ISOCRATE

 

 

OPERETTE MORALI

 

 

 

 

 Edizione di riferimento

Giacomo Leopardi, Tutte le opere, con introduzione e a cura di Walter Binni con la collaborazione di Enrico Ghidetto, vol. I, Sansoni editore, Firenze 1969

 

"Le prime tre operette furono tradotte a Recanati dal 5 dic. 1824 al 12 gennaio 1825. L’opera, che il Giordani giudicò « modello di perfezione in fatto di volgarizzamenti», avrebbe dovuto essere stampata nel volume progettato « scelta di moralisti greci tradotti » dell’editore Stella che non fu mai realizzata. Sull’autografo fra le carte napoletane c’è l’imprimatur della censura milanese. Questo testo segue l’edizione di Francesco Flora.

 

 ISOCRATE.

Nacque nel 436 a. C. ad Atene, nel demo di Erchia, da un certo Teodoro, ricco fabbricante di strumenti musicali. Ricevette un'educazione accurata, fu scolaro di Prodico e dei retori Gorgia, Tisia e Teramene. Ebbe anche rapporti con la scuola socratica: alla fine del Fedro platonico Socrate presagisce per lui un grande avvenire. In séguito alla guerra del Peloponneso perdette quasi tutti i suoi beni e si dette allora, nel 402, alla professione di avvocato, scrivendo i discorsi per i clienti. Ma, poiché in tale attività non otteneva il successo sperato, preferì, dopo un decennio, volgersi ad altro campo. L'innata, invincibile timidezza e la voce troppo debole gl'impedirono di dedicarsi alla vita politica attiva; aprì una scuola di eloquenza, in principio a Chio, con nove scolari, poi, nel 388, ad Atene. Il corso durava da tre a quattro anni; ogni mese aveva luogo una gara di eloquenza, il cui premio consisteva in una corona. L'insegnamento voleva non solo dare precetti retorici, ma formare la cultura generale, educare alla sapienza pratica. Ben presto la scuola isocratea divenne famosa e oscurò quelle dei piú celebrati maestri, quali Policrate e Alcidamante. Molti dei discorsi di I. a noi giunti sono appunto esercitazioni composte da lui come modelli per i suoi scolari. Suoi allievi furono uomini di Stato come Timoteo e Laodamante, gli storici Eforo e Teopompo, i tragediografi Teodette e Astidamante, gli oratori Iseo, Licurgo, Eschine e Iperide. Fu in rapporti con personaggi eminenti, Evagora e Nicocle re di Cipro, Archidamo di Sparta e Filippo di Macedonia. Suo avversario fu Aristotele, che diceva esser cosa turpe lasciar parlare I. Questi aveva il culto della forma, dello stile rigoroso e impeccabile, a cui Alcidamante contrapponeva l'elogio dell'ardita improvvisazione. L'ideale politico di I., da lui esposto in varie opere, le quali risentono tutte delle differenti condizioni politiche degli anni in cui furono composte (Panegirico, Plataico, Sulla Pace, Areopagitico, Filippo, Panatenaico), fu l'unione degli Elleni contro i barbari, vagheggiata da lui prima sotto il binomio Atene-Sparta, l'una con la sua potenza navale, l'altra con quella terrestre; poi, quando queste due forze militari decaddero, sotto Filippo, che, sempre contro i barbari Persiani, avrebbe dovuto porsi a capo delle città greche. Una leggenda vuole che appunto dopo la battaglia di Cheronea I., quando vide distrutto, insieme con la libertà ateniese, il suo ideale, sia morto, a 98 anni, di crepacuore o si sia lasciato morire di fame. Sembra che, in realtà, una malattia gli abbia impedito di nutrirsi. Negli ultimi anni aveva sposato Platane, vedova del sofista Ippia e madre di Afareo, oratore e tragediografo.(V.D.F.)

(Diz. biog. degli Autori di tutti i tempi, Fabbri-Bompiani, Milano 1970)

 

 

DISCORSO DEL PRINCIPATO

A NICOCLE RE DI SALAMINA

 

Quelli, o Nicocle, che sogliono a voi altri principi recare in dono o vesti, o lavorii di bronzo o pur d’oro, o altra di così fatte masserizie delle quali eglino sono poveri e voi copiosi, paiono a me, non donare, ma trafficare assai manifestamente, e vendere quei loro arnesi con molta più scaltrezza di quelli che fanno professione di mercatantare. Io per me mi reputerei porgerti un donativo bellissimo sopra ogni altro ed utilissimo, e degno altresì sommamente a me di porgere e a te di ricevere, se io ti sapessi mostrare con quali instituti, e da quali azioni astenendoti, tu possa governare nel miglior modo cotesta città e cotesto regno. Imperocché uomini privati hanno non poche cose che gli ammaestrano. Prima e principalmente questa, che essi non vivono tra gli agi e le morbidezze, anzi sono costretti quasi a combattere quotidianamente per le necessità della vita. Poi le leggi alle quali sono sottoposti ciascuno secondo i luoghi. Anco la libertà del dire, e la facoltà che hanno gli amici di riprendergli apertamente, e gl’inimici di valersi dei loro falli per danneggiarli. Oltre di questo alcuni poeti antichi hanno lasciato diversi documenti del modo che si vuol tenere nella vita ordinaria. Onde per tutti questi rispetti è ragione che essi vengano più costumati. Ma i principi non hanno veruna di così fatte cose, e dove si converrebbe a loro più che a qualunque altro di essere bene ammaestrati, essi per lo contrario, da poi che sono ascesi all’impero, non ricevono ammaestramento né ammonizione alcuna; perché gli uomini la più parte vivono lontano da esso loro, e quelli che usano seco, attendono a lusingargli. Onde è seguìto che avendo avute in mano infinite ricchezze ed altre facoltà grandissime, per non le aver bene usate hanno fatto che da molti si dubiti quale sia più da desiderare, o la vita di quelli che essendo in grado privato, si portano dirittamente e bene, o pure la vita dei principi. Imperocché qualora riguardano agli onori, alle ricchezze ed alla potenza, per poco giudicano che i re sieno uguali agli Dei. Ma quando da altra parte pongono mente ai timori e ai pericoli, e recandosi alla memoria, trovano, questi essere stati uccisi da chi meno dovevano, quelli necessitati a offendere i loro parenti più stretti, e a tale essere avvenuta l’una e l’altra cosa, conchiudono per lo contrario, ogni altro modo di vita essere da volere, piuttosto che con sì fatte calamità regnare in su tutta l’Asia.

La quale diversità di giudizi e confusione di animi nasce dal creder che fanno questi tali che il regno, come fosse un sacerdozio, sia cosa da tutti: quando ella è la maggiore di tutte le cose umane e quella che ricerca maggior provvidenza e senno. Quanto si è adunque ai negozi particolari, egli è ufficio di chi si trova presente nelle occasioni, il dar consiglio come quelli sieno da condurre, e come da preservare i beni e da schifare i sinistri. Ma generalmente i fini a cui si vuol tendere e gl’instituti che sono da tenere, m’ingegnerò io di mostrargli in questo discorso. Il quale se debba o no riuscire degno della materia, malagevolmente si può conoscere dal principio. Imperocché non pochi componimenti sì di verso come di prosa, insino a tanto che sono contenuti nell’animo degli autori, cagionano grandissima espettazione; ma poi, scritti e compiuti e mandati in luce, ottengono fama inferiore di gran lunga a quella speranza. A ogni modo il proposito, per lo manco, di questa fatica è lodevole, cioè di cercare le cose state pretermesse dagli altri, e di dar quasi legge ai principi. E in vero quelli che ammaestrano le persone private, fanno cosa utile a queste sole: ma chi volgesse allo studio della virtù i signori della moltitudine, gioverebbe a questi e ai loro sudditi parimente, facendo agli uni la signoria più sicura, agli altri la vita civile più tranquilla e più dolce.

