Full text of "Scritti varii, inediti o rari, raccolti e pubblicati da Benedetto Croce" WebMoving ImagesTextsAudioSoftwareEducationPatron InfoAbout IA Home American Libraries | Canadian Libraries | Universal Library | Project Gutenberg | Children's Library | Biodiversity Heritage Library | Additional Collections Search: All Media Types Wayback Machine Moving Images Animation & Cartoons Arts & Music Computers & Technology Cultural & Academic Films Ephemeral Films Home Movies Movies News & Public Affairs Non-English Videos Open Source Movies Prelinger Archives Spirituality & Religion Sports Videos Videogame Videos Vlogs Youth Media Texts American Libraries Canadian Libraries Universal Library Project Gutenberg Children's Library Biodiversity Heritage Library Additional Collections Audio Audio Books & Poetry Computers & Technology Grateful Dead Live Music Archive Music & Arts Netlabels News & Public Affairs Non-English Audio Open Source Audio Podcasts Radio Programs Spirituality & Religion Software CLASP Education Forums FAQs Advanced Search Anonymous User (login or join us)Upload See other formats Full text of "Scritti varii, inediti o rari, raccolti e pubblicati da Benedetto Croce" HANDBOUND AT THE UNIVERSITY OF TORONTO PRESS /a^ i OPERE DI FRANCESCO DE SANCTIS TOMO vm. VOL. II. SCRITTI VARII INEDITI O EAEI r>i FRANCESCO DE SANCTIS RACCOLTI E rUBBLlCATI BENEDETTO CROCE Volume II. NAPOLI Ditta A. MORANO & Figlio 40, Via Botti», 40 1 SOSI Proprietà letteraria t^^^ L^e^^^ ^ ^f J N^POLI-Stab-Tipo-Sterdot F.dl Gennaro & A. Horano. S. Sebastiano 47 III. DISCORSI E CONFERENZE SCRITTI VARII 1869-1883 D« Safctis — Manzoni e scritti varii— Voi. II. : iiixnixiJirEiiiurrirrixxixiiixiirtiJiTiiiixiiiixiiiiirnirKrTxirrixtrrr •J Machiavelli COWFEKESZE. [«Queste conferenze furono tenute dal De-S. in Napoli i giorni 23^ 27 e 30 maggio, 3 e 6 giugno 1869, nella gran sala del capitolo del- Tex-convento di 8. Domenico Maggiore. II De-S., versando allora in gravi strettezze economiche, aveva bisogno di trarre qualche utile dal lavoro letterario; al che allude l'introduzione della prima di queste conferenz-'. Le quali, benché fatte con biglietti d' entrata a pagamento, non crediamo che gli fruttassero molto : giacché il nu- meroso pubblico, che ad esse accorreva, solo per piccola parte era pubblico pagante. Il De-S. lasciava entrare liberamente e in folla gli -tudenti e i giovanti assunti di queste conferenze furono pubblicati nel giornale la ^.^ci-tà da Francesco Torraca, e da un anonimo sul Roma. Tra i rias- sunti del Roma manca quello della terza , perchè , come nel gior- nale si avverte , in quel giorno il solito raccoglitore non aveva potuto assistere alla conferenza. 'ome si è detto nella prefazione, il pensiero di queste conferenze trova nell'ampio studio sul Machiavelli, che forma il cap. XV della Storia della letteratura: ma l'esposizione procede qui con altro ordine e spesso con diversi svolgimenti. Noi per questa ristampa abbiamo prescelto i riassunti del Roma, non senza inserirvi qua e là alcune aggiunte tratte da quelli della Libertà; da rui poi abbiamo tolta per intero la terza conferenza, abbreviandola alquanto.] I. Le conferenze sono il portato della democrazia. Per esse la scienza esce dalle anticamere dove è mantenuta e pro- tetta, e giunge nel popolo, a cui serve direttamente e da cui vien pagata. Quando diventerà comune convincimento che sia obbrobrioso accettar servigi senza remunerazione e che, d'altra parte, l'onesto guadagno come remunerazione del la- voro sia cosa che onori e sollevi 1' uomo al più alto grado di dignità, allora queste conferenze popolari pagate verran- no presso di noi in onoranza, come sono già presso i più civili € culti popoli del mondo. Anche a Parigi si è creduto testé un gran trionfo del progresso il poter ottenere di conferire liberamente in adunanze popolari su'problemi della scienza. In Italia, sventuratamente, il sistema delle conferenze non è attecchito finora, per le costumanze arcadiche ed accade- miche che abbiamo. Qui tutto viene ordinato a spettacolo : gli oratori parlano per fare effetto, e per farsi applaudire; gli uditori intervengono per applaudire e proteggere, a se- conda delle loro simpatie, atteggiandosi ognuno di essi alla Leone X. Qui ogni atto della vita pubblica ha due lati, uno apparente ed un altro nascosto; vi è la scena e la contro- scena, perchè le tradizioni della tirannide secolare ci hanno abituati alla cospirazione. Onde non sappiamo pensare a qual- che cosa che dovrebbe per sé stessa prodursi alla luce del giorno senza apparecchiarla colla cospirazione. In Italia gli elettori cospirano per fare i deputati, e costoro a loro volta cospirano per fare i ministri. Non è guari celebravasi a Firenze il centenario della na- scita di Niccolò Machiavelli ; ma questa solennità non è stata punto popolare, non è st.ata avvertita dall'universale, non ha lasciato vestigia, appunto perchè non si è saputo uscire dall' Arcadia e dall' Accademia ; i soliti discorsi, le solite poesie, e null'altro che questo. Insomma, dalla festa di Machiavelli non è uscito altro che la conferma della tra- dizione popolare, secondo la quale Machiavelli sarebbe stata un gran furbo. Il popolo fiorentino, con quell'argutezza che lo distingue, disse che la vera festa di Machiavelli s'era celebrata nella sala dei Cinquecento, perchè appunto in quel giorno nel Parlamento giuocavasi di destrezza e di furberia. Quanta diversità tra noi e la Germania ! Anche la Germania si apparecchia a celebrare un centenario : quello di Gior- gio Hegel ; e filosofi e scienziati scrivono libri intorno a lui e diffondono nel pubblico la notizia delle sue idee. Ora io mi domandai se non ci fosse miglior modo di celebrare veramente l'anniversario di Niccolò Machiavelli, e pensai che, per onorare la sua memoria, il meglio che si potesse fare era di ergere la sua statua intellettuale, presentandolo al popolo nella verità del suo carattere. Ed accettando il suggerimento di alcuni aaìi-ei, son venuto a fare queste con- ferenze intorno a lui, qui a Napoli, la citta dai liberi corsi scientifici, dall' ingegno vivace e penetrante, dalla gioventù appassionata pei nobili studii. Mettiamoci dunque insieme a studiare Niccolò Machia- velli. Ma qual metodo adopereremo ? Piglieremo a guida estetiche ed etiche vecchie e nuove? Ci ispireremo in Ari- stotele o in Hegel, in quanto a metodo? No, questa sai-ebbe Molastica. Ci metteremo noi a giudicar Machiavelli per dire • quel tale dei suoi libri fu morale od immorale? Ma questa cU-ebbe una piccineria inconcludente. Il critico deve farsi la coscienza e l'occhio di quella produzione dell'ingegao umano die vuole esaminare. Deve prendere l'autore e rifarlo vivo • jme fu nei misteri della sua produzione. La critica com prende, e alla comprensione segue il giudizio. Ogni produ- zione adunque ha la sua critica speciale. Qual sarà quella che si conviene a Niccolò Machiavelli ? Se la posterità » soff'ermandosi ad una paite più appariscente e più palpabile dei prodotti dell'ingegno di Niccolò Machiavelli, ha detto: — Per me questo è Machiavelli — ; noi non accetteremo questa ' . perchè essa è unilaterale e superficiale. Noi invece ano prendere Machiavelli nel suo intero. Ma. prima di studiarlo per conto nostro, bisogna vedere come è stato studiato dagli altri. Ogni uomo ha il suo lato esteriore ed appariscente, ed il sua lato interiore e nascosto. Sovente quella esteriorità calun- nia la sostanza — per così dire — dell'uomo: sovente la adula. Nella prima ipotesi avete degli uomini troppo severamente e forse ingiustamente giudicati; nella seconda, avete le re- putazioni usurpate. Machiavelli ha avuto la sventura di produrre il Principe con una brutta esteriorità. Onde non ci è da meravigliare se ai suoi contemporanei parve uno scandalo. Egli ebbe il coraggio di dire quello che a' tempi suoi tutti avevano il coraggio di fare; ma per quella spe- cie di pudore pubblico, che vuole taciuto anche quello che tutti praticano, le sue idee produssero una penosa impressio- ne. Erano i tempi di Alessandro VI e di Cesare Borgia. Ma fu peggio ancora, quando sopraggiunse la reazione cattolica : Machiavelli diventò allora proprio intollerabile. Quando fu sanzionata la libertà di coscienza, i tempi vol- sero propizii al Machiavelli, e venne 1' epoca della riabilita- zione per lui. Insomma, il Machiavelli era pretesto ad una grande lotta che si combatteva, e l'assolverlo o il condan- narlo era lo stendardo delle parti che si contendevano il ter- reno. Però gli sforzi stessi dei suoi difensori ce lo dipin- gono sempre come un accusato, come colui che ha bisogno della difesa. Io riassumerò in poche parole molti e molti volumi, che si sono scritti per difenderlo. Uno scrittore si diede la pena di spigolare in tutte le opere di Machiavelli e raccogliere tutte le sentenze morali di lui per contrapporle alle immo- rali. Queste poi si ebbe cura di dimostrare che non erau nuove di conio, ma desunte da scrittori che maggiormente erano in reputazione di gente morale, come a dire da S. Tom- maso d' Aquino, e da altri scrittori di tal fatta. Altri, non potendo salvare il libro, procurarono di salvare la perso- na , additando la sua vita come un esempio di moralità. Altri ancora gettarono tutta la responsabilità sui tempi noi quali visse e scrisse il Machiavelli. Ma queste sono sempre circostanze attenuanti, che suppongono l'esistenza della colpa, e non 1' assolvono. Bacone da Verulamio disse che Machiavelli, fingendo d'insegnare ai principi le arti del dispotismo, volle insegnai'e indirettamente ai popoli la ma- niera di disfarsene. Rousseau chiamò il Principe il codice dei repubblicani. Fu detto pure che con quei consigli il Ma- chiavelli volesse perdere i Medici, spingendo la loro tiran- nia all'estremo e provocando così contro di essi la reazione. Ecco quanto si è detto in difesa. Ma che valore hanno e r accusa e la difesa ? L' accusa è rettorica, perchè allora essa avrebbe forza , quando dimostrasse che coi mezzi mo- rali o immorali del Machiavelli non si mantengono, ma si perdono gli stati. Nessun accusatore di Machiavelli è passato ai posteri. Un gesuita disse machiavellismo quello che dipoi doveva dirsi gesuitismo. La difesa è sofistica, e non giunge a riabilitare Machiavelli. Insomma, due secoli e mezzo di critica, fatta intorno al gran pensatore politico, non sono altro che una quisiione posta male. Il Machiavelli, quale ce lo han presentato finora , è una creazione delle passioni politiche: è un riflesso subbiettivo, non è il Ma- chiavelli per sé stesso. Per ritrovarlo , bisogna spogliarlo delle sue esteriorità ed entrare nei misteri della sua produ- zione intellettuale. Io chiamo secolo non la ordinaria misui-a del tempo, ma Ile grandi tappe dell' umanità , in cui appariscono dei pi incipii nuovi e si trasforma la faccia del mondo. Questo avviene per una lenta e costante elaborazione di tutti gli menti sociali , i quali vi lavorano inconsapevolmente . prima di dai-e il colpo mortale all' edificio crollante, si 'Ctta un uomo che è destinato a riassumere in sé tutto quel movimento, al quale tanti elementi cospirarono senza saperlo, e che e destinato a dargli il nome. Machiavelli fu r uomo appunto di questo passaggio da un secolo all' altro. Machiavelli vede lo stato dei suoi tempi, sente la coi- >'•> -' - Io circonda e vi getta dentro l'immagine di tempi migliori, facendo rivivere le memorie del classicismo romano. Negando il medioevo , facendo rivivere V antichità gloriosa, egli afferma i tempi moderni, e si dimostra così il più moderno di tutti i suoi contemporanei. In altre parole, Machiavelli comprendeva che quella corruttela che lo circon- dava era la putrefazione di tutto il medioevo e cominciò a scavare sotto quell'edificio per trovare la base intellettuale, e pose le fondamenta di un altro tempo e di un altro edi- fizio. Egli, adunque, si presenta alla posterità appunto come la negazione del medioevo e come l' affermazione dei tempi moderni. Noi, per conseguenza, per intendere Machiavelli, dobbiamo seguire il sno intelletto a traverso la corruttela dei tempi, in cui viveva, e tenergli dietro in tutto il suo lavorio. Al- lora, alla frase vacua: « tanto nomini nullum par elogium » sostituiremo l'altra, significativa: «al fondatore dei tempi moderni ». II. È innegabile che l'Europa ancor mezzo barbara fra il deci- moquinto e il decimosesto secolo soprafi'ece l'Italia civile. Come spiegare questo