e, seguitando nel coniungnersi con essa, l’uno e l’altro intra spazio d’un mese diventorono leprosi. E non potendo pensare d’onde fussi causato tal male et increscendone a ciascuno che lo intendeva e venendo a notizia al messo questo caso, si ricordò avere visto la Lisabetta avanti l’uscio de’ leprosi et, essendo noto che Andrea la teneva per concubina, gl’entrò dubbio che, avendo tolto moglie, non si fussi voluta vendicare. E però, per guadagnare, andò dal preposto della Iustizia e narrò il dubbio aveva. Il quale, mandato subito per la Lisabetta, con poche parole ne trasse il vero perché lei confessò liberamente la cosa a punto come era successa; né li parve avere commesso errore alcuno, ma diceva avere fatto tutto per vendetta. Onde il preposto, riscontrando con Andrea essere vero quello diceva la Lisabetta, la condannò al fuoco e la mattina se ne fece l’essecuzione.

 

Seguitammo, a di 6 di gennaio, il cammino con [92v] freddo grande e neve e, volendo cavalcare il giorno poco, fummo condotti dalla guida a Sterzing, che è distante da Ispruc miglia sette tedesche. Giugnemmo a notte. Tutte le case erano piene di fanti in modo avemmo fatica d’avere una sola camera dove ci riducemmo il Venafro et Antimaco et io con li nostri servitori. E perché la notte non era possibile dormire per lo strepito si sentiva in quella casa, qualcuno de’ nostri servitori cominciò a giucare con carte. Antimaco, che faceva il religioso e forse l’ipocrito, vedendoli giucare si turbò e gli riprese. Il Venafro, ch’era poco religioso e troppo largo, gli difendeva e disse a Antimaco che, poiché la notte non era possibile dormire in quello loggiamento, che bisognava trapassarla con qualche ragionamento e per questo, se lui voleva pigliare l’assunto di dannare il giuoco, lui voleva pigliarlo difenderlo e risponde<re> a tutto quello diceva. E così convenuti, passorono gran parte della notte. E perché il ragionamento fu lungo e piacevole e [93r] forse non inutile, lo riferirò per modo di dialogo. E prima cominciò Antimaco.

 

ANT. Spesso sono stato ammirato che certi uomini, li quali sono tenuti prudenti, sieno tanti dediti al giuoco e si escusano che lo fanno per fuggire ozio e passare il tempo con manco fastidio possono. Et io credo in molte cose ingannarmi, ma in questo voglio parlare audacemente et affermare che il giuco, in ogni qualità di persona, è vizio tanto pernizioso quanto alcuno altro perché e’ principi, che hanno questo vizio, danno malo essemplo a’ sudditi et il tempo, che doverrebbono consumare in pensate a governare bene et udire chi ha bisogno, dispensono invano, onde ne seguono innumerabili disordini. E’ nobili inviluppati in questo lasciono ogn’altra faccenda. E’ mercanti ricchi impoveriscano e poveri si conducano in disperazione. E’ giovani, se cominciono a vincere, diventano pròdigi e lussuriosi e libidinosi; se cominciono a perdere, perdono, insieme co’ danari, l’animo e s’inviliscono e quelli che sarieno riusciti valenti uomini doventa[93v]no vili e da pochi e fraudolenti. E’ poveri artefici consumono nel giuoco e’ danari et il tempo, co’ quali arebbono a nutrire la loro famiglia; e’ contadini abbandonano la cultivazione. E così, da questo maletto vizio, seguono tutti e’ disordini che si possono non che dire, ma pensare. E ci sarebbe da parlare sopra questo insino a domattina, ma voglio aspettare la risposta tua.

VEN. Giudicherai, forse, che io sia troppo lungo nella mia risposta, ma non è possibile, con brievi parole, confutare le tua sottili e ben detta ragione. Io fo un presupposto che tutto quello che li uomini fanno in questo mondo, lo faccino a fine di conseguire piacere. E questo si dimonstra ogni giorno con la esperienzia perché, cominciando a quelli che vivono col timore d’Iddio e che osservano appunto la religione nostra, si vede certo che non hanno altro fine che il piacere, perché si persuadono, come è la verità, che l’anima, partita che sarà dal corpo, abbi a godere a trionfare nel regno celestiare e gustare tutte le beatitudine e felicità che si possono pensare e poi si debba coniungere di nuovo con il corpo per stare sempre in quiete e gaudio.

Li uomini che vivono secondo il mondo, chi pone il suo piacere nell’ambizione, chi nella gola, chi nella libidine, chi di congregare danari, chi d’allevare con buoni costumi la sua famiglia, chi d’essere acerrimo difensore de’ poveri et avere più presto per obietto il bene pubblico, che il suo proprio.

Stante questo fondamento, [94r] se è stato trovato un modo che  dà piacere quasi a ciascuno, non so con quale ragione si possa biasimare il giuoco: non lascia sentire il dolore dell’animo né del corpo, diverte l’uomo dalla libidine, dalla gola, dall’avarizia, dalla sevizia e così da tutti e’ difetti che cascono nelli uomini; e se bene è causa di molti errori, dicono e’ medici che nessuna medicina è di tanto giovamento al corpo, che non abbi in sé qualche nocumento. Il vino, preso con modestia, conferisce, ma, immoderato, nuoce: così il giuoco ha molti difetti in sé, ma procede da non essere usato in quello modo si debbe. Il coito è causa di mantenere la generazione umana, ma chi non attendessi mai a altro sarebbe da biasimare; el mangiare sostiene il corpo, ma chi mangiassi sempre sarebbe una bestia: però non è da dannare assolute il giuoco, ma sono bene da dannare quelli che l’usono sanza considerazione e sanza modo.

E perché tu di’ che occupa il tempo, questo non si può negare. Ma chi è quello a chi non avanzi tempo? e che ne consumi una gran parte in dormire più che il bisogno, et in parlare e dire male di questo e quello, et in contare favole e novelle che non sono di profitto alcuno? Et Iddio volessi che i principi, quello tempo che distribuiscono in pensare alle guerre et inquetare e’ popoli e mettere nuove angarie e non li lasciare vivere, lo distribuissino più presto in giucare! Perché qual cosa è più contraria alla religione [94v] nostra che la guerra? Et il Salvatore Nostro non ci essorta a altro che alla pace, nondimeno è tanto la ignoranzia delli uomini che è laudato un principe inqueto, crudele e bellicoso et uno queto, pio e che attende alli suoi piaceri è dannato...

Ma non voglio, Antimaco mio, che mi risponda perché il parlare nostro procederebbe troppo in lungo. A me basta avere detto quanto mi occorre e so che tu se’ di troppa età a poterti rimuovere della tua oppenione.

 

Biblioteca dei Classici italiani di Giuseppe Bonghi

Ultimo aggiornamento: 03 aprile 2005