Prima dunque di tutto, si vuol chiarire qual sia l’ufficio del principe. Imperocché se avremo compreso bene la somma e il valore della cosa universale, avendo poi l’occhio colà, potremo meglio discorrere delle parti. Io credo che tutti sieno per consentire in questo, che il principe dee, se la città è misera, liberarla dalla miseria; se in istato prospero, mantenervela; e di una città piccola fare una grande. Tutti gli altri negozi che accaggiono alla giornata, si debbono fare in rispetto di questi fini. Ora egli è manifesto alla bella prima che a quelli che deggiono poter fare le dette cose e di esse pensare e deliberare, non si conviene attendere all’ozio e alle agiatezze, ma studiare ogni via di dovere essere più savi che gli altri. Perciocché non è dubbio alcuno che eglino tal regno avranno, quale si formeranno la propria mente. Onde a nessuno atleta è così richiesto esercitare il suo corpo, come ai principi l’animo, atteso che tutti i premi proposti in tutte le solennità dei giuochi, a pigliarli insieme, non sono da quanto è una menoma parte di quelli per li quali a voi bisogna contendere ogni giorno. Le quali considerazioni ti deggiono muovere a por mente e a sforzarti di avanzare gli altri in virtù quanto tu gli superi negli onori. E non ti pensassi che lo studio e la industria, benché facciano frutto nelle altre cose, non vagliano perciò nulla a farci migliori e più savi. Né volere attribuire alla condizione umana tanta infelicità, che laddove essi uomini hanno trovato arti colle quali si dimesticano e si migliorano gli animi delle bestie, eglino tuttavia non possano fare alcun giovamento a se stessi in quel che appartiene alla virtù; ma renditi certo che l’addottrinamento e la diligenza possono profittare agli animi nostri; e perciò fa di usare coi più assennati e più savi di quelli che tu hai dintorno, e degli altri recati in corte quelli che tu potrai; non voler trascurare nessun poeta famoso e nessun altro saggio, ma piglia ad ascoltare gli uni, degli altri renditi scolare, e procaccia di riuscir buon giudice delle minori cose, e delle maggiori emulo. Mediante i quali esercizi, in brevissimo tempo tu potrai divenire tale, quale abbiamo definito essere il principe buono ed atto a bene amministrare le cose pubbliche. E a questo intento per certo ti spronerai da te stesso gagliardamente, se tu stimerai cosa indegna che chi è da meno o peggiore comandi a chi è migliore o da più, e che gli sciocchi reggano i giudiziosi. Imperciocché quanto la scempiaggine altrui parratti più vile e più spregevole, con tanto maggiore studio eserciterai l’intelletto proprio. Da queste cose per tanto incomincino quelli che vogliono poter fare qualche buono effetto.

Oltre di questo, bisogna amare gli uomini e la città. Né cavalli né cani né uomini né altra cosa veruna si può governare per acconcio modo, chi non ha inclinazione a quello a che egli dee soprastare. Tien conto della moltitudine, e studia quanto cosa alcuna del mondo che il tuo reggimento riesca loro a grado, considerando che sì delle signorie di pochi, sì degli altri stati, quelli durano più, i quali nel miglior modo si affaticano di piacere alla moltitudine. Tu governerai bene il popolo se non lo lascerai trascorrere a sfrenatezza e insolenza contro agli altri, né gli altri contro a lui, provvedendo che i più meritevoli abbiano gli onori e le dignità, e gli altri non sieno ingiuriati in cosa alcuna; fondamenti primi e principalissimi di buona repubblica.

Dei bandi, degli statuti, delle costumanze togli o riforma quello che non istà bene; e se tu puoi, trova per te medesimo gli ordinamenti più acconci, se no, imita quello che di buono e di convenevole hanno gli altri luoghi. Cerca di così fatte leggi che oltre ad essere giuste, utili e tra se concordi, facciano le liti e le controversie dei cittadini pochissime e le decisioni prestissime quanto più si può; di tutti questi pregi dovendo essere fornite le leggi buone. Fa che i lavori ed ogn’industria lodevole riesca a’ tuoi sudditi di guadagno, e per lo contrario le brighe e i litigi sieno loro di scapito, acciocché da queste cose abborriscano, ed a quelle attendano volentieri. Giudica le loro contese senza favore, e per guisa che i giudizi non sieno contrari gli uni agli altri, ma delle cose medesime sentenzia in un medesimo modo sempre; perché egli è decoroso e utile insieme, che il sentimento del principe nelle cose che toccano alla giustizia, sia fermo ed immobile al pari delle buone leggi.

Governa la città nel modo che tu dei governare la casa paterna, cioè con isplendidezza regia negli apparati, e con molta esattezza in ogni faccenda, a fine di potere a un medesimo tempo tenerti in riputazione e bastare alle spese. Magnifico non ti dimostrare in quelle cose che vogliono il dispendio grande e passano subito, ma sì bene in quelle dette di sopra, e nella bellezza delle robe, e nell’usare liberalità cogli amici. Imperocché il frutto di cotali spese ti resterà sempre mentre che tu vivrai, ed ai posteri, oltre a ciò, lascerai cose di più valore che non saranno state le somme che tu avrai spese.

Onora gli Dei nel modo che praticarono gli antenati; ma pensa che il sacrificio più bello e il maggior culto divino si è quando l’uomo è migliore e più giusto che può, atteso che egli è più da aspettare che questi tali impetrino alcuna grazia da Dio, che non quelli che offeriscono molte vittime.

Gli onori che sono principali nell’apparenza, si vogliono dare ai più congiunti di sangue, ma quelli di più sostanza, alle genti più affezionate.

Fa ragione che la più sicura guardia del corpo che tu possa avere sia la virtù degli amici, la benevolenza dei cittadini e il senno tuo proprio; perciocché con questi mezzi più che con qualunque altro si possono sì conseguire i principati e sì conservargli.

Abbi cura delle sostanze dei privati, e fa conto che chi scialacqua spenda del tuo, chi lavora e fa roba accresca le tue facoltà; perché tutti gli averi dei sudditi sono propri del signore che regna bene.

Dimóstrati perpetuamente studioso del vero per sì fatta guisa che più fede sia prestata alle tue parole che ai giuramenti degli altri.

Provvedi che tutti i forestieri vivano costì sicuramente, e vi sia mantenuta loro la fede nei contratti. Ma fra quelli, abbi a cuore in modo speciale, non mica chi ti viene a donare, anzi chi vuole avere da te, i quali accarezzando e beneficando, tu ne acquisterai più riputazione.

Togli via da’ tuoi sudditi le paure e i sospetti, e non volere esser temuto da chi non fa male nessuno; perché nel modo che gli altri saranno disposti verso di te, parimente sarai tu verso gli altri. Con ira tu non farai cosa alcuna, ma però te ne infingerai qualora ti sarà in acconcio. Dimóstrati formidabile con operare che nessuno atto dei sudditi non ti si possa nascondere, ma benigno poi con essere contento di pene minori che non corrisponderebbero alle colpe.

