Niccol Machiavelli

Discorso intorno alla nostra lingua


da: Niccol Machiavelli, La Mandragola - Clizia - Belfagor - tutto il teatro e tutti gli scritti letterari, a cura di Franco Gaeta, Feltrinelli UE 475, Milano gennaio 1965 -

         Sempre ch'io ho potuto onorare la patria mia, eziandio con mio carico et pericolo, l'ho fatto volentieri: perch l'uomo non ha maggiore obbligo nella vita sua che con quella, dependendo prima da essa l'essere, e dipoi tutto quello che di buono la fortuna e la natura ci hanno conceduto; e tanto viene a essere maggiore in coloro che hanno sortito patria pi nobile. E veramente colui il quale con l'animo et con l'opera si fa nimico della sua patria, meritamente si pu chiamare parricida, ancora che da quella fussi suto offeso. Perch, se battere il padre e la madre, per qualunche cagione, cosa nefanda, di necessit ne segue il lacerare la patria esser cosa nefandissima: perch da lei mai si patisce alcuna persecutione per la quale possa meritare d'essere da te ingiuriata, avendo a riconoscere da quella ogni tuo bene; tal che, s'ella si priva di parte de' suoi cittadini, sei pi tosto obligato ringraziarla di quelli che la si lascia, che infamarla di quelli che la ci toglie. E quando questo sia vero (che verissimo), io non dubito mai d'ingannarmi per difenderla et venire contra quelli che troppo prosuntuosamente cercano di privarla dell'onor suo.
         La cagione perch io abbia mosso questo ragionamento la disputa, nata pi volte ne' passati giorni, se la lingua nella quale hanno scritto i nostri poeti et oratori fiorentini fiorentina, toscana o italiana. Nella qual disputa ho considerato come alcuni, meno inhonesti, vogliono ch'ella sia toscana; alcuni altri, inhonestissimi, la chiamano italiana; et alcuni tengono ch'ella si debba al tutto nominare fiorentina. Et ciascuno di essi s' sforzato di difendere la parte sua; in forma che, restando la lite indecisa, m' parso in questo mio vendemmial negotio scrivervi largamente quello che io ne senta, per terminare la quistione o per dare a ciascuno materia di maggiore contesa.
         A volere vedere dunque con che lingua hanno scritto gli scrittori in questa moderna lingua celebrati, delli quali tengano, senza alcuna discrepanza d'alcuno, il primo luogo Dante, il Petrarca et il Boccaccio, necessario metterli da una parte, et da l'altra tutta Italia (alla qual provincia, per amore circa la lingua di questi tre, pare che qualunche altro luogo ceda: perch la spagnuola et la franzese et la tedesca meno in questo caso prosontuosa che la lombarda). necessario, fatto questo, considerare tutti li luoghi d'Italia, et vedere la differenza del parlar loro, et a quelli dare pi favore che a questi scrittori si confanno, et concedere loro pi grado et pi parte in quella lingua, et, se voi volete, bene distinguere tutta Italia, et quante castella, non che citt, sono in essa. Per, volendo fuggire questa confusione, divideremo quella solamente nelle sue provincie, come Lombardia, Romagna, Toscana, Terra di Roma et Regno di Napoli.
         E veramente, se ciascuna di dette parti saranno bene examinate, si vedr nel parlare d'esse grandi differenze. Ma, a voler conoscere donde proceda questo, prima necessario vedere qualche ragione di quelle che fanno che in fra loro sia tanta similitudine, che questi che oggi scrivono vogliono che quelli che hanno scritto per l'adreto habbino parlato in questa lingua comune italiana; et quale ragione fa che, in tante diversit di lingue, noi ci intendiamo.