fenomeno? Bisogna vedere innanzi tutto in quale stato si trovavano l'Europa e l'Italia. L'Europa era nel suo periodo di formazione. Essa poteva dirsi il vasto cam- po di una lotta generale: i vassalli lottavano contro i feuda- tarii, questi contro i feudatarii maggiori o piccoli monar- chi; e questi contro l'Imperatore. La Spagna cacciava i Mori e si costituiva sotto le case di Aragona e di Castiglia: la Francia usciva dalla sua lotta contro l'Inghilterra; l' Ale- magna era in aperta insurrezione contro i due più grandi potori che l'occupavano, il papato e l'impero. Con ciò l'Eu- ropa veniva compiendo il suo periodo di formazione ed en- trava in quello della sua costituzione. L'Italia, per contrario, in ([ual periodo si trovava della sua vita ? L' Italia aveva giù prodotta una civiltà; per lei era già un passato quello che era 1' avvenire pel resto dell' Europa. Ma perchè essa non ebbe la forza di condurre più innanzi la sua civiltà? — 9 - Quando le idee, che hanno prodotto la vita di un popolo, muoiono, la vita può continuare per poco, ma già si prepara la morte. Ciò accade costantemente degli individui, ma non è men vero dei popoli. Essi, quando perdono le idee da cui ripetono la propria civiltà, conservano le apparenze della vita; ma di essi può ripetersi col Berni : Andavano com- battendo ed erano morti ! Quali erano le idee che avevano prodotto in Italia la gran- dezza del medioevo? Erano la Chiesa, il Comune, l'Impero. Ma air epoca del decadimento che cosa furono più queste idee? V'era forse più la Chiesa coi suoi concetti arditi di monarchia universale ? col suo giure canonico che s'era so- stituito al feudale? A tutto ciò era succeduto l'interesse personale. Togliere qualche brandello di stato ai vicini, ar- ricchire i nepoti: ecco a che eran ridotte le grandi aspira- zioni della Chiesa! E l'idea dell'Impero, a che era essa ridotta? l'idea ghi- bellina dove stava più? L'Italia indubitatamente si credeva regina del mondo non solo pel concetto del Papato, ma an- le perchè credevasi l'erede naturale dell'Impero romano a causa del ghibellinismo: ma, se, all'epoca di cui discorria- mo, il partito guelfo non aveva più idee, il partito ghibel- lino era spento. Molti Comuni, vedendo da vicino i Cesari redeschi, ebbero a toccar con mano la picciolezza di questi scadde nella coscienza univei'sale anche l'idea deli' Im- ro. — Ed i Comuni, che cosa divennero? Essi, nella loro [)0ca di splendore, furon la libertà: furono i cittadini che disfecero le castella e costrinsero i signori a soggiacei*e al ìii-itto comune, furono la lotta della borghesia contro la •udalità. Li liberta, rappresentata allora dai Comuni, era qualche cosa di concreto, non di sentimentale o di astratto )uie ai tempi nostri; onde il Machiavelli ebbe a definire 'uto libero: quello in cui tutto e a beneficio di tutti. Ebbene, questo concetto splendido del Comune libero era ziandio scaduto, perchè i Comuni divennero monopolio di ; '>chi ambiziosi ricchi e potenti, che ne agognarono il do- — iU — minio : onde si vide un nuvolo di tirannelli, che fu la de- genere trasformazione dei Comuni medesimi. L' antico va- lore dei guerrieri degenerò anch'esso, e la potenza del brando si riassunse negli avventurieri, specie di briganti dei tempi nostri, che taglieggiavano dovunque e mercanteggiavano coi piccoli stati per vendere la loro potenza. L' Italia adunque, a differenza dell' Europa che si formava, &' era già formata, ed aveva anzi oltrepassata la sua civiltà, di cui erano morti tutti i fattori. Ma, se è così, perchè mai quel secolo fu chia- mato il secolo del risorgimento ? Anche la decadenza ha la sua storia ed il suo processo. Essa nel suo primo momento è tutta interiore, è una specie di vuoto che si forma nella coscienza; ma l'esterno è gal- vanizzato ed ha ancora le sembianze della vita. Così acca- deva allora dell' Italia, la quale non aveva avuto tempo suf- ficiente per svolgere la sua civiltà del medio evo. Si ave- vano perciò gli ultimi bagliori di una civiltà al tramonto, i quali si perpetuavano nel periodo di decadenza, quasi per allargare i confini del precedente ciclo troppo angusto ; ma anche questi avanzi di civiltà subivano l'influenza dei tempi e avevano in sé i germi della morte. Infatti , ultimi feno- meni di questa civiltà furono il lusso e 1' eleganza. Il lusso è la ricchezza non adoperata a produrre ricchezza , ma a godimento materiale : gì' infingardi nepoti godono delle fati- che degli avi ! L'eleganza non è il portato dell'ingegno vero, ma di quello che ammaniera, che liscia, che abbella. L'arte, infatti, manifestavasi nelle sue ultime pulitezze e finitezze colle opere di Raffaello e del Tiziano, colle produzioni let- terarie del Poliziano e dell'Ariosto. Lucrezia Borgia, quella donna che tutti sanno, era una signora elegantissima. Ce- sare Borgia era uno dei più distinti cavalieri dei suoi tempi. Su questa società tutta lisciata, soppraggiunsero i barbari. Quale antemurale essi potevano trovare ? Trovarono uno sciame di principotti dissoluti e banchettatori, con tutto quel séguito di vizii e di putredine , che il Machiavelli chiamò corruttela italiana. L' Italia cadde, perchè era corrotta. — 11 — Savonarola avverti questa corruzione, e 1' andava predi- cando per ottenere V emenda. Ma per questa minaccia di morte della nazione non c'è forse un rimedio? Si; ci è la riforma. Epperò tutti coloro che in quei tempi avevano Io sguardo lungo non pensavano che alla riforma. Quando però la corruttela è infiltrata dovunque, non può bastare più la riforma a dare la vita : bisogna che si compiano i de- stini ; e la riforma può preparare solo la lontana risurre- zione. Allora vedete sorgere dei pensatori solitarii , che , spingendo il loro sguardo nel futuro , consegnano nei libri la parola dell'avvenire. Essi rimangono ignoti od oscuri nel loro paese per un certo tempo; ma intanto i semi da essi gettati cominciano a germogliare contemporaneamente fuori, dove per avventura il terreno è più adatto a comprenderli. Accanto a Machiavelli, ricordate i nomi di Bruno, Campa- nella, Galileo, Giannone. Di qui due modi di riforma. Il primo modo s' indirizza a correggere coli' esempio e coi precetti morali la vita ed i costumi corrotti di un- popolo: il secondo agisce colla scienza e tenta di rifare addirittura Io spirito. Il primo fu tentato da Savonarola dal pergamo. Egli vagheggiò nel segreto della sua cella di rifare la base rovinante dell'edificio sociale, rifacendo la Chiesa, che vo- leva ricondurre alla purezza dei suoi primi tempi , e rido- nando la libertà all' antico Comune , che 1' aveva perduta ; ma il popolo lo abbandonò , la Chiesa Io uccise. Perchè intanto il Savonarola non riuscì nel suo compito? Perche non comprese ne la malattia che affliggeva la pa- tria , ne le medicine di cui aveva bisogno : egli si arrestò ai fenomeni del morbo senza rintracciarne e curarne le ca- gioni. L'ascetismo ed il misticismo furono la negazione della vita operosa ed utile. Chi si i-itira dalla vita attiva, sco- nosce la sua missioni in questo mondo ed è indegno di 'jnesta e dell'altra vita. Ciò avrebbe segnato un regresso anche rispetto al Pa- tto, il quale ebbe i suoi momenti di maggior grandezza, /;aii(lo. u-cendo dalla vita inerte e cont punto; giacché egli non ha certo scritto un libro semplice col titolo semplice di Confuiaziotie del Medioevo o di Ri- forma de' tempi mxìderni. Vediamo il suo atteggiamento ri- spetto ai fatti^ ai sentimenti, alle idee del Medioevo: fatti, sentimenti ed idee sono gli elementi costitutivi di ogni civiltà. Era caduto del tutto il ghibellinismo, e Machiavelli non perde il tempo a combattere i ghibellini, ossia i morti. Che non avesse simpatia per essi si può vedere dal suo giudizio su Cesare, 1' eroe prediletto dei ghibellini (1). Dei quali so- pravvivevano avanzi e rimasugli , gli avventurieri usurpa- tori delle libertà dei comuni, e i gentiluomini. Contro gli uni e gli altri si esprime nettamente e forte- mente Machiavelli. Egli non ha nemmeno l'idea che con si- mili elementi si possa formare una nuova feudalità e ri- staurare la monarchia; anzi giunge ad invocare la mano ferrea del dispotismo perchè ne purghi l'Italia. Ecco quello che dice dei gentiluomini : « Gentiluomini sono chiamati quelli ociosi vivono dei proventi delle loro possessioni abbon- itemente, senza avere alcuna cura o di coltivare o di al- ..." altra necessaria fatica a vivere. Questi tali sono per- IP " Né sia alcuno che s'inganni per la gloria di Cesare, senten- i massime celebrare dagli scrittori, perchè questi che lo laudano i corrotti dalla fortuna Ma chi vuole conoscere quello che scrittori liberi ne direbbono , vegga quello che dicono di Ca- ia. E tanto (• più detestabile Cesare quanto piii è da biasimare pio che ha fatto, che quello che ha voluto fare un male. Vegga ai. ora con quante laudi celebrano Bruto; talché, non potendo bia- :ire quello per la sua potenza, e' celebrano il nemico suo E conoscerà allora benissimo quanti obblighi Roma. Italia, e il mon- I do abbia con Cesare „. ' 'E Saxctis — Manzoni t acritti varii — Voi. II. '2. — 18 — niciosi in ogni repubblica ed in ogni provincia; ma più per- niciosi sono quelli che, oltre alle predette foi-tune, coman- dano a castella , ed hanno sudditi che ubbediscono a loro. Di queste due sorti di uomini ne sono pieni il regno di Na- poli, terra di Roma, la Romagna e la Lombardia. Di qui nasce che in quelle provincie non è stata mai alcuna re- pubblica né alcuno vivere politico ; perchè tali generazioni di uomini sono al tutto nemici d' ogni civiltà ». E degli avventurieri parla in terribili parole; essi hanno condotta Italia schiava e vituperata. Quale è poi l'atteggiamento di Machiavelli rispetto al- l'altra formazione medievale, al comune? Si soleva prima annettere l'idea di libertà al comune, e di servitù al prin- cipato. Machiavelli non approva il tacitiano: « duas res dis- sociabiles, principatum ac liberiatem ». Egli dice che quando la forma di governo è tutta comune o tutta principato, non può essere stabile ; e mostra come ogni comune nella sua storia sia andato dalla libertà a finire nella licenza e nel- r oligarchia , ed ogni principato sia riuscito a dispotismo: onde vagheggia una certa contemperanza tra i due reggi, menti. Per Machiavelli, dunque, il comune cessa di essere il solo simbolo della libertà. Un altro suo concetto è che non vi ha una forma assoluta che possa applicarsi ad ogni sorta di materia. A nuove condizioni nuove forme, come il con- temperamento di principato è comune nella forma del prin- cipato civile. Egualmente entra in lotta coi sentimenti medievali, con r esagerazione delle forme, eh' egli distrugge col suo comico riso. Non sente gioia maggiore che di poter squarciare que- gl' involucri eh' egli chiama trattenimenti del volgo, e cer- carvi il nòcciolo reale. Ricorderete la dedica dei Discorsi dove trionfa il suo sentimento superiore rispetto alla vol- garità ordinaria delle dediche ai grandi e ai principi: « Onde io, per non incorrere in questo errore, ho eletti non quelli che sono principi, ma quelli che per le infinite buone parti — 19 - loro meriterebbono di essere ; né quelli che potrebboDo di gradi, di onori e di ricchezze riempiermi, ma quelli che, non potendo, vorrebbono farlo. Perchè, gli uomini, volendo giudicare dirittamente , hanno a stimare quelli che sono , non quelli che possono esser liberali, e così quelli che sanno, non quelli che, senza sapere, possono governare un regno. E gli scrittori laudano più Jerone siracusano, quando egli era privato, che Perse macedone, quando egli era re, per- a Jerone a esser principe non mancava altro che il acipato: quell'altro non aveva parte alcuna di re, altro che il regno ». Di fronte alla religione egli osserva che la religione di Cristo è stata male interpetrata : doversi ammettere ch'essa vuole l'amore della patria, le azioni gloriose, l'educazione civile. L' educazione vile ed effeminata , per effetto della falsa interpetrazione , ha fatto sì che « l' universalità degli uomini per andare in Paradiso pensa più a sopportare le battiture che a vendicarle ». Ma < se considerassino come permette la esaltazione e la difesa della patria, vedrebbono come la vuole che noi V amiamo e onoriamo, e prepariamo ad esser tali che noi la possiamo difendere ». Ma perchè la religione è caduta sì basso, e si è corrotta, ■ sono corrotti i costumi? Machiavelli pronunzia quella enza che fu l'ultimo colpo di scure alla chiesa di