Usa una cotale arte di governare che non già mica consista nella fierezza e nel gastigare aspramente, ma nel fare in modo che tu vinca ogni altro di prudenza, e che tutti credano che tu provvegga per la salute loro meglio che non saprebbero essi medesimi.

Guerriero ti conviene essere di scienza e di apparati, ma pacifico in guanto tu non appetirai cosa alcuna oltre il giusto. Verso i potentati inferiori portati come tu vuoi che i superiori si portino verso di te. Non istare a contendere di ogni cosa, ma bene di quelle dove, se ti succede il vincere, tu guadagni. Abbi per gente da poco, non quelli che si lasciano vincere con profitto loro, anzi quelli che vincono con danno proprio; e per magnanimi, non quelli che abbracciano più che non possono tenere, ma quelli che hanno propositi moderati e facoltà di condurre a perfezione le imprese che fanno. Porta invidia onorata ed emulazione, non mica a quelli che acquistarono maggior signoria che gli altri, ma sì a coloro che amministrarono meglio quella che ebbero; e non ti dare a intendere di avere a esser felice perfettamente, se con timori e pericoli tu fossi signore di tutti gli uomini, ma se essendo tale quale ti si conviene, e operando nel modo che i tempi e tue condizioni ricercheranno, dall’un canto tu non desidererai cosa se non moderata, e dall’altro nessuna di queste sì fatte ti mancherà.

Pigliati per amici non tutti quelli che vorrebbero, né coi quali usando, tu avrai più diletto e spasso, ma quelli che più si convengono colla tua natura, e coi quali tu governerai meglio lo stato. Infórmati dei costumi de’ tuoi familiari con diligenza grande, perché l’altra gente ti reputerà simile a quelli che praticheranno teco. Alle faccende che tu non maneggerai personalmente, preponi di così fatti uomini quali dee preporre colui che sarà imputato del bene e del male che essi faranno. Abbi per fidate non già quelle persone che lodano ogni tua parola e ogni tuo fatto quale si sia, ma quelle che ti ripigliano de’ tuoi falli. Consenti che gli uomini gravi e di buon giudizio ti possano favellare alla libera, sicché nelle incertitudini e nelle sospensioni d’animo tu abbi chi ti aiuti a disaminare le cose. Studia di conoscere chi ti lusinga per arte da chi ti gratifica per buon volere, acciò non prevagliano appresso di te i malvagi ai buoni. Presta orecchio a quello che gli uomini dicono gli uni degli altri, e sforzati d’intendere a un medesimo tempo chi e quali sieno quelli che parlano e quelli di che essi parlano. Prendi del calunniatore la medesima pena che tu avresti presa del calunniato, trovandolo in colpa.

Tu regnerai non meno sopra te stesso che sopra gli altri, e giudicherai convenirsi alla condizione regia sopra ogni cosa, non essere schiavo di niuna voluttà ed avere nelle passioni proprie maggiore impero che tu abbi nei cittadini.

Non istringere familiarità con alcuno così alla cieca e senza pensare, e avvezzati a compiacerti di quelle conversazioni per le quali tu farai profitto ed anche sarai più stimato.

Non fare troppo caso degli onori che si raccolgono da quello che è possibile ancora ai tristi, ma sì mostra di pregiarti assai della virtù, nessuna parte della quale è comune ai malvagi. E pensa che i più veraci onori non sono quelli che si rendono pubblicamente per paura, ma quando gli uomini in se stessi o privatamente, ammirano il senno del principe più che la fortuna. Se tu avessi affetto a qualche cosa vile o di picciolo conto, provvedi che ciò non si conosca, e per lo contrario fa che sia manifesto che tu vai dietro alle cose di momento sommo.

Non giudicare che egli sia di ragione che gli altri abbiano a procedere modestamente e il principe senza modo, anzi fa che la tua propria temperanza e misuratezza sia d’esempio agli altri, considerando che i costumi di tutta la città si rassomigliano a quelli dei principi.

Fa conto che egli sia segno che il tuo reggimento è buono, se tu vedi che per le tue diligenze la città divenga più ricca e più costumata.

Maggiormente ti caglia di poter lasciare ai figliuoli una fama onorevole che una ricchezza grande; perché questa passa, quella no; e colla fama si acquistano le ricchezze, ma colle ricchezze non si compera la riputazione; e quelle toccano anche alla gente da nulla, ma questa non la possono conseguire altri che gli eccellenti.

Nelle vesti e negli ornati del corpo tu dèi seguitare il lusso, ma nelle altre cose, siccome si conviene ai principi, essere parco e tollerante; di modo che quelli che ti vedranno, dalle apparenze di fuori ti giudichino degno del principato, e quelli che useranno teco, giudichino altrettanto dalla fortezza dell’animo.

Esamina continuamente i tuoi fatti e le tue parole, per fallire il meno che si può.

Ottimo in tutti i negozi si è adoperar quella misura appunto che si richiede, né più né meno; ma poiché questa a fatica si può conoscere, eleggi piuttosto il difetto che l’eccesso, atteso che la giusta mediocrità suol potere più in quello che in questo.

Proccura di essere festevole e grave, perché questo è conveniente alla dignità reale, quello fa per le conversazioni amichevoli e familiari. Ma ciò è cosa sopra tutte le altre malagevolissima; perché noi veggiamo ordinariamente quelli che vogliono essere contegnosi, riuscire freddi e scipiti, e chi vuole essere sollazzevole, dare nel basso e nell’ignobile. Ora egli è di bisogno studiarsi di esercitare ambedue le dette qualità, e di fuggir quello inconveniente che tien dietro a ciascuna di loro.

A voler conoscere perfettamente una qual si sia cosa di quelle che si appartiene ai principi di sapere, adòperavi la pratica e la filosofia. Perocché dalla filosofia ti saranno insegnate le strade, e coll’esercizio pratico acquisterai facoltà di saper condurre i negozi effettualmente. Osserva di giorno in giorno le operazioni e i casi dei privati e dei principi, perché se tu avrai bene a memoria le cose passate, tu consulterai più acconciamente delle future.

Paiati difetto grandissimo che dove parecchi uomini privati si eleggono di morire a fine di essere lodati dopo la morte, ai principi non basti il cuore di attendere a quegl’instituti e proponimenti per cui sarebbero gloriosi ancora in vita. Mettiti in animo che le immagini che tu lascerai debbano più ricordare la tua virtù che le tue fattezze. Fa ogni tuo potere perché tu e i tuoi vi dobbiate conservare in istato tranquillo e sicuro; ma se tu fossi costretto di porti a pericolo, eleggi innanzi di morire onoratamente che di vivere con vergogna. In qualsivoglia atto ricordati del principato, e studia di non far cosa indegna di questo grado. Non sofferir che la tua natura si risolva tutta, ma poiché ti fu dato un corpo mortale e un animo eterno, sforzati di lasciar dell’animo una memoria immortale.

Vienti esercitando nel favellare degl’instituti e dei fatti egregi, per assuefarti ad aver sentimenti e disposizioni d’animo conformi a sì fatte parole. Quello che tu, discorrendo teco medesimo, giudichi essere il meglio, quello metti in esecuzione operando. Imita i fatti di coloro dei quali tu vorresti avere la riputazione. Quei consigli che tu daresti a tuoi figliuoli, mettigli in pratica per te stesso. Attienti a ciò che è detto fin qui, o cerca di meglio.