         Vogliono alcuni che a ciascuna lingua dia termine la particula affermativa, la quale appresso a gl'Italiani, con questa ditione s significata; et che per tutta quella provincia si intenda il medesimo parlare dove con un medesimo vocabolo parlando si afferma e allegano l'autorit di Dante, il quale, volendo significare Italia, la nomin sotto questa particola s quando disse:
                   Ahi Pisa, vituperio delle genti
                   del bel paese l dove il s suona,
cio d'Italia. Allegano ancora l'exemplo di Francia, dove tutto il paese si chiama Francia ed detto ancora lingua di ui et d'oc: che significano, appresso di loro, quel medesimo che appresso li Italiani s. Adducano ancora in exemplo tutta la lingua tedesca, che dice i, et tutta la Inghilterra, che dice jes. Et forse da queste ragioni mossi, vogliono molti di costoro che qualunche in Italia che scriva o parli, scriva et parli in una lingua.
         Alcuni altri tengono che questa particola s non sia quella che regoli la lingua, perch, se la regolasse, i Siciliani et li Spagnuoli sarebbono ancor loro, quanto al parlare, Italiani: et per necessario si regoli con altre ragioni. Et dicano che chi considera bene le otto parti de l'oratione, et nelle quale ogni parlare si divide, troverr che quella che si chiama verbo la catena et il nervo de la lingua; et ogni volta che in questa parte non si varia, ancora che nelle altre si variasse assai, conviene che le lingue habbino una comune intelligenza: perch quelli nomi che ci sono incogniti ce li fa intendere il verbo, quale infra loro collocato. Et cos, per contrario, dove li verbi sono diferenti, ancora che vi fussi similitudine ne' nomi, diventa quella un'altra lingua. Et per exemplo si pu dare la provincia d'Italia, la quale in una minima parte differente ne i verbi, ma ne i nomi differentissima: perch ciascuno italiano dice amare, stare et leggere, ma ciascuno di loro non dice gi deschetto, tavola et guastada. Intra i pronomi quelli che importano pi sono variati, s com' mi in vece d'io et ti per tu.
         Quello che fa ancora differenti le lingue, ma non tanto che le non s'intendino, sono la pronuntia et gl'accenti. Li Toscani fermano tutte le loro parole in su le vocali, ma li Lombardi et li Romagniuoli quasi tutte le sospendono su le consonanti, come pane et pan.
      Considerato adunque tutte queste et altre differenze che sono in questa lingua italica, a voler vedere quale di queste tenga la penna in mano et in quale habbino scritto gli scrittori antichi, prima necessario vedere donde Dante et gli primi scrittori furono, et se essi scrissono nella lingua patria o se non vi scrissero; dipoi, arrecarsi innanzi i loro scritti, et appresso qualche scrittura mera fiorentina o lombarda o d'altra provincia d'Italia, dove non sia arte ma tutta natura: et quella che fia piu conforme alli scritti loro, quella si potr chiamare, credo, quella lingua nella quale essi habbino scritto.
      Donde quelli primi scrittori fussino (eccetto che un bolognese, un aretino et un pistolese, i quali tutti non aggiunsono a dieci canzoni), cosa notissima come e' furono fiorentini; intra li quali Dante, il Petrarca et il Boccaccio tengono il primo loco, et tanto alto che alcuno spera pi aggiungervi. Di questi, il Boccaccio afferma nel Centonovelle di scrivere in volgar fiorentino; il Petrarca non so che ne parli cosa alcuna; Dante, in un suo libro ch'ei fa De vulgari eloquentia, dove egli danna tutta la lingua particulare d'Italia, afferma non havere scritto in fiorentino, ma in una lingua curiale: in modo che, quando e' se li havesse a credere, mi cancellerebbe l'obbiezioni che di sopra si feciono, di volere intendere da loro donde havevano quella lingua imparata.