Ales- Iro Vi e di Leone X («né si può fare altra maggiore lettura della declinazione d'essa, quanto è vedere come ili popoli che sono più propinqui alla Chiesa romana, capo t religione nosti-a, hanno meno religione » ), poco prima Lutero venisse a realizzare la sua profezia («... o-ju. lorebbe esser propinqui o la rovina o il flagello»), lachiavelli ritiene che la religione è la condizione della perita degli stati: che grande responsabilità incoglie a ne rende il sentimento meno forte negli stati. Paragona •ligione declinata in Italia fino al cinismo e al pubblico regio col movimento vivo dello spirito religioso negli ; paesi. Consiglia alla Chiesa che, invece di predicare — 20 — l'ascetismo ai laici e tuffarsi essa nei beni della terra, in- verta le parti , serbando per sé l' ascetismo ossìa il cielo . e dando ai laici la terra. Segue finalmente la sua celebre osservazione sul dominio ecclesiastico, troppo debole per as- sorbir l'Italia, ma abbastanza forte per non lasciarsi assorbire da un nuovo stato italiano. E della disunione e debolezza dell'Italia — finisce col dire — «noi altri Italiani abbiamo obbligo con la Chiesa, e non con altri ». Ghibellinismo, comune, ascetismo, chiesa, forme esterne, tutto ciò Machiavelli ha condannato del medioevo. Vediamolo ora di fronte al medioevo intellettuale, alla mente del Me- dioevo. Consisteva questa in un misto d' ideale teologico e d' i- deale filosofico fondato sull'autorità di Aristotile. S'espri- meva nel sillogismo: con certi dati a priori, ammessi e non discussi. Nel sillogismo è la maggiore che tiene schiava la conseguenza : onde quando si viene alla questione della que- stione essa rimane implicita nella maggiore. Di tutto ciò non è traccia in Machiavelli, il quale è ne- gazione recisa della scolastica. In lui non ammasso di cita- zioni, non autorità chiamate a comprovare, non sillogismi, non luoghi comuni , non rettorica : insomma, nulla che non sia prodotto della sua mente. Immenso distacco tra il me- dioevo e i tempi moderni! Ma Machiavelli aveva a una mano la spada ed all' altra la zappa: egli non distruggeva solo, ma edificava. Scompare la Chiesa con la sua autorità temporale , ed appare lo Stato (in Machiavelli è già una prima faccia di Giannone). Scompare l'Impero, e vi si sostituisce la Na- zione: al diritto imperiale e feudale il diritto nazionale. Al Comune succede nella sua mente il Governo misto. La teo- logia, la mistica, si dileguano, e resta la cosa effettuale, nor veduta con l'immaginazione, ma trovata dall'esperienza. Il sillogismo cede il posto all'induzione. Finalmente, nella forma lettei'aria, il didascalico, lo sco lastico cadono, e dal Machiavelli si comincia ad adoperare — 21 — il iliscorso, quasi la conversazione, la forma semplice e alla mano della letteratura moderna. IV. Il Giannone disse : Il regno terrestre deve detronizzare il celeste. Ma, per dirla con miglior garbo ed esattezza, è il cielo stesso che nell'epoca moderna si spoglia del nebuloso, dell'ascetico e scende fino a toccar la terra. Conoscere la realtà, assimilacela e trasformarla; questo è il processo del pen- siero umano. Se l' Europa non avesse avuta questa virtù , secondo un arguto detto del Campanella , sarebbe stata la Turchia cristiana. Machiavelli, che si prefigge di costruire il mondo moderno, ha bisogno di due istrumenti : la natura, che offre i fatti, e r uomo, che li analizza. E, per dirla colle sue stesse pa- role, quei due mezzi sono « r esperienza ed il discorso ». Ma sotto quale forma si presenta questa nuova costru- zione ? Sulle prime non si hanno che semplici aspirazioni , e per trovare qualche cosa che le concretizzi si ricorre ad alcune delle forme del passato, le quali più si accostano a ([uol tipo che si ha in mente. Cosi il Medioevo si comin- cia a formare colle reminiscenze antiche, vale a dire l'a- scetismo orientale ed il cesarismo romano : il principio e la fine del mondo antico. Il mondo greco-romano ha eserci- tato grandissima influenza fino al tempo della rivoluzione francese. E sebbene oggi noi non siamo altro che noi, vale a dire né romani né greci, pure non possiamo rigettare le memorie di quegli inizii di civiltà. Questo mondo greco-ro- mano esercitò grande influenza su Machiavelli : ma in qual modo? Il mondo greco-romano non era più il bramino asce- tico che contempla; ma era l'uomo di Socrate col sorriso intelligente sulle labbra. Era insomma rispetto all'Oriente quello che vuol essere il mondo moderrio rispetto al Medio- evo. Era naturale adunque che l' ideale futuro di Machia- velli trovasse un certo riscontro in quella civiltà matura : — 22 — ed egli, infatti, vi trova tre parole sacre : la virtù, la 'patria^ la gloria. La virtù, non quale s'intende ai tempi nostri: ma, invece, l'operare gagliardamente: nel senso romano, la virtù era tempra, energia. E quale era l'obbiettività di questa virtù? La patria, alla quale l'individuo immolava sé stesso. Il premio poi di questo fine conseguito era la gloria. Ecco le leve con le quali Machiavelli voleva muovere il mondo inoderno. Ma questo pensiero nuovo, prima di acquistar coscienza di sé, era inviluppato in un certo guscio, che a noi oggi fa me- stieri rompere. Quale era la prima idea, la sommità del nuovo edifizio cui il Machiavelli apprestavasi a costruire ? Il Medioevo , egli disse , ci ha dato anarchia : dunque , vi deve essere alla cima dell'edificio il potere civile e sociale. Io Stato. Questo é il nuovo imperatore. Lo Stato ha i suoi fini ed i suoi mezzi in sé stesso, e perciò ha in sé la sua legittimità ; onde non ha bisogno né dell' in- vestitura del Papa, né di quella di Cesare, né della sanzione del diritto municipale. Lo Stato non solo è per tal modo indipendente, ma è autonomo : esso non è né religione, né moralità, nò scienza. Però tutti questi elementi sono nel suo seno senza essere lo Stato. Quindi la religione che vuol di- venire Stato è usurpatrice ; com3 usurpatore sarebbe del pari ogni altro di quegli elementi che si trovano nello Stato, se volesse a questo sostituirsi. Quegli elementi si trovano nello Stato medesimo col nome di forze sociali. Da ciò de- riva che lo Stato si distingue dal resto , acquista coscienza, acquista un fine proprio e mezzi proprii , e con ciò si ge- nera la scienza dello Stato. Infatti , quando é nata 1' este- tica ? Quando é stata distinta da tutti gli elementi, coi quali era confusa , ed é divenuta scienza della forma. La l'ea- zione dell' analisi contro la sintesi confusa è un immenso progresso. Ma quale sarà la base della scienza politica ? Machiavelli dice che nella storia non ci ha né fortuna nò caso , ma qualche cosa di immanente, che sono le facoltà dell'umana - 23 — natura : le passioni , gì' interessi possono variare d' inten- sità per diversità di luogo o di tempo , ma la sostanza ò sempre la stessa. Dunque, Machiavelli mette per base della storia le facoltà dell'uomo che, secondo lui, non perdono mai la loro forza produttiva. Onde avviene che le nazioni na- scono e muoiono, ma nell'umanità sopravvive l'opera di cia- scuna nazione. Con ciò avete non solo il principio d'una scienza politica, ma anche i primi accenni della filosofia della storia, su cui han lavorato dappoi Vico ed Hegel. Questo è il concetto fondamentale dell'edificio di Machia- velli (1). Trovate poi in lui parole che rivelano tanta al- tezza morale da assicurarne che egli aveva piena coscienza della sua missione : « È offizio di uomo buono quel bene che per la malignità de' tempi e della fortuna tu non hai potuto operare, insegnarlo ad altri, acciocché, sendone molti (1) " Giudico il mondo sempre essere stato ad un medesimo modo, ed in quello essere stato tanto di buono quanto di tristo : ma va- riare questo buono di provincia in provincia: come si vede per quello si ha notizia di quelli regni antichi che variavano dall'uno all'altro per la variazione de' costumi ; ma il mondo restava quel medesimo. Solo vi era questa differenza, che, dove quello aveva prima collo- cato la sua virtù in Assiria , la collocò in Media , dipoi in Persia , tanto che la ne venne in Italia ed a Roma ; e se dopo lo imperio mano non è seguito imperio che sia durato , né dove il mondo lia ritenuta la sua virtù insieme, si vede nondimeno essere sparsa di molte nazioni dove si viveva virtuosamente; come era il re- o de' Franchi, il regno de" Turchi, quello del Soldano; ed oggi i poli della Spagna, e prima quella setta Saracina che fece tante . an cose, ed occupò tanto mondo poiché la distrusse lo imperio romano orientale.... £ chi nasce in quelle (provincia), e lauda i tempi passati più che i presenti, si potrebbe ingannare; ma chi nasce in Italia ed in Grecia, e non sia divenuto o in Italia oltra- — '•ntano o in Grecia Turco, ha ragione di biasimare i tempi suoi ^ludare gli altri ; perchè in quelli ci sono assai cose che gli fanno meravigliosi, in questi non è cosa alcuna che gli ricomperi da ogni estrema miseria, infamia e vituperio; dove non è osservanza di re- ligione, non di leggi, non di milizia; ma sono maculati di ogni rjt- gione bruttura „. — 24 — capaci , alcuno di quelli , più amato dal cielo , possa ope- rarlo ». In tutte le società nasce un perpetuo dualismo , che in Roma si appalesa sotto il nome di patrizii e di plebei; nel Medioevo, di signori e popolani, e più tardi di abbienti e non abbienti. Onde nel cuore umano sorgono due molle: una è la paura di perdere il già acquistato, e l'altra è la voglia di conseguir le ricchezze : da una parte, la paura, e dall' al- tra, la speranza. Se lo stato è bene ordinato, tutto ciò è leva di progresso. Ma quando non è bene ordinato, quei due ele- menti producono le rivoluzioni. Quale di questi due incen- tivi è più possente ? Machiavelli dice essere più possente la paura del perdere che la voglia dell' acquistare ; que- st* ultima mette radice nella prima, giacché allora si è si- curi di quello che si ha, quando si acquista ancora di più. D'altra parte , i viziosi portamenti dei possidenti ingordi stimolano in altrui il desiderio di acquistare, sia per il cat- tivo esempio, sia per sottrarsi alle vessazioni degli abbienti col cessare di essere nullatenenti. Che cosa farà lo Stato fra questi due elementi? Appog- gerà i conservatori o quelli che hanno voglia di guadagnare ? Nella prima ipotesi avreste l'oligarchia, nella seconda l' a- narchia. Per non farli esorbitare bisogna trovare una specie di equilibrio, e far in modo che tutti i due elementi vengano giustamente rappresentati. A Roma il Senato ed il Tribu- nato rappresentano questo concetto. Ma non basta : questo equilibrio è una specie di meccanismo, che ha bisogno di «ssere animato ; è necessario ancora che si cacci via il ma- lumore, che si metta una specie di valvola di sicurezza per tutti gli elementi impuri che fermentano ; e questa non può essere che la libertà. Volete bandir la calunnia ? Organiz- zate l'accusa pubblica. Ogni scienza deve avere anche la sua arte : vi ha dun- que anche un'arte politica. E che cosa deve fare chi è chia- mato a governare ? L'arte politica è il calcolo dello forze sociali : è il conoscere la macchina che si ha bisogno di — '^o — adoperare. Se le forze sociali si lasceranno svolgere secondo la propria natura , la società camminerà. L'uomo di Stato deve conoscere l'uomo; ma non l'uomo fisico e antropolo- gico, sibbene l'uomo sociale. E quale è la scienza che nasce dal bisogno di questa cognizione? È la scienza del ritratto mo- rale, in cui il Machiavelli fu valentissimo. Il ritratto politico ha immensa importanza pel mondo modei*no. Esso è la vera psicologia sociale. Il principato ai tempi di Machiavelli era la conseguenza dello squilibrio di quei tali due elementi che vedemmo rap- presentare la conservazione ed il progresso , poiché la so- cietà, sconvolta, cade nelle mani del primo che colla forza o colla scaltrezza si proponga di soggiogarla. Machiavelli vede principi siffatti entrati per forza o per frode, e, sperando di dirigerli alla comune utilità, rammenta loro la gloria. La prima cosa che raccomanda al principe è quella di ordinare lo Stato. Ma su chi appoggiarsi ? Se sui potenti , presto o tardi costoro governei'anno lui. Mettersi accanto al popolo per combattere i potenti : ecco la missione pre- sente del principato. Dopo la libertà, quello che e più caro al popolo è la si- curezza ; cioè la garentia delle leggi, dell'onore, della vita ; cose assai pregiate a' tempi di Cesare Borgia e degli avven- f'irieri. Egli, dunque, raccomanda di ordinare con questi mezzi :icacii5simi gli Stati. Altro consiglio soggiunge a quei prin- 'i : dovete rispettare le tradizioni e le credenze del po- lo. Come uomo politico, dice anche ai principi che il pa- ia è più importante dell'essere. Non vi domando che siate morali e religiosi : ma procurate almeno di parer tali, per- che co.