In fine abbi per sapienti, non quelli che con sottigliezza grande quistionano di cose lievi, ma quelli che ragionano acconciamente di materie gravissime; e non quelli che agli altri promettono beatitudini, ed essi vivono in gran difficoltà e miseria, ma quelli che da un lato parlano di se moderatamente, dall’altro sanno usare cogli uomini e trattare i negozi, e per le mutazioni della fortuna non si turbano, ma portano bene e temperatamente sì le cose prospere e sì le avverse.

E non ti maravigliare se una buona parte di quello che è detto di sopra, ti era nota innanzi, perché io non lo ignorava, e sapeva bene che in tanto numero d’uomini o privati o principi, alcuni avevano già detta o una o un’altra di quelle cose, alcuni ne avevano udite, e chi ne aveva vedute praticare, altri ne metteva in opera esso medesimo. Ma in questi ragionamenti degl’instituti e degli uffici, non sono da cercare le novità, perché nulla vi si può trovare d’inaspettato né d’incredibile né d’insolito; ma quello è da riputare di cotali scritti il più bello, nel quale sieno raccolti in sulla materia la più parte dei concetti che erano dispersi nelle menti degli uomini, e questi più leggiadramente esposti che in alcuno altro. Io vedeva anche bene, che dalla universalità quelle scritture, o che elle sieno prose o poemi, le quali porgono consigli ed avvertimenti, sono per verità giudicate utili più di tutte, ma non mica udite più volentieri; anzi interviene loro come alle persone che s’impacciano di ammonire gli altri, le guali sono lodate da tutti, ma niuno le vuole avere intorno, e meglio amano gli uomini usare con chi gli aiuta a far male, che con questi che si adoperano per dissuadernegli. Esempio di ciò potrebbero essere i poemi di Esiodo, di Teognide e di Focilide, i quali autori hanno voce di esser maestri eccellenti della vita umana, e tuttavia quegli stessi che così li chiamano, si eleggono d’intrattenersi scambievolmente colle loro stoltizie, piuttosto che spendere il tempo intorno ai coloro ammaestramenti. Così chi scegliesse da’ poeti migliori quelle che si chiamano sentenze, che sono quella parte dove essi poeti posero più studio, il medesimo avverrebbe ancora a queste, che gli uomini ascolterebbero più volentieri una commedia, se ben fosse la più scempia del mondo, che non quelle cose composte con tanto artifizio. Ma che bisogno è di fermarsi a dir dei particolari a uno a uno, quando in generale, se noi vogliamo por mente alle nature degli uomini, possiamo di leggeri comprendere che i più di loro non amano né i cibi più sani, né gli studi più degni ed onesti, né le azioni migliori, né le discipline più profittevoli, ma in ogni cosa hanno la inclinazione e il piacere contrario all’utile, e molti che non fanno cosa che si convenga, pur sono stimati forti, tolleranti e dediti alla fatica? Di modo che a questi tali come può mai l’uomo piacere o consigliando o insegnando o favellando di alcuna cosa utile? I quali, oltre al detto innanzi, portano invidia agli uomini di buon senno, e gl’insensati chiamano schietti e candidi; e hanno sì fattamente in odio la verità, che non conoscono pure le cose proprie, anzi a pensarne, si annoiano e si rattristano, e per lo contrario godono di cianciare di quelle d’altri; e prima torrebbero di patire corporalmente che di affaticare l’animo e discorrere seco stessi di qual si sia cosa necessaria. Nel commercio scambievole, o mordono e rimbrottano o sono rimbrottati e morsi; nella solitudine, in cambio di deliberare, attendono a far desiderii. Io non dico queste cose di tutti, ma di quelli a cui toccano. Certo e manifesto si è, che chiunque vuole o con versi o con prose piacere alla moltitudine, dee cercare sopra ogni cosa, non l’utile, ma il favoloso, perché di udir questo le genti si dilettano molto, se bene hanno poi disgusto quando veggano le battaglie e le contese reali. Per la qual cosa è da ammirare l’artificio d’Omero e dei primi che inventarono la tragedia, i quali conosciuta la natura degli uomini, adoperarono nella loro poesia l’uno e l’altro genere: perocché Omero cantò favolosamente le battaglie e le guerre de’ semidei, e quegli altri ridussero le favole in combattimenti e in azioni, di modo che, oltre a essere udite, elle ci divennero anche visibili. Adunque per così fatti esempi si dà bene ad intendere a chi vuol toccare gli animi degli uditori, che lasciando da parte i consigli e le ammonizioni, gli bisogna dire e scrivere quello di che egli vede che il popolo si diletta.

Queste cose ti ho voluto significare, pensando che a te, il quale sei, non uno della moltitudine, anzi signore di molti, si convenga sentire diversamente dagli altri, e le cose gravi e gli uomini giudiziosi non misurare dal piacere, ma provargli nelle operazioni utili, e secondo la utilità stimargli. Massimamente che se bene i filosofi non si accordano intorno agli esercizi dell’animo, volendo alcuni che per mezzo della dialettica, altri che per via della politica, altri che per altre dottrine i loro discepoli abbiano a divenire più savi e di miglior senno, tutti però convengono in questo, che l’uomo bene ammaestrato debbe, o per l’una o per l’altra di quelle tali discipline, riuscire atto a ben consigliare e deliberare. Vuolsi per tanto, lasciata star quella parte che è controversa, e tenendosi a quello che è confessato da tutti, venire alla prova degli uomini, e, se si può, vedere nelle occasioni come sappiano consigliare, se no, intender come ragionino delle cose in generale, e quelli che non dimostrano alcun buono avvedimento, averli per nulla e rigettarli, manifesta cosa essendo che queste sì fatte persone, le quali non possono pur giovare a se medesime, molto meno potranno far savio e prudente altrui. Ma per lo contrario gli uomini giudiziosi e atti a vedere più che gli altri, tiengli in conto grande e accarezzagli, considerando che niuno altro bene si trova, così utile a possedere e così regio, come è un buono e sufficiente consigliatore. E fa ragione che quelli ti accresceranno maggiormente il regno, i quali più ti beneficheranno l’intendimento.

Io dunque ti ho mostrato quello che io so e che io reputo convenevole, e ti onoro con quelle cose che comporta la mia facoltà. E consiglioti a volere che eziandio gli altri, in iscambio dei consueti donativi, i quali voi, come ho detto a principio, comperate molto più caro da chi gli dona, che non fareste da quelli che gli vendessero, ti rechino di così fatti presenti, che se tu gli userai molto, e non passerai giorno che tu non gli adoperi, in vece di logorarli, gli farai maggiori e di più valuta.