      Io non voglio, in quanto s'appartenga al Petrarca et al Boccaccio, replicare cosa alcuna, essendo l'uno in nostro favore et l'altro stando neutrale; ma mi fermer sopra di Dante, il quale in ogni parte mostr d'esser per ingegno, per dottrina et per giuditio huomo eccellente, eccetto che dove egli hebbe a ragionare della patria sua, la quale, fuori d'ogni humanit et filosofico instituto, perseguit con ogni spetie d'ingiuria. E non potendo altro fare che infamarla, accus quella d'ogni vitio, dann gli uomini, biasim il sito, disse male de' costumi et delle legge di lei; et questo fece non solo in una parte de la sua cantica, ma in tutta, et diversamente et in diversi modi: tanto l'offese l'ingiuria dell'exilio, tanta vendetta ne desiderava! E per ne fece tanta quanta egli pot. E se, per sorte, de' mali ch'egli li predisse le ne fussi accaduto alcuno, Firenze harebbe piu da dolersi d'havere nutrito quell'huomo, che d'alcuna altra sua rovina. Ma la Fortuna, per farlo mendace et per ricoprire con la gloria sua la calunnia falsa di quello, l'ha continuamente prosperata et fatta celebre per tutte le provincie cristiane, et condotta al presente in tanta felicit et s tranquillo stato, che, se Dante la vedessi, o egli accuserebbe s stesso, o, ripercosso dai colpi di quella sua innata invidia, vorrebbe, essendo risucitato, di nuovo morire. Non pertanto maraviglia se costui, che in ogni cosa accrebbe infamia alla sua patria, volse ancora nella lingua torle quella riputatione la quale pareva a lui d'haverle data ne' suoi scritti; et per non la honorare in alcuno modo compose quell'opera, per mostrare quella lingua nella quale egli haveva scritto non essere fiorentina. Il che tanto se li debbe credere, quanto che e' trovassi Bruto in bocca di Lucifero maggiore, et cinque cittadini fiorentini in tra i ladroni, et quel suo Cacciaguida in Paradiso, et simili sue passioni et oppinioni; nelle quali fu tanto cieco che perse ogni sua gravit, dottrina et giudicio, et divenne al tutto un altr'huomo; talmente che, s'egli havessi giudicato cos ogni cosa, o egli sarebbe vivuto sempre a Firenze, o egli ne sarebbe stato cacciato per pazzo.
         Ma perch le cose che s'impugnano per parole generali et per conietture possono esser facilmente riprese, io voglio a ragioni vive et vere mostrare come il suo parlare al tutto fiorentino, et pi assai che quello che il Boccaccio confessa per s stesso esser fiorentino; et in parte rispondere a quelli che tengono la medesima oppinione di Dante.
      Parlare comune di Italia sarebbe quello dove fussi pi del comune che del proprio d'alcuna lingua; et similmente, parlar proprio fia quello dove pi del proprio che di alcuna altra lingua. Perch non si pu trovare una lingua che parli ogni cosa per s senza haverne accattato da altri: perch, nel conversare gl'huomini di varie provincie insieme, prendono de' motti l'uno dell'altro. Aggiugnesi a questo che, qualunche volta viene o nuove dottrine in una citt o nuove arti, necessario che vi venghino nuovi vocaboli, et nati in quella lingua donde quelle dottrine o quelle arti son venute; ma riducendosi nel parlare, con li modi, con li casi, con le desinenze et con li accenti, fanno una medesima consonanza con i vocaboli di quella lingua ch'e' trovano, et cos diventano suoi: perch altrimenti le lingue parrebbono rappezzate et non tornerebbon bene. E cos li vocaboli forestieri si convertono in fiorentini, non li fiorentini in forestieri; n per diventa altro la nostra lingua che fiorentina. E di qui dipende che le lingue da principio arricchiscano et diventano pi belle essendo pi copiose; ma ben vero che col tempo, per la moltitudine di questi nuovi vocaboli, imbastardiscano et diventano un'altra cosa; ma fanno questo in centinaia d'anni; di che altri non s'accorge se non poi che rovinato in una estrema barbaria. Fa ben pi presto questa mutatione quand'egl'adviene che una nuova popolatione venisse ad habitare in una provincia: in questo caso ella fa la sua mutatione in un corso d'una et d'un huomo. Ma in qualunche di questi duoi modi che la lingua si muti, necessario che quella lingua persa, volendola, sia riassunta per il mezzo di buoni scrittori che in quella hanno scritto, come si fatto et fa della lingua latina et della greca.