*i riuscirete a farvi amare. Ma non basta farsi amare, ogna anche farsi temere, perehè la paura spinge più della atitudine. Non farsi però temere fino ad essere odiati : i non farsi amare fino ad essere spregiati. Ecco in sostanza contenuto del Principe. Anche nei dialoghi dell' Jr^- della ;/uerra il Machiavelli appalesa l'uomo moderno : la fanteria, da lui raccoman- — 26 — data, è l'esercito cittadino come contrapposto alla cavalleria, che è r arma della feudalità e degli avventurieri. L'uomo, seconda una brusca espressione del Machiavelli , è ancora una bestia; quindi, soggiunge, il principe deve sgomentarlo. Bisogna che egli sia a vicenda volpe e leone : volpe per iscorgere i lacci , leone per infrangerli. Dei ne- mici bisognerebbe sbarazzarsi, ammazzandoli ; ma , non po- tendoli sempre ammazzare, bisogna conoscere l'uomo, e fargli fare quello che si vuole, in un certo modo che gli sembri quasi che lo faccia spontaneamente. In tutto ciò si ravvisa il concetto dello Stato moderno. Ma, oltre il concetto dello Stato , sorge anche quello della Nazione, che esamineremo nella prossima conferenza. Noi abbiamo già abbozzata una parte dell' edifìcio mo- derno costruito dalla mente di Machiavelli. Alla sommità di esso vedemmo esservi lo Stato; alla base l'individuo col- l'immortalità del suo spirito creativo. Il corpo è la società. E che cosa è questa pei' Machiavelli? È la nazione. E que- sta, alla sua volta, che cosa è? È un'idea, il cui corrispon- dente oggetto era nascosto a quel tempo, perchè era soffo- cato tra una grande generalità e una grande particolarità, tra l'Impero e la Città. Dante, nel libro della Monarchia, ci presenta l' avvenire coi sogni di Monarchia universale, a capo della quale immagina un Cesare reverente al Papa, ma padrone. A Roma che piagne e di e notte, fa dire: «Ce- sare mio, perchè non mi accompagni? ». Questo era il pen- siero penetrato in tutte le menti del Medioevo. Ed, in esso, dove era, dunque, il concetto di nazione? Questo dominio universale non era forse la negazione di tutte le nazioni ? E, se prendete qualche scrittore teologico del XIII e XIV secolo, trovate, per esempio, che uno di essi vi dice : — Da- niele profeta ha detto che nel mondo non vi possono essere più di quattro grandi monarchie, e poi viene 1' Anticristo. La monarchia romana e appunto la quarta. Dunque, e l'ul- tima. — Questa esclusione del concetto di nazione la trovai»^ anche nel Concilio di Costanza, e poi in quello di Trento, nel quale ultimo fu adottata questa proposizione : che la pluralità delle monarchie è come una negazione dell' unità di Dio. Uno è il Signore in cielo, uno deve essere in terra. Come , dunque , con siffatte teorie potava esservi l' idea di nazione? Machiavelli non dice già che la nazione è un in- dividuo distinto della gran famiglia umana; non enuncia il principio in modo astratto come noi ; ma lo intuisce come storico e come politico. Leggete la sua introduzione alla storia di Firenze. Egli vi segna come inizio di civiltà quel momento in cui comincia a cessare la mescolanza delle razze per dar luogo agli Stati singoli. Parlando della Francia, fu una fine osservazione : la Francia è possente non solo per- chè ha confini ben circoscritti , ma perchè ha -all' intorno popoli molto deboli. Ecco detto dal nostro Machiavelli quello che oggi ripetono alcuni politici francesi , che rimpiangono la politica di Kichelieu. È il ritornello di Thiers. Machiavelli ha preceduto di tre secoli il suo paese, quando ha preveduto la situazione che nove anni fa è penetrata nei sentimenti popolari. Analizzando l'Italia occupata dallo stra- niero e le nazioni che si formavano , diceva che la caduta d'Italia dipendeva dal non aver avuto la virtù di Francia ) e di Spagna , di rannodare cioè le sue membra. — Xessnna j/rovinda, egli diceva, può essere seciira e felice, che non sia tutta nell'obbedienza di una repubblica o di un prin- •''• — In questo rimpiangere per l'Italia la mancanza della ù di costituirsi e l'intuizione del concetto unitario mi- nale. E qui viene una parte bella, quella che diremo opia di Niccolò Machiavelli. 1/ Italia — egli diceva — non e nazione; perciò è ealpe- 'a dallo straniero. Può essa divenirla? Qui vi è materia, echiatevi nei duelli dei pochi, dove trovate il valore in- iduale. — Ci è in questa materia il concetto dell'unità? — ■ — egli soggiunge, — ma vi ha un sentimento che ne f;i — 28 — le veci. Lo straniero allora era qualche cosa di vivente, e lo si vedeva dovunque. Vi ha dunque qualcosa contro cui deve concordemente traboccare l'odio italiano; e questo qual- cosa è appunto lo straniero. Allora Machiavelli fantastica se mai vi sia qualcuno che possa innalzare la bandiera contro lo straniero e chiamare a raccolta tutti gli oppressi. Vi era nella sua mente qualcuno , a cui egli pensasse per questa impresa? Volgare investigazione storica! Allora in Italia di paesani non vi erano che i Medici , così a Roma come a Firenze. Machiavelli diceva: Quando i tempi sono corrotti, si pre- !e una forma limpida e bella, regnata qua e là di isiezza e d'ironia, come sentisse di essere non altro che rma, vuota di ogni contenuto e d'ogni oi*ganismo. Quella iic si chiamò sua età dell' oro, fiorente di studii, di arte, di — 40 - scienze, fu la splendida età del suo tramonto, fu il sonno di Michelangiolo e fu la tristezza di Machiavelli. Più tardi, la scienza opera come religione, diviene un apostolato, si propaga ne' popoli, trova il suo centro di espan- sione nello spirito francese, e provoca un movimento me- morabile, di cui oggi ancora continuano le oscillazioni. Na- sce una nuova società, si forma una nuova vita; la scienza ha anche lei i suoi apostoli, i suoi martiri, i suoi legisla- tori , il suo catechismo , e penetra dappertutto , nella re- ligione, nella morale, nel dritto, nell'arte, ne' sistemi poli- tici, economici, amministrativi, s'infiltra in tutte le istitu- zioni sociali. Ma era scienza, e operò come scienza. Credette che rinnovare la vita fosse il medesimo , che rinnovare le idee, e conoscere fosse il medesimo che potere. Applicò la sua logica alla vita , fatale e inesorabile come una conse- guenza, date le premesse. Cercò le premesse ne' suoi prin- cipii e nelle sue formole, non nelle condizioni ideali ed ef- fettive della vita. Avvezza a trattare il mondo meccanico come cosa sua , trattò l' organismo sociale come un mec- canismo , e trattò gli uomini come pedine , eh' ella potessj disporre secondo il suo giuoco. Concepì la vita come fosse ideale scientifico , e tutto guardando attraverso a quell' i- deale, indebolì, volendo perfezionarli, tutti gli organismi so- ciali, religione, arte, società, e lo stato e la famiglia. Quando la vita così conculcata reagì, ella in nome della libertà uc- cise la libertà, in nome della natura snaturò gli uomini ; e volendo per forza renderli uguali e fratelli, era la scienza e divenne la forza, era la cima, e non si brigò della base, e la base un bel dì fé' una scroUatina e s' inghiottì la cima. Così sparve il regno della filosofìa; la vita si vendicò e la chiamò per disprezzo ideologia; si credette un po' meno alle idee e un po' più alle cose. Più viva era stata la fede nella scienza , più acerbo fu il disinganno. E se ne cavò questa dura verità: la Scienza non è la Vita. Innanzi a questi esempii io mi raccolgo e mi domando: cosa è la vita di un popolo? __ 41 - In popolo vive, quando ha intatte tutte le sue forze mo- rali. Queste forze non producono , se non quando trovano al di fuori stimoli alla produzione. Più gagliardi sono gli stimoli, e maggiore è la loro intensità e vivacità. Gli sti- moli ti creano il limite, cioè a dire uno scopo, che le to- glie dal vago della loro libertà, e le determina, di loro un indirizzo. In quanto la loro libertà è limitata, queste forze sono produttive. L'uomo forte, quando pure voi gli togliate il limite, se lo crea lui, e se non può legittimo, se lo crea illegittimo: perchè la forza ha bisogno del limite, come il mezzo ha bisogno dello scopo. Testimonio è il prete, il quale, negati a lui i figli , si sente con più tenace affetto legato a' nipoti. Più il sentimento del limite è fiacco in un popolo, e più è debole, più è vicino alla dissoluzione: e, per contra- lio, la vita è più potente là dove è una coscienza più svi- luppata del limite. Per uscir dell' astratto, guardiamo cosa era l' uomo, prima che la scienza moderna vi avesse posto la mano. L'uomo del Medioevo, robustissimo di sentimento e d'im- maginazione , nella pienezza della sua libertà e nella foga '^He sue passioni, trovava ad ogni passo de' limiti accettati !la sua volontà, perchè non erano imposti con violenza -ial di fuori, ma erano il prodotto della sua coscienza. Que' li- ! iti perciò non erano ributtati come ostacoli, ma erano ri- ttati come doveri e come stimoli alla produzione. Aveva la sua casa, dove trovava la donna, materia di venerazione • quasi di culto; il padre della famiglia, armato di dritti liiidabili, avvezzo al comando e sicuro dell'ubbidienza; il nome della famiglia, vincolo comune e rispettato, che im- poneva a tutti gli stessi odii e gli stessi interessi ; tradizioni olari, di cui era viva la storia ne' testamenti degli avi, con previdente affetto abbracciavano i secoli e incate- ano l'avvenire alla perpetuità del casato. La famiglia i già per lui come una piccola patria, che gli creava do- i, approvati dal suo cuore, e trasformati in gagliaidi sti- li al decoro e alla prosperità della casa, E aveva la grande — 42 — patria, vicina e concreta, che inconti-ava ad ogni passo della vita, immedesimata col suolo, con la casa, con le parentele, co' suoi interessi, le sue passioni e le sue aspirazioni, comu- nanza di sentimenti e di credenze e di costumi , che con vocabolo singolarmente espressivo era detto il Comune. Ivi trovava nuovi vincoli e nuovi stimoli all'opera, la sua chiesa e la sua classe, poderosi organismi, de' quali si sentiva parte, forte della forza comune. Quando si spiegava all' aria il gonfalone, tutti vi si stringevano attorno, deliberati a porre per quello le sostanze e la vita, perchè il gonfalone era il simbolo della patria e la patria era la terra de' padri, era la famiglia, la chiesa, la classe, il comune. L'uomo viveva come abbarbicato al suo suolo , a' suoi avi , alla sua casa , alla sua chiesa, alla sua classe , al suo comune , chiuso in potenti organismi , che gli rammentavano doveri da com- piere più che dritti da rivendicare. Si sentiva non un in- dividuo libero e isolato, ma parte di un tutto, vivente della vita di quello, figlio, marito, cittadino, soldato, credente, di questo quel ceto. E qui era il difetto di quei ferrei or- ganismi; l'individuo non vi aveva fini proprii, ma un fine comune, che spesso pesava sopra di lui come il fato, e uc- cideva la sua libertà. A poco a poco il limite soperchiò , cessò di essere uno stimolo, e divenne un ostacolo. L'uomo, stretto come in una rete di organismi soprapposti gli uni agli altri, de' quali non sapeva come distrigarsi, vi si sen- tia affogare e intisichire , e prese in odio i sentimenti più cari della vita, la sua religione, la sua famiglia, il suo co- mune, la sua classe. Volendo rovesciare l'ostacolo, soppresse lo stimolo. Quei limiti non furono più doveri graditi , ac- cettati dalla sua volontà, ma obblighi imposti dalla violenza, e nell'ardore della lotta perirono nella sua coscienza non solo quegli obblighi, ma quei doveri; la religione, la stessa morale gli divenne sospetta, perchè invocata da' suoi op- pressori; maledisse la società e la legge come istrumenti della sua oppressione e sospirò allo stato di natura, e per- chè nel suo sangue ci era entrato il guasto , cacciò da sé - 43 — il sangue cattivo e il sangue buono; cosi cominciò quella dissoluzione che Machiavelli chiamava corruttela italiana. Molti fanno di quella corruttela autrice la scienza , e non veggono che la scienza apparve quando la materia era già corrotta, ed apparve anzi per risanare. Che cosa era la scienza? Era l'intelletto già adulto che acquistava coscienza della sua autonomia , e si distingueva da tutti gli elementi del sentimento