 

 

NICOCLE

 

Sono alcuni, i quali hanno l’animo avverso alle lettere, e biasimano i coltivatori di quelle, dicendo che essi seguitano sì fatto studio a fine, non di virtù, ma di avvantaggiarsi dagli altri. Io dimanderei volentieri a questi tali, che voglia dir ciò, che laddove essi lodano chi vuol bene operare, a un medesimo tempo fuggono da quelli che vorrebbono parlar bene. Che se spiacciono loro i vantaggi che uno ha dagli altri, veggiamo che più e maggiori se ne acquistano colle opere che colle parole. Anco sarebbe strano a pensare che questi nemici dei letterati non sapessero che noi facciamo onore agli Dei, pratichiamo la giustizia e seguitiamo le altre virtù, non mica per doverne avere disavvantaggio dagli altri, ma sì per vivere con quella maggior quantità di beni che per noi si possa ottenere. Sicché non sono da riprendere quelle cose per le quali uno può virtuosamente sopravanzare gli altri. ma sì quelle persone le quali peccano colle opere, e quelle che colle parole ingannano e che non le usano rettamente. E io mi maraviglio di questi che dicono male delle lettere, che non dicano anche male delle ricchezze, della forza, del coraggio. Imperocché se essi portano odio alle lettere per rispetto di coloro che si vagliono della eloquenza a ingannare altrui, ragion vuole che riprovino medesimamente anco gli altri beni, atteso che non mancano di coloro che vaglionsi di questi altresì per commetter male e far pregiudizio a molti. Ma certo non è ragionevole, perché altri batta costui o colui, biasimare la forza, né condannare il coraggio per causa dei micidiali, né in somma riferire la malvagità degli uomini alle cose; ma voglionsi vituperare quei medesimi i quali usano male quelle che verso di se sono buone, e cercano nuocere ai compagni con quelle che sono atte a giovare. Ma questi tali, lasciate star queste distinzioni, guardano con mal occhio qualunque letteratura, e tanto si discostano dal diritto senso, che non si avveggono che essi portano odio a quella facoltà dell’uomo dalla quale nasce una copia di beni maggiore che da qualsivoglia altra. Imperocché nelle altre, come sarebbe a dire la velocità, la forza e simili, non che noi sormontiamo gli altri animali, anzi ne stiamo loro al di sotto. Ma per esserci dato dalla natura di poterci persuadere l’un l’altro e significare scambievolmente che che uno vuole, non tanto siamo potuti uscire della vita fiera e salvatica, ma congregati insieme, noi ci abbiamo fabbricato le città e posto leggi e trovato arti, e brevemente in quasi tutte le nostre invenzioni e fatture siamo stati aiutati principalmente dalla favella. Questa ha prescritto e statuito del diritto e del torto, del vituperevole e dell’onesto, senza i quali ordini noi non potremmo vivere insieme. Con questa accusiamo e convinciamo i cattivi, e celebriamo i buoni. Per mezzo di questa addottriniamo i semplici, e conosciamo i sensati. Imperciocché il favellare a proposito e acconciamente si è indizio di sensatezza certissimo fra tutti gli altri, siccome un parlar verace, legittimo e retto si è immagine di un animo buono e leale. Colla favella disputiamo delle cose dubbie, discorriamo tra noi medesimi delle ignote. Perocché quegli argomenti stessi coi quali l’uno, parlando, persuade l’altro, si usano altresì quando l’uomo delibera in se medesimo delle cose proprie; ed eloquenti sono denominati quelli che sanno favellare nella moltitudine, avveduti poi si stimano coloro che più saviamente parlano seco stessi di quel che occorre. E a dire di questa facoltà in ristretto, nessuna opera che si faccia con ragione e senno, si fa senza intervento della favella, governatrice e regina di tutti gli atti e pensieri dell’uomo; e trovasi che chi più intendimento ha, più la suole usare. Di modo che quelli che si ardiscono mordere i precettori delle lettere e gli studiosi di quelle, non sono manco da avere in abbominazione che sieno coloro che offendono i templi degl’immortali.

Io quanto a me, ho cara e pregiata qualunque letteratura; ma bellissimi e regii ed accomodati a me sopra tutti gli altri mi paiono quei ragionamenti che danno consigli e regole sopra gl’instituti e gli uffici, e sopra i reggimenti delle città, e massime quelli che insegnano ai potenti come sia da trattare la moltitudine, e ai privati come sia da procedere verso i principi. Perocché io veggo per questi sì fatti ammaestramenti le città essere felici e crescere in grandezza oltremodo. Dell’altra parte, cioè come uno debba regnare, avete udito il ragionamento composto da Isocrate. Quella che le tien dietro, la quale si è degli uffici dei sudditi, vedrò di spiegarla io, non con animo di soverchiare Isocrate, ma in quanto che egli mi si conviene di favellarvi sopra tutto di questa materia. Perocché se non avendovi io dato a conoscere quello che io voglio che voi facciate, intervenisse che voi vi discostaste dalla intenzione mia, non me ne potrei giustamente crucciare. Ma se avendovelo io mostro, non seguisse l’effetto, ben ragionevolmente riprenderei chi non ubbidisse. Io credo che meglio mi verrà fatto di persuadervi, e meglio vi recherò a tener bene a memoria e mettere in pratica quello che io sono per dire, se non istarò solamente in sul consigliarvi, e annoverato che io v’abbia i miei precetti, farò fine, ma se da vantaggio dimostrerovvi, prima, che lo stato presente della città si vuole aver caro e contentarsene, non solo per rispetto alla necessità, né anco perciò solamente, che sempre siamo vissuti con questa forma, ma per rispetto eziandio che ella è la migliore di tutte. Poi, che questo principato che io tengo, io non l’ho per modo illegittimo e non è d’altrui, ma tengolo lecitamente e di ragione, sì avendo riguardo ai miei progenitori primi, sì a mio padre e sì ultimamente a me stesso. Dimostrate che sieno le quali cose, nessuno ci dovrà essere che, pure da se, non si giudichi degno di qual si sia maggior pena, in caso che egli contravvenga ai consigli e ai comandamenti miei.

Quanto si è adunque agli stati delle città, poiché da questa parte ho proposto di dover cominciare, io penso che a tutti paia malissimo fatto che in una medesima condizione sieno i malvagi e i valentuomini, e giustissimo per lo contrario che le cose sieno distinte in modo che ad uno non tocchi quel medesimo che ad altri diversi da lui, ma ciascheduno riceva ed abbia secondo il merito. Ora le signorie di pochi, e medesimamente le repubbliche popolari, cercano la egualità fra quelli che partecipano dello stato, ed havvisi in pregio se l’uno non può di qual si sia cosa trapassare l’altro, il quale ordine ridonda in utilità dei tristi. Le monarchie danno il più e il meglio a chi similmente val più, la seconda parte a chi vien dopo, la terza e la quarta agli altri secondo la stessa regola. Che se questo modo non si trova usato da per tutto, nondimeno la proprietà della monarchia vorrebbe così. Distinguere le nature e gli andamenti degli uomini nessuno vorrà negare che non si faccia più nelle monarchie che negli altri stati. Ora dimando io, chi non bramerebbe, essendo di sano intendimento, di vivere in quella repubblica dove, se egli è persona d’assai, per tale debba essere conosciuto, anzi che starsene confuso tra la moltitudine senza che gli uomini sappiano quel che ei si vaglia? Oltre a tutto questo, di tanto è più discreta e più facile la monarchia che non sono le altre repubbliche, quanto è più leggera cosa aver l’occhio alla volontà di un solo, che sforzarsi di aggradire a molti e diversi ingegni Dunque che lo stato monarchico sia più comodo, più discreto e più giusto, si potrebbe anco provare con più ragioni, ma pure per le anzidette si è bastevolmente chiaro.