      Ma lasciando stare questa parte come non necessaria, per non essere la nostra lingua ancora nella sua declinatione, et tornando donde io mi partii, dico che quella lingua si pu chiamare comune in una provincia, dove la maggiore parte de' suoi vocaboli con le loro circustanze non si usino in alcuna lingua propria di quella provincia; et quella lingua si chiamer propria, dove la maggiore parte delli suoi vocaboli non s'usino in altra lingua di quella provincia.
         Quando questo che io dico sia vero (che verissimo), io vorrei chiamare Dante, che mi mostrasse il suo poema; et havendo appresso alcuno scritto in lingua fiorentina, lo domanderei qual cosa quella che nel suo poema non fussi scritta in fiorentino. Et perch e' risponderebbe che molte tratte di Lombardia, o trovate da s, o tratte dal latino ...
         Ma perch io voglio parlare un poco con Dante, per fuggire egli disse ed io risposi metter gl'interlocutori davanti.
N. Quali traesti tu di Lombardia?
D. Questa:
      in co del ponte presso a Benevento;
et quest'altra: 
      con voi nasceva et s'ascondeva vosco.
N. Quali traesti tu da i Latini?
D. Questi, et molti altri:
      Transhumanare significar per verba.
N. Quali trovasti da te?
D. Questi:
      s'io m'intuassi come tu ti immii.
Li quali vocaboli, mescolati tutti con li toscani, fanno una terza lingua.
N. Sta bene. Ma dimmi: in questa tua opera, come vi sono di questi vocaboli o forestieri o trovati da te o latini?
D. Nelle prime due cantiche ve ne sono pochi, ma nell'ultima assai, massime dedotti da' Latini, perch le dottrine varie di che io ragiono mi costringono a pigliare vocaboli atti a poterle esprimere; et non si potendo se non con termini latini, io gl'usavo, ma li deducevo in modo con le desinenze, che io gli facevo diventare simili alla lingua del resto dell'opera.
N. Che lingua quella dell'opera?
D. Curiale.
N. Che vuol dire curiale?
D. Vuol dire una lingua parlata da gl'huomini di corte del papa, del duca, i quali, per essere huomini litterati, parlano meglio che non si parla nelle terre particolari d'Italia.
N. Tu dirai le bugie. Dimmi un poco: che vuol dire in quella lingua curiale morse?
D. Vuol dire mor.
N. In fiorentino che vuol dire?
D. Vuol dire strignere uno con i denti.
N. Quando tu di' ne' tuoi versi:
         Et quando il dente longobardo morse
che vuol dire quel morse?
D. Punse, offese e assalt: ch' una translatione dedotta da quel mordere che dicono i fiorentini.
N. Adunque parli tu in fiorentino et non cortigiano.
D. Egl' vero in maggiore parte. Pure io mi riguardo di non usare certi vocaboli nostri proprii.
N. Come te ne guardi? Quando tu di':
         forte spingava con ambe le piote,
questo spingare che vuol dire?
D. In Firenze s'usa dire, quando una bestia trae de' calci: ella spicca una coppia di calci; e perch io volsi mostrare come colui traeva de' calci, dissi spingava.
N. Dimmi di nuovo: tu di' ancora, volendo dire le gambe:
         e quello che piangeva con le zanche;
perch lo di' tu?
D. Perch in Firenze si chiamano zanche quelle aste sopra le quali vanno gli spiritelli per Santo Giovanni, et perch allora e' l'usano per gambe, et io volendo significare gambe dissi zanche.
N. Per mia f, tu ti guardi assai bene da i vocaboli fiorentini! Ma dimmi pi l, quando tu di':
         Non prendete mortali i voti a ciancie,
perch di' tu ciancie come i fiorentini et non zanze come i lombardi, havendo detto vosco et co del ponte?
D. Non dissi zanze per non usare un vocabolo barbaro come quello; ma dissi co et vosco s perch non sono vocaboli s barbari, s perch, in una opera grande, lecito usare qualche vocabolo esterno, come fece Vergilio quando disse:
       Troia gaza per undas.