dell'immaginazione, in mezzo a'quali era cresciuto credulo e ignaro di sé. Era la Natura già maledetta e scomunicata che si affermava in mezzo alle società del soprannaturale e del privilegio, e pro- clamava i dritti dell'uomo. Era l'individuo che contrappo neva la sua autonomia, dirimpetto a tutti quegli assorbenti organismi degli esseri collettivi , dirimpetto alla Famiglia, al Comune, alla Chiesa, alla Classe, allo Stato, e si procla- mava fine e non mezzo. Il limite aveva soverchiato la li- bertà, E la Scienza era la Libertà , che reagiva contro il limite. Perchè la scienza ebbe così piccolo potere sulla vita ro- mana ? Perchè la vita vi si era raffreddata , ritiratosi da lei ogni stimolo, ogni sentimento del limite. E se ne volete una immagine, guardate alla catastrofe. Là erano i barbari «he si avanzavano, e qua erano soldati accampati alle fron- •■re, che li attendevano. Quelli portavano seco la patria, famiglia, le loro donne, i loro vecchi, i loro figli, erano 1 popolo in marcia : le loro migliori armi erano le loro ;>:e morali. Là era la famiglia, e qua era la caserma, sol- li di ogni gente, tutti chiamati romani, e perciò nessuno mano davvero , tenuti insieme nella vita artificiale del lopo, senz'altro stimolo che lo stipendio, senz'altro vin- lo che la disciplina , formidabili non a' loro nemici , ma a' loro concittadini , che li chiamavano pi'etoriani , lontani dagli occhi e dal cuore la casa, la famiglia, il tempio, la itria, tutti gli stimoli che fanno grandi gli uomini. E perchè la scienza potè cosi poco in Italia ? Perchè vi ano indeboliti tutti quei limiti che svegliarono tanta i»o- — 44 — lenza di vita in quella che fu chiamata età di mezzo; fiac- cati i caratteri , prostrate le forze morali , rimasti vacue forme chiesa, famiglia, patria, classe, stato, ogni organismo sociale, ogni vita pubblica ; vacue forme , alle quali 1' alta ironia dell' intelletto italiano aveva portato via il contenuto. Nello stesso scienziato la vita era molto al di sotto del pen- siero , spesso violenti e radicali i concetti , ipocrita il lin- guaggio, e servili le opere. La scienza può dare un nuovo contenuto, quando trova materia che lo riceva ; altrimenti è un sole, che irradia nel vuoto senza poter formare at- torno a sé il suo sistema , e va in cieli più lontani , cer- cando materia più giovane e più feconda. La scienza, perchè operi sulla vita , bisogna che ami la vita , quale la trova, guasta che sia, e studii a ricreare ivi dentro gli stimoli e i limiti, nettandoli della scoria che il tempo vi ha aggiunto e riconducendoli a' loro principii , quando erano più nella coscienza che nelle istituzioni. Ma se il guasto è nelle ra- dici, se insieme con la religione è mancato il sentimento re- ligioso, se il sentimento della patria e della famiglia e della natura e della libertà è fiacco, se le stesse radici della vita 8on secche, cosa ti può fare la scienza? La scienza non ti può dare la vita, anzi le volge allora le spalle, e se ne di- sgusta, e non segue più il corso delle cose, segue il corso delle idee , si ritira nella solitudine del pensiero , rinunzia a qualsiasi azione immediata sulla vita, lavora per l' uma- nità, fruttifica in altre terre. Cosi la scienza fu presso noi più radicale ne' suoi concepimenti e più sterile ne' suoi atti. Molti oggi ancora se ne gloriano, e vantano la lucidità del- l' intelletto italiano, che vedeva cosi alto e così lungi, quando altrove si disputava ancora di cose teologiche. E non pen- sano che l'intelletto italiano vedeva meglio, pex'chè il suo cuore sentiva peggio, mancati i sentimenti , le passioni, le illusioni, che trattengono nel suo volo l'intelletto, e lo ti- rano nella loro orbita, e impediscono che ne scappi fuori, libero nella sua corsa, ma solitario e infecondo. La scienza potò cosi poco in Francia, c^ome in Italia, ma — 45 — per opposte cagioni. Tra noi una vita piena ed agitata com- piva allora il suo ciclo, riflettendosi nelle arti e nelle scien- ze ; ivi era nel suo pieno fiore, e il limite vi si manteneva ancora con molto prestigio. La monarchia vi era istrumento di conquista, di unificazione e di gloria ; abbondavano i ca- sati illustri, che rappresentavano le glorie nazionali ; la re- ligione ricordava le più nobili tradizioni popolari , Carlo Martello e Carlo Magno , Goffredo , San Luigi , Giovanna d'Arco. Le forze popolari vi erano impetuose, espansive, im- maginose ed ambiziose ; ciò che è ancora oggi gran parte del genio nazionale. Contro a questa vita robusta e giovane urtò indarno V ironia di Rabelais, il buon senso di Montai- gne, lo spirito severo e prosaico degli Ugonotti, la rifles- sione malinconica di Pascal , e le sottigliezze estatiche dei giansenisti. Lo spirito nuovo potè appena scalfire la super- ficie di una vita più rumorosa che seria, nella quale invano cercavi il raccoglimento, la riflessione, la calma, e l'equili- brio interiore Lotte vi furono violente, ardenti, mescolate di scandali e di epigrammi , come portava il genio nazio- nale ; ma Parigi valeva bene una messa, e gì' interessi pu- gnavano alla conservazione di una vita, che si sentiva an- cora rigogliosa. Lo spirito pubblico, sazio di conquiste e di gloria, si addormentò sotto 1' ombra del gran Re e tra le fallaci apparenze del secolo d' oro, di cui erano ornamento letterati e scienziati, pomposo lusso di corte, brillante pre- ludio ad una vita tutta di convenzione, allegra, elegante, sciolta, sotto alla quale ruggivano inesplorate profondità. Il risveglio fu terribile. Sorse il disprezzo verso tutte le isti- tuzioni nazionali , divenute decorazioni di corte , e in quel disprezzo soffiava l' ironia di Voltaire e la collera di Rous- au. La scienza vi divenne rivoluzione, perchè ebbe a suo rvigio una nuova classe , che chiedeva il suo posto nella ita. E la rivoluzione fu violenta, rapida, drammatica, e nelle le convulsioni assoluta come la scienza, astratta come Tu- iuanità. Cercando libertà non nel limite , ma contro il li- mite, ruppe il limite, e non diede la libertà. Combattendu — 46 — la superstizione, spense negli uni il sentimento religioso, e provocò negli altri, come reazione, il fanatismo. Stabilì l'u- guaglianza giuridica, e produsse una disuguaglianza di fatto, sentita più acerbamente in quella contraddizione; e il frutto fu l'odio di classe, il più attivo dissolvente sociale, e i più delicati problemi abbandonati alla forza brutale. Mobilizzò fortune, famiglie, costituzioni e governi , e il turbinio rapì seco ogni costanza di carattere, ogni fermezza di disciplina, ogni vincolo sociale, il culto del dovere e della legge. Svi- luppò grandi caratteri, grandi forze, le usò e le abusò, trattò e stancò in tutti i versi una vita dotata di tanta elasticità, che oggi ancora così calcata minaccia ed offende. Quando non potè avere le cose , si appagò de' nomi ; non potendo aver la sostanza, abbracciò l'ombra; riebbe l'imperatore senza l'impero, la repubblica senza i repubblicani; ripetè e scimieggiò sé stessa; ripetè rivoluzione senza rivoluzionarli, epopee senza eroi; la storia divenne un circolo, nel quale elementi, ora vinti, ora vincitori, sempre violenti, si dibat- tono e si consumano. Limite e libertà, indeboliti nella co- scienza, logorati nell'attrito, non furono più le funzioni or- ganiche di una società armonica; furono meccanismi tanto più artificiosi e complicati ne' loro congegni, quanto la vita interna vi era più debole e men rispettata ; sicché né i con- cordati rinvigorirono la fede , né le costituzioni rinvigori- rono la libertà. Operando fuori di ogni tradizione o di ogni condizione storica, la società rimase in balìa al lavorio de'cer- velli; furono provati tutt'i meccanismi, furono fatte tutte le esperienze; i fatti furono costretti a camminare con la stessa velocità delle idee ; la storia uscì dalle sue vie natu- rali , fu una corsa vertiginosa , che non ancora ha trovato il suo punto di fermata, lasciando dietro di sé nel cammino intelletti dubbiosi, sentimenti vacillanti, caratteri mobili, non so che insoddisfatto, uno spirito irrequieto, avventuroso, che molto si agita e poco conchiude, senza fermezza ne'fini e senza serietà ne' mezzi. Questa fu la prima prova , nella quale l' influsso della — 47 — scienza è visibile. Più che rivoluzione, fu reazione della na- tura contro la società, della libertà contro il limita. Cia- scuna forza sociale, nell'espansione della sua gioventù, si ol- trepassa e si esagera. La religione, che non è di questo mondo, vuol essere questo mondo; lo stato usurpa a sua volta, e usurpa la famiglia, e usurpa il comune, e usurpa la nazione. Anche la scienza è usurpatrice, e invade le altre sfere della vita sociale, e vuole realizzare in quelle sé stessa, alterando la loro natura ; vuole formare una società intellettuale e si-ientifica, e, come si diceva un tempo, il regno della filo- sotia. Ultima forma dello spirito, non è maraviglia che cer- chi sé stessa in tutte le altre , e dove non si trovi , vi si cacci per forza. Nel suo orgoglio e nella sua inesperienza presunse troppo della sua forza, credette che quello che allo spirito apparisce ragionevole, dovesse e potesse per ciò solo tradursi in atto, e il suo motto fu: periscano le colonie, jiiuttosto che i principii. Le colonie perirono , ma non si salvarono i principii. E cosa avvenne? La scienza perdette il ?ìio credito, quasi fosse ella stata cagione di tutte quelle calamità, e gli uomini nel loro disinganno rincularono insino al Medioevo, cercando salvezza nel catechismo, quasi che fosse cosi facile restituirlo nella coscienza, com'era facile restituirlo nella memoria. Certo, da quel moto indimentiea- tile molti beneficii sono venuti all' umanità- La libertà si è fatta via ne' popoli civili; molti limiti artificiali sono caduti; "olti limiti sociali sono trasformati; l'autonomia e l'egua- inza dell'individuo ha generato l'autonomia e l'egua- anza della nazione, il sentimento di nazionalità; la scienza, raaestrata in quella terribile prova, calando dalla som- rà de' suoi ideali, ed entrando ne' misteri delia vita e nelle della storia, assisa sopra tante rovine, si e fatta pen- a, positiva e organizzatrice. L'esperienza ha fruttato. Sia- ine grati a quel popolo, che fece l'esperienza a sue spese, '. suo corpo e sulla sua anima ; a questo martire della u- nità, che vi logorò le forze, vi abbreviò la vita; a que- > popolo, che ha avuto più difetti che colpe , e la storia — 48 — punisce sempre i difetti e risparmia spesso le colpe, perchè il difetto è debolezza, e la storia, come la natura, nutre i forti, anche colpevoli, a spese de' deboli. La scienza, che nella società latina ingoiò più di quello che poteva assorbire e digerire, restò al contrario nella vita anglo-alemanna modesta ausiliaria, perchè ivi incontrò or- ganismi formidabili, pieni di prestigio e di forza e di fiducia, e non si mise già di contro ad essi come nemica , per di- sfarli, ma penetrò ivi dentro con moto lento, ma continuo. E con poca resistenza : perchè gli organismi viventi , nel rigoglio del loro sviluppo, non hanno in sospetto la scienza, anzi se ne valgono come istromento ad allargarsi e conso- lidarsi, purgandosi e riformandosi, cioè cacciando da sé le parti morte e stantie, rinnovando la materia; dove gli or- ganismi vecchi e aridi stanno chiusi in sé e temono la scien- za, odiano l'aria e la luce, come cadaveri che al contatto dell'aria si dissolvono. Ivi la scienza operava non fuori del limite ma entro di quello, e illuminava dall'alto la vita senza mescolarvisi, senza sforzarla, contenta alla sua parte modesta. Così ci vive e ci vivrà lungo tempo la chiesa, il comune, la classe, la famiglia, lo stato e la legge, limiti ri- spettati, la cui voce è anfora potente nel cuore degli uomini, e vi stimola e vi sviluppa le forze produttive. E ci vive in- sieme la scienza e la libertà , la più ampia libertà di co- scienza, di discussione e di associazione, che pur non è un pericolo, ma una forza, perchè il volo dell' intelletto ha ivi il suo limite nelle forze sociali ancora integre, il sentimento religioso, la disciplina, la tenacità, il coraggio morale, il sentimento del dovere e del sacrifizio, l'amore della natura e della famiglia, il rispetto dell' autorità, l' osservanza della legge , tutte quelle forze morali , che nel loro insieme noi chiamiamo l' uomo. Sento dire che la scienza ha fatto gran- de la Germania. Ah 1 signori, sono queste qualità che fanno grandi i popoli, e la scienza non le crea, ve