Nelle altre parti, quanto stieno di sopra le monarchie per rispetto sì al deliberare e sì all’eseguire convenientemente, si potrà considerare meglio che in altro modo, se noi porremo a riscontro quello che interviene ai diversi stati circa ai negozi principali. Coloro dunque che entrano ai magistrati d’anno in anno, prima ritornano nella condizione privata, che eglino abbiano potuto intendere alcuna parte delle occorrenze del comune, e farvi la pratica. All’incontro quelli che sempre stanno al governo delle medesime cose. quando pur fossero di natura manco adatta, certo però in quanto alla pratica, sono di gran lunga da più che gli altri. Poi, quelli trascurano molte cose, riposandosene gli uni negli altri scambievolmente; ma questi non lasciano cosa alcuna a cui non pongano cura, sapendo che a loro tocca di provvedere a che che sia. Oltre a ciò negli stati di pochi, e il simile nei popolari, quelli che governano nocciono alla comunità per le gare e le concorrenze che hanno tra se; laddove i monarchi, non avendo a chi portare invidia fanno di ogni cosa il meglio che possono. Aggiungasi che quelli fanno il bisognevole troppo tardi, perché il più del tempo si adoperano nei loro servigi privati, e quando sono insieme a consiglio, più spesso si veggono quistionare, che deliberare in comune. Per lo contrario i monarchi, non avendo né congregazioni né tempi assegnati al deliberare, e stando dì e notte in sul provvedere ai negozi, non restano indietro ai bisogni e alle occasioni, ma fanno ogni cosa a tempo. Di più, quelli hanno l’animo alieno gli uni dagli altri, e per acquistare essi più riputazione, vorrebbero che gli uomini stati negli uffici prima, e quelli che vi hanno a essere dopo loro, avessero fatto o fossero per fare della città il peggior governo del mondo. Ma i re, avendo in mano il reggimento tutta la vita, sempre amano la città di uno stesso amore. E quello che è di momento sommo e principalissimo, questi governano le cose della comunità come proprie, quelli come altrui; e gli uni, per loro consiglieri nel governarle, adoperano, fra i cittadini, i più arditi, gli altri scelgono fra tutti i più prudenti; e quelli onorano chi sa favellare tra la turba, questi chi sa maneggiare i negozi.

E non solo nelle cose ordinarie e in quelle che occorrono alla giornata, va innanzi lo stato monarchico a tutti gli altri, ma eziandio nella guerra ha tutti i vantaggi che si possono avere. Far preparamenti di forze, usarle per modo che elle o si rimangono occulte o sieno manifeste secondo che la utilità richiede, persuadere gli uni, sforzare gli altri, da questi comperare, quelli guadagnare con altre arti, tutte queste cose meglio si possono fare dalle monarchie che dagli altri stati. E che ciò sia vero, oltre alle ragioni, abbiamo anche gli esempi. Sappiamo tutti che la signoria de’ Persiani è venuta in questa tanta grandezza, non per senno e prudenza di quella gente, ma perciocché essi più che gli altri popoli onorano la monarchia. Veggiamo il re Dionigi, trovato il rimanente della Sicilia desolato e guasto, e la sua patria assediata, non solo averla tratta dai pericoli di quel tempo, ma ridottala eziandio la maggiore delle città greche. I Cartaginesi, e similmente i Lacedemoni, i quali hanno migliori ordini di repubblica che gli altri Greci, troviamo che in casa sono governati da pochi, alla guerra dai re. Si potrebbe anco dare a vedere che gli Ateniesi, i quali sopra tutti gli altri portano odio grandissimo ai principati, qualora prepongono agli eserciti molti capi, fanno mala prova, qualora un solo, succedono loro le cose felicemente. Ora, come si potrebbe meglio provare che con questi esempi, la monarchia vincere di eccellenza tutti gli altri stati? nei quali esempi si veggono, da una parte, uomini sottoposti sempre e compiutamente alla signoria d’un solo, avere imperio grandissimo; da altra parte, popoli governati da un convenevole reggimento di pochi, adoperare alle cose di maggior momento, quale la potestà di un solo capitano, quale il governo regio nelle soldatesche; in fine uomini odiatori dei principati, qualunque volta nelle guerre usano l’opera di più capi, non avere alcun successo buono.

Che se noi vogliamo anche toccare alcuna delle cose antiche, è fama che gli Dei medesimamente sieno sottoposti al regno di Giove. Dei quali, se la fama è vera, manifesto è che ancora essi giudicano sì fatta constituzione essere la migliore. Se niuno sa certamente il fatto come egli stia, ma solo congetturando noi siamo venuti in questa opinione, segno è che tutti abbiamo in pregio singolare lo stato monarchico, poiché non avremmo mai detto che gl’immortali si valessero della monarchia, se di lungo intervallo non la reputassimo superiore a qualunque altra forma di reggimento.

Dunque degli stati delle città, quanto si avvantaggino gli uni dagli altri, a pensarne non che a dirne ogni cosa, sarebbe impossibile; ma ora al nostro uopo basta quel tanto che ne è detto. Che poi giustamente e convenevolmente io mi tenga questa signoria, con molto minor numero di parole si può dichiarare, ed è cosa intorno alla quale consentono i giudizi degli uomini molto più. Tutti sanno che Teucro, ceppo della mia famiglia, presi con se gli antenati degli altri nostri cittadini, venuto in questi paesi, fondò ai compagni questa città, e tra loro il territorio distribuì; e che mio padre Evagora, stata perduta da altri la signoria, esso con pericoli grandissimi ricuperatala, mutò le cose per modo, che non più i Fenici comandano ai Salamini, ma quelli che ebbero questo regno a principio, hannolo anche al presente.

Resta che io dica di me stesso, acciocché voi conosciate tale essere il re vostro, che egli, non solo per rispetto degli antenati, una per se medesimo, sarebbe arco degno di maggior dominio che questo non è. Io penso che niuno voglia contendere che di tutte le virtù non sieno le più pregevoli la giustizia e la temperanza, poiché queste, non solo ci sono utili da se medesime, ma se noi prenderemo a considerare le cose umane, guardando alle nature, alle potenze ed agli usi loro, troveremo che quelle che sono al tutto divise da queste due qualità, producono mali grandi, e quelle che sono congiunte alla temperanza e alla giustizia, giovano in molti modi alla nostra vita. Ora se mai per l’addietro fu alcuno che di così fatte virtù avesse lode, parmi che ancora a me sia dovuta la stessa fama. La mia giustizia potete conoscere massimamente da questo, che avendo io trovato, quando presi a regnare, vòto l’erario regio, consumata ogni facoltà, ogni cosa piena di confusione e bisognosa di cura, di cautela e di spesa grande, benché io sapessi che altri in sì fatti casi non lasciano mezzo alcuno indietro, appartenente a riordinare le cose proprie, e si lasciano sforzare a molti atti diversi dalla natura loro, non per tanto non fui pervertito da tali difficoltà e da tali esempi, ma governai le cose con tanta innocenza e tanta onestà, che io non pretermisi di fare una menoma parte di quello perché la città dovesse crescere e prosperare. Imperciocché verso i cittadini io mi portai con tanta piacevolezza, che sotto il mio regno non si sono veduti esilii né morti né confiscazioni di beni né multe né così fatta calamità nessuna. Ed essendoci per la guerra di quei tempi la Grecia chiusa, e noi predati e spogliati in ogni luogo, i più di questi travagli io tolsi via, pagando a chi tutto, a chi parte, pregando alcuni d’indugio, con altri componendo le differenze come io potetti il meglio. Oltre di ciò essendo verso di noi gli animi delle genti dell’isola mal disposti, e l’Imperatore riconciliato in parole, ma in fatti pieno di mala volontà, io raddolcii gli uni e l’altro, questo colla diligenza e prontezza negli ossequi e nei servigi, quelli con procedere verso loro dirittamente. Imperocché io sono di tal maniera alieno da ogni appetito dell’altrui, che laddove molti, solo che possano poco più dei vicini, usurpano parte delle loro terre e cercano di vantaggiarsi contro il diritto, io non volli anco accettare quel tanto di paese che mi era offerto, e mi eleggo di possedere con giustizia il mio territorio solo, piuttosto che per vie torte acquistarne maggiore a più doppi. Ma che bisogno è dilungarsi ricordando questa e quella cosa, quando io posso con poche parole dire che egli sarà manifesto a chiunque ne cercherà, non avere io mai fatto ingiuria ad alcuno, e per lo contrario aver fatto beneficio a un maggior numero sì di cittadini e sì di altri Greci, e dato a questi e a quelli maggiori doni, che non fecero tutti insieme i re predecessori miei? E veramente converrebbe che quelli che si pregiano di giustizia grande, e che fanno professione di non essere superabili dall’amor della roba, potessero dire di se cose altrettanto insigni.