N. Sta bene; ma fu egli per questo che Virgilio non scrivessi in latino?
D. No.
N. Et cos tu ancora, per haver detto co et vosco, non hai lasciata la tua lingua. Ma noi facciamo una disputa vana, perch nella tua opera tu medesimo in pi luoghi confessi di parlare toscano et fiorentino. Non di' tu di uno che ti sent parlare nell'Inferno:
      Ed egli ch'intese la parola tosca,
et altrove, in bocca di Farinata, parlando egli teco:
      La tua loquela ti fa manifesto
       di quella dolce patria natio
       alla qual forse fui troppo molesto?
D. Gl' vero ch'io dico tutto cotesto.
N. Perch di' dunque di non parlare fiorentino? Ma io ti voglio convincere co i libri in mano et con il riscontro: et per leggiamo questa tua opera, et il Morgante. Leggi su.
D.      "Nel mezzo del cammin di nostra vita
       mi ritrovai per una selva scura
       che la dritta via era smarrita".
N. E' basta. Leggi un poco ora il Morgante.
D. Dove?
N. Dove tu vuoi. Leggi cost a caso.
D. Ecco:
        Non chi comincia ha meritato, scritto
         nel tuo santo Vangel, benigno Padre.
N. Or ben, che differenza da quella tua lingua a questa?
D. Poca.
N. Non mi ce ne pare veruna.
D. Qui pur non so che.
N. Che cosa?
D. Quel chi troppo fiorentino.
N. Tu farai a ridirti: o non di' tu:
       Io non so chi tu sia, n per qual modo
       venuto sei quaggi, ma fiorentino etc.?
D. Egl' il vero, et ho il torto.
N. Dante mio, io voglio che tu t'emendi, et che tu consideri meglio il parlare fiorentino et la tua opera; et vedrai che, se alcuno s'har da vergognare, sar pi tosto Firenze che tu: perch, se considererai bene a quel che tu hai detto, tu vedrai come ne' tuoi versi non hai fuggito il goffo, come quello:
       Poi ci partimmo et n'andavamo introcque;
non hai fuggito il porco, com' quello:
       che merda fa di quel che si trangugia;
non hai fuggito l'osceno, come :
       le mani alz con ambedue le fiche;
e non avendo fuggito questo, che disonora tutta l'opera tua, tu non puoi haver fuggito infiniti vocaboli patrii che non s'usano altrove che in quella, perch l'arte non pu mai in tutto repugnare a la natura. Oltre di questo, io voglio che tu consideri come le lingue non possono essere semplici, ma conviene che sieno miste con l'altre lingue. Ma quella lingua si chiama d'una patria, la quale convertisce i vocaboli ch'ella ha accattati da altri nell'uso suo, ed s potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro: perch quello ch'ella reca da altri lo tira a s in modo che par suo. E gli uomini che scrivono in quella lingua, come amorevoli di essa, debbono fare quello che hai fatto tu, ma non dire quello che hai detto tu: perch, se tu hai accattato da' Latini et da' forestieri assai vocaboli, se tu n'hai fatti de' nuovi, hai fatto molto bene; ma tu hai ben fatto male a dire che per questo ella sia diventata un'altra lingua. Dice Oratio "
                           quum lingua Catonis et Ennii
                           sermonem patrium ditaverit,
e lauda quelli come li primi che cominciorno ad arrichire la lingua latina. I Romani, negli eserciti loro, non avevono pi che due legioni di romani, quali erono circa dodicimila persone, et dipoi vi avevono ventimila dell'altre nationi. Nondimeno, perch quelli erano con li loro capi il nervo de l'esercito, perch militavono tutti sotto l'ordine e disciplina romana, teneano quelli eserciti il nome, l'autorit e dignit romana. E tu che hai messo ne' tuoi scritti venti legioni di vocaboli fiorentini, e usi i casi, i tempi e i modi e le desinenze fiorentine, vuoi che li vocaboli avventizii faccino mutar la lingua?