le trova. Ben può ella analizzarle, cercarne 1' origine, seguirne la forma- zione , determinarne gli effetti ; ben può anche moderarle — 49 - correggerle, volgerle a questo o a quel fine; una sola cosa non può : non può produrle ; e dove son fiacche e logore ^ non può lei surrogarle. No, ella non può, dove il sentimento religioso languisce, dire: la religione sono io, e non può, dove l'arte è isterilita, dire : l'arte son io; può darti una filosofia della storia, del linguaggio, dell'uomo, dello stato; ma non ti dà la storia , il linguaggio , 1' uomo , lo stato. Ti dà la coscienza della vita, non ti dà la vita ; ti dà la forma, non ti dà la materia ; ti dà il gusto, non ti dà l' ispirazione ; ti dà r intelligenza, non ti dà il genio. Una forma non intende l'altra. Il sentimento non com- prende r immaginazione, e l' immaginazione non comprende r intelligenza. Ciascuna forma pone sé stessa nelle altre, e non ci vede che sé, e si ride di ciò che non è lei. Il sentimento guarda con occhio di compassione V uomo d' immaginazione, che ha bisogno d' idoli per alzarsi fino ad esso e l' intel- letto non comprende il sentimento nella sua ignoranza sem- plice e commovente. Una forma progredisce davvero, quan- do riconosce il suo limite nelle altre forme; e le studia e le comprende e le rispetta e fa di quelle il suo vestito. La "^ligione cattolica fu potente davvero, quando usci dal suo •tismo, e riconobbe il suo limite nella vita, e se ne ap- )priò le passioni, gl'interessi e le forme; e il Papa fu re, 1 Cardinale fu principe, e il Vescovo fu barone. Sotto a 1 vestito temporale ci era lei nel suo spirito e nella sua ita ; e se scadde , gli è che quel vestito divenne il suo pò e la sua sostanza, e se perdette la vita temporale, è che da lei s'era ritirata la vita spirituale. Un gran .rresso ha fatto la scienza, quando è giunta a riconosce- il suo limite nella vita, e si è fatta potente, perchè si atta modesta. Quel giorno che potè contemplare sé nella i, e trovare ivi dentro la sua .sfera accanto alle altre, studiarle, comprenderle, ri8[>ettarle nella loro autono- 'i, nella loro libertà, nel loro diritto alla vita, appro- .ti-sele, fare di quelle il suo vestito rimanendo ivi dietro sa attiva e trasformatrice, quel giorno fu il principio 'E Sanctis — Manzoni e tt-ritti varii — Voi. II. 4 — 50 — della sua potenza. Questa è la grande scoperta del nostro aecolo, che vale bene quella del vapore. L'ideale antico era Beatrice, la scienza che può tutto, la dottorona e la teologa; il nuovo ideale è Margherita, la vita ignorante, inconsciente, ma ricca di fede, di affetto, d'immaginazione € d' illusione. E la scienza diviene Faust , il sapiente che ha disprezzato la vita e si è chiuso ne' libri, e attende dalla scienza miracoli, attende V homunculus , e che, nel suo disinganno, lascia i libri e cerca la vita, e, tuffandosi nelle fresche onde della natura e della storia, ritrova la sua gioventù, ritrova l'amore e la fede. Allora si»capì perchè i filosofi furono meno potenti degl' ignoranti apostoli ; perchè i romani con tante scuole e con tanta dottrina soggiacquero agli analfabeti, che chiamavano barbari; perchè Machiavelli, che sapeva di stato, fu meno possente di quei barbari, che fondavano gli stati; e perchè i civili italiani poterono di- sprezzare, comprendere, schernire, ma non vincere l'igno- rante barbarie, maestri incatenati da' loro discepoli. Allora si capì che la scienza non è il pensiero di questo o di quello, non questo o quel principio, ma è produzione attiva, con- tinua di quel cervello collettivo, che dieesi popolo, produ- zione impregnata di tutti gli elementi e le forze e gl'inte- ressi della vita ; e si capì che là, in quel cervello, ella dee eei'care la sua legittimità, la sua base di operazione. Più si addentra nella vita, più imita la storia ne' suoi procedi- menti, più dissimula so stessa in quelle forze e in quegl' in- teressi, e più efficace e più espansiva sarà la sua azione. E cosa è uscito da questa scienza, che ha saputo misu- rare sé stessa e ritrovare nella vita il suo limite? Là dove le forze morali sono ancora sane, ivi ella è principio atti- vo e assimilatore, produce nuovi organismi sociali. Ma dove il sentimento del limite è raffreddato e le forze organiche indebolite, là non è buona quasi ad altro che a darti una coscienza della tua decadenza, la quale ti toglie le ultime forze e affretta la tua dissoluzione. Così per qualche tempo la colta Europa dubitò del suo avvenire, e si proclamò da — 51 — «e vecchia, e si domandò se forse non era destinata a di- ventare cosacca. Cosi noi latini parliamo oggi della deca- denza della razza latina; e non so davvero qual forza ri- manga più ad un popolo che si rassegni ad un preteso fato torico, e perda fede nel suo avvenire e predichi la sua de- cadenza. Quanto a me, preferisco a questa scienza l'igno- ranza del popolano, che stimi sé ancora erede dell'antica grandezza romana, e sogni l'impero del mondo. Una volta la scienza era'tutto, e s'imponeva con la for- za. Oggi corriamo al segno opposto; la vita è inviolabile, bisogna lasciarla fare. Una volta frutto della scienza era la violenza; oggi frutto della scienza è una libertà poltro- na e inorganica, che lascia la vita al suo processo storico, fosse anche di dissoluzione; che abbandona a sé stesse le foi-ze cozzanti; che fa dello stato un essere neutro e ipo- crita, un testimonio più che un attore; che si lascia fuggir di mano il freno, e che rivela l' indifferenza entrata negli animi, e quel difetto d' iniziativa e di coraggio morale, che noi sogliamo mascherare sotto la formola del lasciar fare e del lasciar passare : sicché frutto della scienza è una libertà che ripudia la scienza come potere legittimo e direttivo , e abbandona la società al flutto delle opinioni e a' rottami del passato. Diciamo la verità. Al paese si dee la verità , e ce a noi stessi. La scienza è un pezzo che si è ritirata loi, e non opera più ne' nostri cervelli, non produce più. ripetiamo una canzone divenuta malinconica per vec- ia, che non fa più effetto, neppure sopra di noi. E he dentro di noi non ci è una idea che ci tormenta, un sentimento che ci stimola, gridiamo pomposamente : ««i^inmo fare e lasciamo passare; la scienza fa da sé, e la liZSL fa miracoli, quasi che i miracoli li facesse la scienza e non l'uomo. La scienza, quando si move dentro di noi, *- ittiva, e penetra in tutti gli organismi, e gì' illumina e isforma sotto la sua azione lenta, ma perseverante. Non enza codesta, che produce idee sciolte, senza virtù di )ne, od ha per sua arma di guerra non uciranismi op- — 52 — posti ad organismi, ma ironia e caricatura: sicché talora avviene che organismi vecchi e screditati, rimasi intatti, 11 colgono in mezzo a quel risolino e si chiudono sopra di loro e li ricoprono. Perchè quello resta che è organizzato; e organismi battezzati per morti hanno sempre maggior forza che idee vaganti e ironiche, piovute di qua e di là, miscu- glio inconsistente di vecchio e di nuovo, mutabili ne' cer- velli secondo il successo e la moda. La scienza ha prodotto presso di noi due grandi cose, l'unità della patria e la libertà. Dico la scienza, perchè è lei che ha scosse le alte cime della società, e le ha messe in movimento, tirandosi appresso e galvanizzando la restan- te materia. L' unità della patria è la concentrazione di tutte le forze, e la libertà è lo sviluppo di quelle secondo il pro- cesso della natura e della storia, è la loro autonomia e la loro indipendenza. Grandi cose son queste, idee semplici» accessibili, che non hanno bisogno di libri e di scuole; sono istrumenti del lavoro, ma non sono il lavoro; sono forme che si putrefanno presto, ove ivi dentro non è una mate- ria che si mova. Che cosa è l'Italia senza italiani ? Che cosa è la libertà senza uomini liberi? Sono forme senza conte- nuto, nomi senza soggetto; sono il prete senza fede, sono il soldato senza patria. Anche nella vita ci è il pensiero , un pensiero latente , lenta formazione de' secoli, che riproduce e trasmette sé nelle generazioni mescolato co' succhi generativi. La vita si rin- nova nell'alto, e questo pensiero scava il suo letto più pro- fondo, e si abbarbica ne' cervelli , come quercia nel suolo , e non si move più, rimane incastrato , stagnante , passivo , rimane la manomorta della vita. Noi non siamo penetrati in questo pensiero , ci abbiamo solo sovrapposto il nostro pensiero, e prima abbiamo pesato troppo, e quello ha mosse le spalle e lo ha gittato giù. Poi , fatti savii e abili , vo- gliamo vivere in buona pace l'uno accanto all'altro, e gli diamo la libertà e gli diciamo: muoviti e cammina; e quello risponde con l'apatia, e se lo punzecchiate troppo, si mo- - 53 — vera e camminerà contro di voi, ravviluppato più fieramente n se stesso. La libertà non giova a quello, e non giova nep- pure a noi ; perchè il nostro pensiero , come stanco della lunga produzione, non sa più qual uso fareene. Perciò la sua 'orza d'azione è divenuta inferiore a quella forza di resi- stenza. Quel pensiero è insieme volontà, abitudine, storia , tradizione, tutta la vita. Può dirsi il medesimo del vostro pensiei'o, nato ieri, appena e male assiso nel vostro intel- letto, e che non è ancora in voi volontà, sentimento, fede, immaginazione, coraggio, iniziativa, disciplina, non è ancora energia? Quel pensiero voi potete schernirlo, ma è più forte di voi ; perchè sente, immagina, crede, fa quello che pensa. Dicono: lasciamo fare allo spirito del mondo. Abbiamo fede nel progresso. Il tempo e la libertà matura tutto. Certamente. Anche io ho fede nel progresso dell' umanità , ma non nel progresso delle nazioni ; e se il processo è di dissoluzione, il tempo e la libertà non maturano che la morte. E poniamo pure che la società sia sana ed abbia le sue foree intatte; ma dunque la scienza non è parte anche lei di questo spi- rito del mondo? Un tempo tutto era lei; e oggi sarà dive- nuta semplice spettatrice della storia, e abdicherà ad ogni suo potere sopra questa pianta che si chiama uomo , e la sua ultima conclusione sarà: lasciamo fare e lasciamo pas- sare? Lei ha potuto costringere la natura a camminare più rapida, ha creato il vapore ; e quando si tratta dell' uomo, che il movimento sociale e accelerato, ora che i secoli i chiamano decennii, attenderà tra noi che il tempo faccia il suo comodo e maturi quando gli viene? La libertà di tutti o per tutti è oramai un punto acqui- I. già oltrepassato dalla scienza, non contrastato più, in- uto anche dagli avversarli. La missione della scienza è oggi di dare a questa libertà un contenuto, di darle il suo contenuto , non invadendo le altre sfere della vita, ma la- vorando ivi dentro e trasformandole. Abbiamo già un con- tenuto scientifico, un complesso d'idee, che chiamiamo lo 'oirito nuovo. Ciò che rimane è che sia davvero spirito. La — 54 — scienza continuerà nelle sue alte regioni il suo processo di elaborazione e di formazione; ma ciò che urge, è che ella crei questo spirito nuovo. I milioni di analfabeti scossero un giorno le nostre fibre. Illuminiamo gì' intelletti, senti dire; qui è il rimedio. Leggere e scrivere, far di conti, un libric- cino de' doveri e delle creanze, storie e favolette ; e la scienza penetrerà ne' più bassi fondi della vita e se li assimilerà. Or questa istruzione mi contenta assai mediocremente. Cre- dete voi, signori, che i romani degeneri non avevano libri e scuole? o che loro mancavano trattati di morale, pratiche religiose, e storie di uomini illustri? I giovani romani an- davano in Atene ad imparare virtù e libertà, e tornavano re- tori e accademici. E gli accademici, come Cicerone, erano gli eclettici e 1 temperati di quel tempo, che, tenendosi in bilico tra stoici ed epicurei, rimanevano in quella mezzanità che meglio rispondeva alla bassa temperatura sociale, e la- sciavano fare, e lasciavano passare, insino a che, vinto ogni ritegno, la società si chiarì epicurea e materialista. Questo non diceva loro il libro, anzi il libro parlava savio; il libro parlava, e la corrotta natura operava. Or questo è appunto il tarlo, che ha roso 1' antica nostra società, e che noi chia- miamo la decadenza: altro pensare e altro fare. E noi che, abbiamo tanta fede nell'istruzione, dobbiamo domandarci, se siamo davvero tornati giovani, e se quella decadenza non ci ha lasciato niente nelle ossa e nel cuore, se noi serbiamo intatte le nostre forze fìsiche e morali. Ma se il nostro male è r anemia, se ci è