Anche maggiori di queste io mi trovo poter narrare intorno alla mia temperanza. Perocché veggendo che niuna cosa hanno tutti gli uomini generalmente così cara siccome le mogli e i figliuoli, e contro a niuno si adirano sì gravemente come contro a chi offende loro le une o gli altri; e che la contumeliosa libidine verso quelle o questi è fonte di calamità grandissime, e molti per sua cagione, così privati come principi, essere capitati male; io fuggii per modo ogni imputazione di sì fatte colpe, che egli si può trovare che da poi ch’io tengo il principato, niuna persona, salvo che la mia donna, ho usata amorosamente: non che io non sapessi che nell’universale hanno lode eziandio coloro che osservando i termini del giusto in quanto si è alle cose dei cittadini, procacciano però di loro diletti da qualche altra parte; ma da un canto io mi sono voluto tenere come più si poteva lontano da ogni sospetto in questo particolare, da un altro lato farmi esempio di costumatezza a’ miei cittadini, sapendo che la moltitudine suol tenere quegl’instituti e quei modi che ella vede essere usati da’ suoi reggitori. Di poi m’è paruto essere convenevole che siccome i principi sono maggiormente onorati che gli altri uomini, così ed altrettanto sieno migliori di quelli; e sconcio essere oltremodo il procedere di coloro i quali costringono gli altri a vivere modestamente, ed essi non dimostrano più di temperanza che i loro sudditi. Oltre che io vedeva nelle altre cose anche uomini volgari essere continenti, ma queste così fatte libidini vincere anco i migliori. Pertanto ho voluto dimostrarmi atto a resistere alla cupidità in quelle cose dove io non era solamente per superare il volgo, ma eziandio quelli che si pregiano di virtù. Mi pareva anche molto da biasimare chi avendo menata moglie e fattasela consorte di tutta la vita, poi contraffacendo al suo proprio fatto, affligge co’ suoi piaceri quella dalla quale egli si persuade che niuna afflizione gli convenga ricevere; e dove egli in altri consorzi e in altre congiunzioni si porta convenevolmente, non guarda di mancare in questo consorzio che egli ha colla moglie, il quale sarebbe da osservare con tanto più studio che gli altri, quanto egli è il più stretto e il maggiore che l’uomo ahbia. Ed ecco che questi tali per così fatto modo, non se ne avvedendo, dentro alla medesima reggia si creano e si nutricano sedizioni e discordie, laddove egli è pure ufficio dei principi buoni procacciare la unità degli animi non solo nelle città sottoposte alla signoria loro, ma eziandio ne’ palagi propri e dove che essi dimorino. Né anco mi è piaciuta mai quella opinione che hanno la più parte dei principi intorno alla procreazione dei figliuoli, né mi è paruto ben fatto, procrear questo da femmina di minor grado, quello da persona di più alto affare, e lasciar figliuoli, altri spuri ed altri legittimi; ma ho creduto che quanti nascessero da me, tanti dovessero potere, sì dal canto del padre e sì della madre, riferire la propria origine a mio padre Evagora tra i mortali, agli Eacidi tra gli eroi, a Giove tra gl’iddii, e nessuno de’ miei figliuoli dovere essere privato di questa nobiltà di stirpe.

E una delle molte considerazioni che mi hanno indotto a volere entrare e perseverare in questi andamenti e in questi propositi, è stata che il coraggio, l’ingegno e le altre qualità lodate, sono comuni a molti ribaldi, ma la temperanza e la giustizia sono proprie ricchezze degli uomini costumati e buoni. Onde la più onorata cosa che io potessi fare, mi è paruto che fosse di attendere, lasciate star le altre virtù, a queste due, delle quali nessuna parte hanno i tristi, verissime, durevolissime, grandissime sopra tutte, e degne di grandissima lode. Per questa considerazione, più che nelle altre virtù, ho posto cura all’esercitarmi nella temperanza e nella giustizia, e delle voluttà non ho scelto quelle che si godono in sul fatto stesso e che niuna sorta di onore portano seco, ma sì bene quelle che si colgono dalla gloria prodotta dalla bontà dei costumi e delle azioni.

Vuolsi poi giudicare delle virtù esaminandole, non tutte negli stessi casi, ma la giustizia laddove l’uomo trovasi disagiato di roba, la temperanza laddove egli è in istato potente, la continenza nella età giovanile. Ora in tutte queste condizioni si è potuto vedere il saggio delle mie qualità. Perciocché lasciato da mio padre in istrettezza di danari, io mi sono portato con giustizia tale che io non ho dato materia di rammarico a un cittadino qual si fosse; venuto in quel grado di potenza dove l’uomo fa quel che ei vuole, io mi sono dimostrato più temperante che non fanno i privati; e l’uno e l’altro a tempo che io mi trovava in quella età nella quale veggiamo che i più degli uomini sogliono nelle loro azioni trascorrere più che mai. Tutte queste cose, forse che a dirle con altri io non mi arrischierei leggermente, non che egli non me ne paia meritar lode o che io non la curi, ma per dubbio ch’elle non mi fossero credute; ben le dico francamente con voi, che al tutto me ne potete essere testimoni. Ora egli si conviene lodare e ammirare eziandio quelli che sono costumati naturalmente, ma più quelli in cui la costumatezza procede anco da ragione; perciocché ove quella è caso e non consiglio, medesimamente il caso la può disfare; ma quelli che oltre alla disposizione ingenita, hanno stabilita nell’animo per giudizio e conoscimento questa sentenza, la virtù essere il maggiore di tutti i beni, manifesto è che mai non sono per lasciare siffatto stile.

Mi sono voluto distendere in questi ragionamenti, così di me stesso come delle altre cose dette fin qui, per non vi lasciar luogo a nessuna scusa che voi non dobbiate far prontamente e di buona voglia quanto io vi sono per consigliare e per comandare. Dico dunque che ciascuno di voi faccia quello ufficio al quale è preposto, con accuratezza e rettitudine; perché se voi mancherete dell’una o dell’altra in qualunque parte, necessario è che in quella parte le cose non riescano come dovrebbero. Però non dovete spregiare né trascurare nessuno de’ miei comandamenti, immaginandovi che questi o quegli altri montino poco; anzi dovete pensate che da ciascuna delle parti dipenda che buona o cattiva sia la condizione del tutto, e usar diligenza proporzionata a questa opinione. Tanta cura abbiate delle cose mie, quanta delle vostre proprie; e non vi date ad intendere che piccioli beni sieno quegli onori che hanno i ministri miei buoni.