E se tu la chiamassi o comune d'Italia o cortigiana perch in quella si usassino tutti li verbi che s'usano in Firenze, ti rispondo che, se si sono usati li medesimi verbi, non s'usano i medesimi termini, perch si variano tanto con la pronunzia che diventono un'altra cosa. Perch tu sai che i forestieri o e' pervertano il c in z, come di sopra si disse di cianciare et zanzare, o eglino aggiungano lettere, come verr, vegnir, o e' ne lievano, come poltrone et poltron; talmente che quegli vocaboli che son simili a' nostri gli storpiano in modo che gli fanno diventare un'altra cosa. E se tu mi allegassi il parlare curiale, ti rispondo, se tu parli delle corti di Milano o di Napoli, che tutte tengono del loco de la patria loro, et quelle hanno pi di buono che pi s'accostano al toscano et pi l'imitano; et se tu vuoi ch'e' sia migliore l'imitatore che l'imitato, tu vuoi quello che il pi delle volte non . Ma se tu parli della corte di Roma, tu parli d'un luogo dove si parla di tanti modi di quante nationi vi sono, n se li pu dare in modo alcuno regola. Dipoi io mi maraviglio di te, che tu voglia, dove non si fa cosa alcuna laudabile o buona, che vi si faccia questa: perch dove sono i costumi perversi conviene che il parlare sia perverso, e abbia in s quello effemminato lascivo che hanno coloro che lo parlono. Ma quello che inganna molti circa i vocaboli comuni che, tu e gli altri che hanno scritto essendo stati celebrati e letti in varii luoghi, molti vocaboli nostri sono stati imparati da molti forestieri et osservati da loro, tal che de proprii nostri son diventati comuni. E se tu vuoi conoscer questo, arrecati innanzi un libro composto da quelli forestieri che hanno scritto dopo voi, et vedrai quanti vocaboli egli usano de' vostri, et come e' cercano d'imitarvi. E per havere riprova di questo, fa loro leggere libri composti dagli uomini loro avanti che nasceste voi, et si vedr che in quelli non fia n vocabolo n termine: e cos apparir che la lingua in che essi hoggi scrivano la vostra, et per consequenza nostra, et la nostra non comune con la loro. La qual lingua, ancora che con mille sudori e' cerchino d'imitare, nondimeno, se leggerai i loro scritti, vedrai in mille luoghi essere da loro male et perversamente usata, perch gl' impossibile che l'arte possa pi che la natura.
         Considera ancora un'altra cosa, se tu vuoi vedere la dignit de la tua lingua patria: che i forestieri che scrivano, se prendano alcuno suggetto nuovo, dove non habbino exemplo di vocaboli imparati da voi, di necessit conviene ch'e' ricorrino in Toscana; o vero, s'e' prendano vocaboli loro, gli spianino et allarghino all'uso toscano, ch altrimenti n loro n altri gl'approverebbono. E perch e' dicano che tutte le lingue patrie son brutte s'elle non hanno del misto (di modo che veruna sarebbe brutta), ma dico ancora che quella che ha di esser mista men bisogno pi laudabile, e senza dubbio ne ha men bisogno la fiorentina. Dico ancora come si scrivano molte cose che, senza scrivere i motti e i termini proprii patrii, non sono belle. Di questa sorte sono le comedie; perch, ancora che il fine d'una comedia sia proporre uno specchio d'una vita privata, nondimeno il suo modo del farlo con certa urbanit e termini che muovino riso, acci che gli uomini, correndo a quella delettazione, gustino poi l'exemplo utile che vi sotto. E perci le persone con chi difficilmente possano essere persone gravi la trattano: perch non pu esser gravit in un servo fraudolente, in un vecchio deriso, in un giovane impazzato d'amore, in una puttana lusinghiera, in un parasito goloso; ma ben ne risulta di questa compositione di uomini effetti gravi et utili a la vita nostra. Ma perch le cose sono trattate ridiculamente, conviene usare termini et motti che faccino questi effetti; i quali termini, se non sono proprii e patrii, dove sieno soli interi et noti, non muovono n possono muovere. Donde nasce che uno che non sia toscano non far mai questa parte bene, perch se vorr dire i motti della