bisogno una cura ricostituente e corro- borante, r istruzione può illuminare il nostro intelletto, non può sanare la nostra volontà. E poi, quando dentro è difetto di calore, già non produrremo noi né scienza, né istruzione. Avremo una scienza di riflesso, non figlia nostra, non forma del nostro cervello, ma venutaci, secondo la moda, di Fran- cia e di Alemagna, e prima di fare noi, ci domanderemo : cosa fanno gì' inglesi, e cosa fanno gli americani? Non che sentire il pungolo della vergogna , ma ci consoleremo e ci applaudiremo, proclamando che la scienza non ha patria, e — 55 — bisogna pigliarla dov'è, e quando altrove è bella e fatta, inutile stillarci noi il cervello. E non è vero. La scienza non )uò germogliare senza una patria, che le dà la sua fisono- nia e la sua originalità. E là dove cresce bastarda e presa Eid imprestito, non ha fisonomia, e rimane fuori di noi, non >pera in noi , non riscalda il cervello. Non produrremo la scienza e non produrremo l' istruzione. Accetteremo dal di fuori metodi e libri, costituzioni, ordinamenti e leggi, e spesso piglieremo un abito, quando là dov'è nato è già logoro e messo fra' cenci. Cosi tutto e mezzanità, mezza istruzione, mezze idee. La scienza è sistema com* è la vita ; le migliori verità sono falsità , se non sono nella mente coordinate e limitate. Idea intera è idea nel sistema; mezza idea è idea scappata dal centro, e, presa per sé, è cosi vera lei, come è vera l'opposta. Onde società e individui, divenuti cervelli centrifughi, passano con facilità dall'una all'altra, e oggi gridano libertà, e domani gridano autorità. La nostra vita è a pezzi, a ritagli, con molto di nuovo nelle parole, con molto di vecchio ne' costumi e nelle opere , sicché dentro di noi non e serio ne quel nuovo, né quel vecchio. Tale è la vita e tale è la scienza. E posso dire il contrario : tale scienza, tale la vita; perchè la sjienza è la vita che si •tte nel cervello, è il prodotto della stessa materia, e se la vita è guasta, la scienza è guasta, e non che faccia mi- oli , ma non può fare neppure il miracolo di avviarci t vera scienza, a' sodi e scrii studii. Piccola azione, dun- . avrà sulla vita questa scienza e questa istruzione. E ndo pure sia istruzione soda intera, già non guarirà il ro male che ha la sua sede nella fiacchezza della fibra e nella debolezza delle forze morali. Conoscere non è potere. Vagheggiamo non so che enciclopedico nella gioventù, ab- biamo aumentata la serie delle sue conoscenz3, e non perciò abbiamo aumentata nò la forza del cervello, né la forza del carattere. Con questi preludii allarghiamo la nostra azione anche alle basse classi, vogliamo spandere i lumi del secolo» ne si dice, spezzare a (juelle il pane della scienza ; ed e — 56 - venuta su una letteratura popolare, tutta smancerie e tutta fiorentinerie, tutta diminutivi, e in una forma da comme- dia che chiamano lingua toscana, un accozzame di roba fi- losofica e di roba cattolica, l'ateo e la suora di carità a braccetto. Così noi pensiamo fortiter et suaviter d'insinuarci nel cuore del popolo, come già il demonio nel cuore di Eva, e fargli gustare il frutto proibito senza troppe grida del babbo e del prete, e vogliamo insegnare la verità col mezzo presenta l' alta società affarista e licenziosa , mescolata a elementi ignobili; nel Ventre de Paris dipinge la po- [lolazione parigina de' mercati; néW Assommoir la vita degli 'rai alla barriera. «Questo racconto non è solo la storia di Gervasia, ma una >ria sociale. I'] se volete averne un concetto, guardate Napoli. Napoli Il ha ancoi*a i suoi quartieri bassi? Non vi è mai giunta — 64 — la voce di certi covili, dove stanno ammassati padri, figli. madri, senza aria, senza luce, tra lordure perpetue, cenciosi, laceri, scrofolosi, anemici ? Nessuno di noi ha avuto stomaco di andare lì e studiare quella miseria: il disgusto ce ne allontana. Ebbene, questo coraggio ha avuto Zola in Parigi, ed un altro, D' Haussonville, che ha fatto studii interessanti sul- V Enfance de Paris; ed è andato a studiarla nelle ultime taverne e nelle case più laide. Zola è stato anni in mezzo a questo mondo infetto , ha veduto da vicino il vizio , ha sentito il puzzo e non si è turato il naso, ha sentito le pa- role oscene e non si è turato le orecchie. Andava colà con l'animo di un professore di anatomia, che squarta cadaveri umani per cercarvi la scienza; con l'amore di un S. Fran- cesco di Sales o di un Alfonso Casanova (1), che menavano la vita in mezzo a' monelli , pensando che quelli pure erano loro fratelli. Zola è condotto dall'amore della scienza e del- l' arte , e l' amore è intrepido , come dice Federigo Borro- meo ; r amore vince il disgusto. Andava colà col suo bravo taccuino nelle mani e notava tutto; raccoglieva un vasto ma- teriale, da cui sono usciti molti romanzi. Or dunque, cos' è questa società, studiata con tanto amore da Zola , cosa è quest' ambiente in mezzo a cui vive (.xer- vasia? Questa società non ha le due più alte gioie dello spi- rito umano, non ha né azzurro di cielo, né verde de' campi ; non ci è Dio e non ci è natura. Ci fosse almeno la patria! Sentite uno dire : — che importa a noi chi sia imperatore o re ? tanto, la nostra vita è sempre quella ! — Non ci è Dio, non e' è natura, non e' è patria. Non è che non facciano le loro scampagnate; ma escono da' covili na- tivi e vanno a chiudersi in altri covili che si chiamano ta- (1) Alfonso della Valle di Casanova (1831-1872), benemerito fonda- tore àeW'lstituto Casanova di Napoli. Si hanno di lui due volumi di Scritti e lettere scelte, raccolti ed ordinati da F. Persico, Napoli, Mar- ghieri, 1878. — 65 — verne, dove gozzovigliano. Nessuno di loro ha sentita la bel- lezza di un fiore, nessuno ha guardato pensoso verso il eielo. Vanno in chiesa, dicono le preghiere, nei banchetti cantana inni patriottici; ma sono cose abituali, forme vuote che non contengono alcun' idea. Leggete la prima comuniona di Nana. Le idee sono: chi veste meglio, guardare ed essere guardato, come compai'iva 11 prete , chi faceva miglior figura. E questo non è solo colà. Osserviamo le nostre idee quando si va a messa e ve- dremo che molti fanno un po' la comunione alla Nana. No, non ci è Dio, non ci è natura, non ci è patria : ci è almeno il senso morale? Sicuro; ci sono ìes principes. Ma ci sono due leggi distruttive di tutti i principi i nel cuore umano, l'abitudine e l'esempio. Quando in un quartiere tutti fanno a un modo, dico: — per- chè non farò io il simile? — E quando, vinta la resistenza, una cosa si fa per la prima , la seconda e la terza volta , nasce 1' abitudine : quello che prima era scandalo diviene cosa abituale: ridete voi e ridono tutti. Questa è la corru- zione di un popolo. Finché rimane la voce potente del senso morale ofieso, quella non è corruzione: ma quando succede l'indiff'erenza e voi stringete la mano a persone disprege- voli , avete la corruzione e la corruzione diventa natura. Dunque , il senso morale è ottuso : appena lo sentite in qualche animo non ancora corrotto; ma aspettate e vedrete flie l'ambiente finirà per assorbire anche quello. Almeno e' è in questa gente un' opinione di cui abbiano rispetto, di guisa che, se da una cosa immorale non si asten- no per sentimento, se ne astengano per non fare, come ilice fra noi, una cattiva figura ? Siamo a Parigi. Ci erano classi che incutevano rispetto erano un freno. Nobiltà, clero, borghesia, cosa sono oggi , L- loro? La nobiltà l'hanno vista oltraggiata in tutti i li tiri ed è segno del loro disprezzo. Uno loda la bravura di nobile e l'altro risponde: — Si, una bravura, quoique ''le. — Il prete è bottega ; il borghese è un essere che De Sanctis — Manzoni e scritti varii — Voi. II •'. — 66 — invidiano e disprezzano ad un tempo, perchè mena una vita beata e non lavora. Per essi il lavoro è il lavoro loro ma- nuale: non concepiscono il lavoro della mente. E quando si pigliano spasso di qualcuno , dicono : — Voi fate il bor- ghese. — Dunque , non e' è il rispetto , che venga da altre classi, non ci è il rispetto fra loro: il punto d'onore, ul- timo freno rimasto all' umanità , è anche scomparso. E che cosa sono Dio , natura , patria , moralità , onore ? Sono r umanità , ciò che fa uomo 1' uomo. Che cosa resta a. quella gente? La pura animalità. Hanno non volontà, ma appetiti , non intelligenza , ma istinti ; non hanno forza di scegliere, di dominarsi ; operano fatalmente per moti improv- visi , immediati , come fanno le bestie ; non possono avere in sé la forza della rigenerazione , perchè manca loro una volontà che stia al disopra di quegli appetiti e che riesca ii dominarli e indirizzarli al bene. Voi mi direte : dunque , che fine ha questo racconto di Zola? Il fine è questo: gittata Grervasia in quest' ambiente, vi resterà assorbita. Io però non sono assoluto come Zola. Non credo all' onnipotenza dell' ambiente. Datemi una forte personalità e saprà lottare con quello. Ma Gervasia ha istinti, non qualità. L'istinto, solo allora che sia educato e fortificato da buoni esempii e fiorisca in mezzo ad un buono ambiente, è qualità , una seconda natura ; e diventa carattere e può resistere all' ambiente. Or vediamo un poco questa buona Gervasia cosa era stata e che cosa poteva essere. Gervasia era nata in Plassans, figlia di padre vagabondo ed ubbriaco e di madre che digeriva le mazzate del marito ubbriaco , bevendo anisetta e dandone pure un goccetto a lei : e lei, tra le mazzate e l' anisetta, viveva per le pubbliche vie facendo la lavandaia. A quattordici anni si lasciò rapire da quel bel mobile, e quando ebbero ben bene svaligiato le due famiglie, piglia- rono la via di Parigi. Ha questa giovane una personalità , ha quella energia anteriore che si chiama forza di resistenza — 67 — ■ e che fa sì che non solo noi non ci lasciamo assorbire, ma siamo potenti ad assorbire gli altri? No. La sua nascita, la sua educazione, tutto annunzia un di- fetto di energia interiore. Je me laisse faire, dice. Povera giovane! Lui prima la tradisce, poi il marito diviene un ub- briaco e la bastona, e poi in mezzo a queir ambiente è come una fogliolina trasportata dalla corrente. Tirata in qua e io là, non ha volontà, ha velleità; le si vede sul viso e nello sguardo V indecisione , ciò che mostra la vittoria possibile all'avversario; e vittoria possibile è vittoria sicura. Così, di caduta in caduta, di sconfitta in sconfitta, lenta- mente va a finire nell' ultima miseria, nell' ultima degrada- zione. Ecco il concetto dell'autore. Voi mi direte: e questo è arte ? Voi mi demolite l' umanità, voi mi create un ambienta ove ogni idealità è distrutta, e qui c'è arte? Dunque, vediamo questo racconto dirimpetto all'arte. Perchè arte ci sia, è necessario che la cosa che si vuole rappresentare abbia una ripercussione nel nostro cervello. Le cose ottuse non hanno ripercussione, e perciò non hanno interesse; vivono per sé, non vivono per noi, e l'arte siamo noi. Quando la cosa fa impressione in noi, produce nel no- ro petto sensazioni, osservazioni, emozioni; e noi riprodu- •iamo non solo la vita sua, ma in essa una parte della no- stra vita. Questa è la forma ideale. E quale è il contenuto ideale? Sono i grandi sentimenti umani: Dio, patria, natura, uma- nità, libertà, giustizia, bellezza, scienza; e questi concetti sono la storia dell' umanità , l' evoluzione di tutto ciò che neir uomo non e animale, l' homo sum. Tutto questo è ideale perchè rappresenta non solo la cosa in sé , ma la nostra idea; e se non e reale, se non è esistente, pure è vero; vera *^ la vita che ha la cosa, ed e vera la vita che le comuni- iiiamo noi. Quando idealizziamo la vita delle cose, abbiamo la forma ideale ; e quando in questa vita vediamo risplendere tutti — t)8 — quei sentimenti umani , abbiamo l' idealità , il contenuto ideale. Veniamo ora a Zola. Abbiamo qui un mondo ottuso : nes- sun intei'esse può prendere anima d' uomo a questo mondo animale ! Non forma ideale, non contenuto ideale: ci sono almeno motivi interni ideali? Qui non passioni, non carattere, non pensiero, non coscienza; il moto di questa vita nasce da mo- tivi prettamente animali, da istinti e da appetiti. C'è almeno processo artistico? Generalmente, trovate nelle opere artistiche una forza do- minante, il protagonista; ci è una forza resistente, l'avver- sario ; e poi ci sono personaggi accessorii , secondarli. Ci è r azione principale e ci sono gli eplsodii. Da Omero a noi, questo è stato sempre il processo dell' arte. Dove è in