Astenetevi dalla roba d’altri, se volete più sicuramente possedere la roba vostra; e portatevi verso quelli nel modo che voi giudicate che io mi debba portare verso di voi.

Non vi caglia più dello arricchire che dello aver buona fama, perché dovete sapere che qualunque è tra i Greci o tra i Barbari, maggiormente celebrato dagli uomini per la virtù, ciascuno di questi tali ha maggior quantità di beni in suo potere. I guadagni fatti per modi ingiusti, abbiate per fermo essere per produrre, non mica ricchezza, ma pericolo. Non vogliate pensare che il ricevere o prendere sia guadagno, il dare, discapito; perocché né l’uno né l’altro importa quel medesimo sempre, ma qualunque dei due fassi tempo ed onestamente, ritorna in beneficio di chi lo fa.

Non abbiate a grave niuna delle mie commissioni, perché quelli di voi che mi saranno utili in maggior numero di servigi, avanzeranno maggiormente le case loro.

Fate conto che niuna di quelle cose delle quali ciascuno di voi sarà consapevole a se medesimo, mi debba restate occulta, ma quando io vi sia lontano colla persona, pensate che l’animo mio si trovi presente a ogni cosa; perché con questo pensiero procederete nelle vostre deliberazioni più sanamente. Non mi vogliate celar che che sia né di quanto voi possedete né di quanto operate o siete per operare; considerando che sopra le cose occulte nascono necessariamente molti sospetti. E così non vogliate usare un tenor di vita artificioso e nascosto, ma procedere con semplicità e scopertamente per modo che niuno, eziandio volendo, possa trovar taglio di accusa contro di voi. Esaminate ogni atto che siate per fare, e abbiate per cattivi quelli che voi non vorreste che io sapessi, per buoni quelli a cagione dei quali io terrovvi, dove io li risappia, in migliore estimazione di prima. Se vi abbattete a scoprire o fatti o disegni contrari alla mia potestà, non ve gli conviene tacere, ma dinunziargli, e pensare che quella pena medesima che è dovuta a chi pecca, si conviene ancora a chi nasconde il peccato. Felice dovete riputare non chi male operando, non è veduto, ma chi non fa male veruno, atteso che egli è da credere che l’uno e l’altro abbiano a riportare quella mercede che si appartiene al merito di ciascuno di loro. Non fate compagnie né ritrovi senza il mio consenso, perché sì fatte congiunzioni in tutti gli altri stati servono ad avvantaggiarsi, ma elle corrono pericolo nelle monarchie. Astenetevi non solo dalle malvage opere, ma da quegli andamenti altresì e da quegl’instituti i quali di necessità danno materia di sospetto.

Abbiate l’amicizia mia per sicurissima e costantissima, e sforzatevi di conservare lo stato presente né vogliate desiderar mutazione alcuna; considerando che per così fatti moti forza è che periscano le città e che le case private rovinino. Fate ragione che l’asprezza o la mansuetudine dei principi non procede solo dalla natura di quelli, ma eziandio da’ portamenti dei cittadini, perché molti signori per la malvagità dei sudditi sono necessitati di usare un governo più duro che non vorrebbono. Fondamento di sicurezza di animo vi debbe essere non più la benignità mia, che la vostra propria virtù. Ed abbiate a mente che l’essere io libero da pericoli, darà luogo a voi di poter anco vivere senza timori, perché se le mie cose staranno bene, le vostre eziandio staranno non altrimenti.

Voi dovete essere umili verso l’imperio mio, con osservare i costumi introdotti e custodire le leggi reali; ma splendidi nei servigi delle città e nello eseguire i miei comandamenti.

Studiatevi di menare i giovani alla virtù, non solo con le parole, ma eziandio mostrando loro colle opere come abbiano a esser fatti gli uomini buoni e d’assai. Ammaestrate i figliuoli propri a sapere essere governati dai principi, ed assuefategli a porre nello studio di così fatta virtù la maggiore industria e la maggior cura del mondo; perocché se eglino impareranno a esser governati, saranno poi molto meglio atti a governare; e se eglino riusciranno fedeli e diritti, entreranno a parte dei nostri beni; se tristi, andranno a pericolo di perdere i loro propri. E fate giudizio di avere a lasciare ai figliuoli una ricchezza grandissima e stabilissima, se voi lascerete loro la nostra benevolenza.

Abbiate per supremamente miseri e sfortunati quelli che sono mancati di fede a chi si era fidato di loro; necessaria cosa essendo che questi tali vivano il rimanente della loro vita in grande sconforto, avendo sospetto e paura di chicchessia e non si fidando più degli amici che dei nemici. Paianvi degni d’invidia, non quelli che abbondano di ricchezze più che gli altri, ma quelli a cui la coscienza non rimorde di nessun atto o pensamento sinistro; perché l’uomo può con sì fatto animo, trapassare la vita più dolcemente. E non vi date ad intendere che la malizia possa meglio fruttare che la virtù; solo aver nome più fastidioso a sentire: anzi abbiate per fermo universalmente che la proprietà delle cose corrisponde ai nomi che elle portano.

Non vogliate avere invidia a quelli che per disposizione mia tengono i primi luoghi, ma piuttosto emulargli, e sforzarvi, collo adoperar bene e valentemente, di pervenire agli stessi gradi. Quelli che il prinicpe ama ed onora dovete amare e onorare anche voi, se volete essere da me vicendevolmente onorati ed amati.

I pensieri vostri quando io vi sono lontano, fate che corrispondano alle parole che voi dite alla presenza mia; e più che colle parole, dimostratemivi affezionati colle opere.

Guardatevi di non fare agli altri quello che voi non potete portare in pace che sia fatto a voi, e medesimamente di non seguitare in effetto nessuna di quelle cose che voi condannate in parole.

Aspettatevi di aver a esser trattati secondo quali saranno i pensieri vostri verso il principe.

Non vogliate solo commendare gli uomini da bene, ma prendergli anco a imitare.

Abbiate le mie parole per leggi, e studiatevi di osservarle, perché quelli di voi che faranno maggiormente ciò che io voglio, avranno facoltà di vivere come essi vorrebbono.

E a recare le molte parole in poche, voi dovete procedere verso l’imperio mio nel modo che voi giudicate che si debbano portare verso di voi medesimi quelli che vi sono sottoposti.

E adempiendo voi le predette cose, che starò io qui ad esporvi distesamente gli effetti che seguiranno? Basta che se io continuerò nello stile usato fin qui, e voi farete come innanzi quanto vi si appartiene, non passerà gran tempo che voi vedrete ridotta la vita vostra in istato più copioso e felice, accresciuto il mio regno, e la città in flore. Nessuno espediente per verità sarebbe da pretermettere, ogni qual si sia fatica o pericolo che si richiedesse, sarebbe da sostenere di buona voglia per l’acquisto di così fatti beni. Ora voi potete senza alcun travaglio né rischio, con solo essere giusti e fedeli, conseguire tutte queste felicità.

 

 

 

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Ultimo aggiornamento: 03 aprile 2005