patria sua far una veste rattoppata, facendo una compositione mezza toscana et mezza forestiera; et qui si conoscerebbe che lingua egli havessi imparata, s'ella fussi comune o propria. Ma s'e' non gli vorr usare, non sappiendo quelli di Toscana, far una cosa manca et che non har la perfetione sua. E a provar questo, io voglio che tu leggi una commedia fatta da uno delli Ariosti di Ferrara; et vedrai una gentil compositione e uno stilo ornato et ordinato; vedrai un nodo bene accommodato e meglio sciolto; ma la vedrai priva di quei sali che ricerca una comedia; tale non per altra cagione che per la detta: perch i motti ferraresi non li piacevano, e i fiorentini non sapeva, talmente che gli lasci stare. Usonne uno comune, et credo ancora fatto comune per via di Firenze, dicendo che un dottore della berretta lunga pagherebbe una sua dama di doppioni. Usonne uno proprio, per il quale si vede quanto sta male mescolare il ferrarese con il toscano: ch, dicendo una di non voler parlare dove fussino orecchie che l'udissino, le fa rispondere che non parlassino dove fussero i bigonzoni; e un gusto purgato sa quanto nel leggere e nell'udire dire bigonzoni offeso. E vedesi facilmente e in questo e in molti altri luoghi con quanta difficult egli mantiene il decoro di quella lingua ch'egli ha accattata.
         Pertanto io concludo che molte cose sono quelle che non si possono scrivere bene senza intendere le cose proprie et particolari di quella lingua ch' pi in prezzo. E volendo li proprii, conviene andare alla fonte donde quella lingua ha havuto origine, altrimenti si fa una compositione dove l'una parte non corrisponde a l'altra. E che l'importanza di questa lingua nella quale et tu, Dante, scrivesti, et gli altri che vennono prima e poi di te hanno scritto, sia derivata da Firenze, lo dimostra esser voi stati fiorentini, et nati in una patria che parlava in modo che si poteva meglio che alcuna altra accommodare a scrivere in versi et in prosa. Al che non si potevano accommodare gli altri parlari di Italia. Perch ciascuno sa come i Provenzali cominciarono a scrivere in versi; di Provenza ne venne quest'uso in Sicilia, et di Sicilia in Italia; e in tra le provincie d'Italia, in Toscana; e di tutta Toscana, in Firenze, non per altro che per essere la lingua pi atta. Perch n per commodit di sito, n per ingegno, n per alcuna altra particulare occasione merit Firenze esser la prima e procreare questi scrittori, se non per la lingua commoda a prendere simile disciplina; il che non era nell'altre citt. E ch'e' sia vero, si vede in questi tempi assai ferraresi, napoletani, vicentini et vinitiani che scrivono bene et hanno ingegni attissimi allo scrivere; il che non potevano far prima che tu, il Petrarca et il Boccaccio havessi scritto. Perch, a volere ch'e' venissino a questo grado, disaiutandoli la lingua patria, era necessario ch'e' fussi prima alcuno il quale, con lo esemplo suo, insegnassi com'egli avessino a dimenticare quella lor naturale barbaria nella quale la patria lingua li sommergeva.
         Concludesi pertanto che non c' lingua che si possa chiamare o comune d'Italia o curiale, perch tutte quelle che si potessino chiamare cos hanno il fondamento loro da gli scrittori fiorentini e da la lingua fiorentina; alla quale in ogni defetto, come a vero fonte et fondamento loro, necessario che ricorrino; e non volendo esser veri pertinaci, hanno a confessar la fiorentina. esser questo fondamento e fonte.
         Udito che Dante hebbe queste cose, le confess vere e si part; et io mi restai tutto contento, parendomi di haverlo sgannato. Non so gi s'io mi sganner coloro che sono s poco conoscitori de' beneficii ch'egl'hanno havuti da la nostra patria, che e' vogliono accomunare con essa lei nella lingua Milano, Vinegia, Romagna, et tutte le bestemmie di Lombardia.



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1996 - by prof. Giuseppe Bonghi
- E-mail: Giuseppe.Bonghi@mail.fausernet.novara.it

Ultimo aggiornamento29 maggio, 2002