que- st' opera il protagonista , dov'è l'intreccio, dov'è l'intrigo, in questo mondo, dove non ci è tipo, non c'è individualità che spicchi; dove tutto è simile e tutto è mediocre, tutto è principale e tutto è secondario , tutto è azione e tutto è episodio? Ci è in questo mondo qualche cosa di plumbeo e di monotono, e so ci è qualche cosa che è protagonista, è l'ambiente che assimila tutto. Forma artistica, contenuto, motori, processo artistico non ci è; ci sono almeno forme artistiche? Dico forme, e non forma. La forma è quella che vi ho chiamata la forma ideale , è la cosa ingrandita dall'immaginazione; le forme sono l'e- spressione , lo stile , il colore. Non veggo altre forme del- l'arte che queste: semplicità, eleganza, spirito. C'è la semplicità, quando la cosa vi si presenta non scru- tata ancoi'a da un cervello adulto , ma nella sua prima e verginale apparenza; e quando l'artista è anche lui sem- plice come la cosa, e la vede nella prima guardatura, e la sente nella prima impressione. Questo è nei popoli primitivi, nell'alba della vita; è una semplicità che ha compagne l' ingenuità e la grazia , tutte — 69 — ■ le qualità amabili che sogliamo ammirare in una Marghe- rita, in una giovinetta che allora sboccia come la rosa. Poi avete l'eleganza, quando l'arte rappresenta caste pri- vilegiate, gli dei, gli eroi, i grandi popoli, i grandi fatti, quando tutto il resto dell' umanità è straniero o schiavo. Avete allora quella forma nobile, solenne, che è nella cosa e si trasfonde nell'opera di arte. Ma quando l'artista, in ciò che si presenta, trova un che di contrario a quest'ideale delle forme, quando invece della semplicità trova il cinismo, quando invece dell'eleganza trova il plebeo , la contraddizione tra quello che trova e quello che sente produce quel fenomeno irresistibile che è il riso; non il riso sciocco che vede contraddizione dove non è, ma il riso dello spirito che la sente e la gitta fuori in un motto, in un frizzo, che comunica il riso. Questa è la fonte dello spirito, caricatura, ironia, sarcasmo, umorismo. Ora nel racconto dello Zola non solo non ci sono queste tre forme, ma ci è il contrario, quasi egli faccia a dispetto. La eleganza diviene volgarità, la semplicità cinismo, lo spi- rito goffaggine. Non è che in questo mondo non ci sia ma- ♦'^ria di spirito, non ci sia allegrezza. Vedete i due ban- hetii, voi non ridete mai. Quella gente è goflfa, non è spi- ritosa; è un'allegria plebea e vinosa. Voi mi ripetete: dunque, questo è arte? che arte è questa? E se arte non è, colpa è di Zola, o è del suo argomento? Lasciamo stare le impressioni contemporanee. L' Assom- nioir ha provocato sdegni, resistenze, ma ancora più applausi. E cosa fa questo ? Chi più applaudito di Pietro Aretino e di Giambattista Marino? Pure era la decadenza, e la deca- denza non era solo in loro, era nel pubblico che applaudiva. Quando complici sono tutti , scrittori e pubblico , quella ò «•orruzione, quella è decadenza. Dunque, lasciamo stare le impressioni contemporanee. Usi a guardare larghi orizzonti, guardiamo Zola nella storia del mondo. Perche Zola non è già qual cosa nuova che sbuchi li di terra; anche Zola e figlio del secolo XIX; e se egli — To- si diverte a mostrarci come nasce Gervasia, vediamo un po' com' è nato Zola. Siamo in tempi di transizione, diciamo tutti : l'arte è in uno stato di crisi. I più grandi filosofi e poeti del secolo hanno sentito questo sgomento dell'anima innanzi alla d3- molizione di tutti i sentimenti umani , di tutti gli ideali. Die Ideale sind zerronnen, gli ideali sono liquefatti, grida Schiller ; e di questa morte degli ideali sentite 1' eco pro- fonda in Bvron, in Musset, in Lamartine, e nel più grande di tutti, in Leopardi, che non ha distrazioni, si seppellisce nel suo dolore, complice e vittima, complice per la sua in- telligenza e vittima per il suo cuore. Non hanno essi la- mentata la morte dell' arte ? E perchè anche loro sono arte, non si è detto che ultima forma poetica è il sentimento della morte dell' arte ? Distrutta la forma e venuto meno ogni ideale, che altro rimaneva all'arte, dicevano, se non un sen- timento vago, indistinto, la forma del sentimento? L'arte muore in un accento lirico, in un sospiro musicale. Lirica, musica, sono le ultime forme dell'arte. Questa era la con- clusione. Io non dirò che queste previsioni siano ombre di cervelli malati o fenomeni passeggieri. Quando Leopardi dice : l'arte è morta ; quando Hegel col suo pensiero onnipotente impo- neva questa tesi alla nostra generazione; qualcosa deve es- sere morto davvero. L'arte non muore; ciò che moriva era una vecchia forma, che essi dicevano arte. Questa è una faccia del secolo. E ci è l'altra faccia. Men- tre questi, eh' io non chiamerò con frase insolente, a modo Zola, beccamorti dell'arte, mentre questi Catoni del passato s'abbracciavano ad un'arte che spariva, ci erano altri, spi- riti tranquilli e sereni , che facevano arte e seguivano gli impulsi del secolo. Il tema è lungo. Non posso indicarvi questo moto in tutta l'Europa: basterà un accenno. Ecco l'i Goldoni che proclama base dell'arte essere la vita reale, e fa la nuova commedia e seppellisce le fiaba e il fantastico. Ecco Manzoni che dice : Non è più tempo di abbandonarsi — 71 — alla sola immaginazione ; cerchiamo una vita nuova nella natura e nella storia ; e f a i Promessi Sposi. Ecco Victor Hugo, che volge le spalle alle forme classiche e accarezza forme plebee e scende in tutte le contraddizioni e le mesco- lanze della vita reale. Sono apostoli di vita nuova, che pure portano ancora nel seno i vestigi della vita antica. Perchè, chi più potente creatore di tipi fantastici di Victor Hugo? Cosa sono i suoi Quasimodo , i suoi Gavroche , se non co- struzioni ideali ? Cosa sono i Cristoforo e i Borromeo , se non la vecchia vita ideale a cui la storia è semplice deco- razione? In mezzo al positivo e allo storico ricomparisce il tipo, ove e la sintesi di tutte le vecchie forme. Questa con- traddizione tra r uomo vecchio e il nuovo non è sfuggita allo sguardo acuto di Manzoni, giunto a questa conclusione che romanzo storico è contraddizione, è mescolanza ibrida, e che tutto vuol esser storia, o tutto vuol esser romanzo. Non era giunto a sciogliere la contraddizione , a cercare r arte nella stessa storia e nello stesso reale , 1' arte nelle cose , e cercava ideali nell' immaginazione sua e nelle sue intenzioni , come un Marchese di Posa dirimpetto a Filip- po H. Pure, quel suo immortale discorso critico era un pre- sentimento. Vana rimase la sua voce. Il secolo continuò col reale e colla storia. Manzoni istesso fu seguito da una liorente scuola di romanzi storici, parte dimenticati, parte in via di dimenticanza. Romanzi storici, drammi storici, è la mania del secolo, è la mania tra noi di Cessa e di Giovagnoli. Or cosa vuol dire quest' idea fissa di cercare l'arte nella toria se non che il secolo è divenuto oramai impaziente di 'emi fantastici e sentimentali e di costruzioni ideali e sub- biettive, e cerca un terreno sodo nella natura e nella sto- ria? E cosa è questa esagerazione che trae gli artisti al di- pregio di ogni forma consueta dell'arte? È reazione di uno pirite nuovo a quel vecchio mondo ideale divenuto oramai •onvenzionale. E la reazione ha detto : voi volete il bello (1 io vi do il brutto; volete il nobile, l'elegante, ed io vi do il plebeo ; volete il castigato, il morale, ed io vi do il — 72 — licenzioso o il cinico ; il vostro tema solito è il trionfo della ragione sul senso, ed io vi do il senso nelle sue or- gie, nella sua ubbriachezza; voi volete il vestito, ed io vi do il nudo, lo scamiciato ; voi vi chiamate spirito ed io mi chiamo materia ; i vostri elementi sono fantastici e senti- mentali, voi abbellite, voi idealizzate il pallore di una gio- vine melanconica, o di un giovine impotente alla vita; ed io dico alle vostre Atale, a' vostri Werther, a' vostri Ortis : andate a prendere i bagni ! Le vostre eroine sono linfati- che : i vostri eroi sono tisici e anemici. È una reazione ; perciò è presente nello spirito la cosa contro la quale si reagisce; è una reazione di dispetto, di elementi negativi. E perciò appunto voi, miei signori, non avete ancora cancellato dal vostro petto la forma antica ; e siete come ribelli che fremono e si dibattono e si esage- rano , e cercano e non trovano ancora la via. Perciò voi siete contorti e convulsi, e cercate forza all'assenzio e novità alle forme, mancando la novità delle cose, e, per dirla con le frasi vostre, voi siete isterici, voi siete affetti da ereti- smo nervoso. È reazione, la quale, come la rivoluzione, contiene la ve- rità, perchè reazione e rivoluzione voglion dire esagerazione del vero; e appunto perchè ci è esagerazione, il vero e' è. La reazione corrisponde a qualcosa di vero che ci è nello spirito contemporaneo. Vediamo cosa e' è di vero. La letteratura, che nell'antico era principalmente eroica o epica, espressione di cause occulte e divine, divenne poi l'umanismo, espressione dell'uomo, quasi l'uomo fosse unico centro della vita universale. L' umanismo apparve fin dal tempo che nella commedia di Terenzio un attore diceva : homo sum, humani nihil a me alienum puto (1), tra i vivi applausi di un popolo che aveva ancora schiavi e che chia- (1) Su questa frase, vedi le osservazioni del Bonghi, Horae subseci- vae, prima serie, pp. 119-20. - 73 — (lava nemico lo straniero. Quel motto precorreva al Cristo, he proclamava la fratellanza ed eguaglianza umana : a tutti figli di Eva nel suo dolor pensò , canta il Manzoni. Il entro dell'arte non sono più cause esterne e celesti, ma la oscienza, la psiche. La forma moderna dell'arte ha avuto [uesta base. Pure ci sono sentimenti estranei all' umanità e che pur "anno vibrare una corda nel nostro cuore. Prendiamo il sen- imento più generale, il senso del vivo. L'arte che mi rap- presenta il vivo ha un'eco in noi. Certo, se la materia, oltre al vivo, abbia ancora qualità che trovino una corda nel no- stro petto, meglio ancora ; l' arte sarà più efficace. Questo ci può e non ci può essere ; ciò che è conditio sine qua non, ciò che è base fondamentale, è che la ma- teria sia viva. Materia dell'arte non è il bello o il nobile; tutto è materia di arte ; tutto ciò che è vivo: solo il morto è fuori dell'arte. Perciò, base dell'arte, se mi è lecito imi- tare Terenzio, è questo motto : — Sono un essere vivente : niente, di ciò che è vivo, è straniero al mio petto. E non basta. Non solo vogliamo una materia viva , ma che sia di vita naturale a cui l'artista rimanga straniero. I greci ammiravano quelle uve dipinte, a cui beccavano gli ' uccelli ingannati. Senti spesso dire: quel quadro è parlante: cosi è , sembra rubato alla natura. Se un attore esagera , surfait un personaggio , tutti gridano : gli è un adulterio. Se sa dimenticarsi in quello, bravo, tutti applaudono, di- cono : è desso. C è dunque un senso in noi che ci fa gu- stare r arte nel vivo, e nel vivo naturale. E cos' è questa vita, espressione non del nostro cervello, ma della vita come r lia fatta la natura, se non il reale ? A noi non basta che una cosa sia vera, vogliamo che sia reale. E non basta ancora. Siamo secolo adulto, e già da gran i; tempo non restiamo più alla vita quale ci si mostra nella [sua superficie; vogliamo guardare il disotto, la causa che Ila produce. E non ci contentiamo più degli dei , delle in- fluenze celesti, e neppure de' fenomeni della coscienza. Noi — 74 — slamo ancora troppo vicini, i nostri posteri rideranno di tutte queste spiegazioni psicologiche, e le diranno anch'esse superfìcie, a quel modo che noi ridiamo degli Dei d'Omero e chiamiamo superficiali quelle spiegazioni. L'arte non rap- presenta la vita in un modo assoluto , ma la vita com' è concepita e spiegata in questo o quel tempo. È la scienza che ti dà il significato della vita; e la vita artistica di un tempo corrisponde alla scienza di quel tempo. Oggi un'arte prettamente psicologica non corrisponde più allo stato della scienza. Voi potete dimostrarmi che sia scienza vera , che sia scienza falsa ; ma tant' è : questo è la scienza è la scienza è lo spirito del secolo. 11 concetto dell' uomo è divenuto più complesso. L'uomo è figlio della terra e non ci è influenza terrestre che non concorra alla sua formazione. Non è in- differente che un uomo nasca in questo o quel paese, sotto a questo o quel clima, da questo o quel padre, ed abbia questa o quell'educazione, e viva in questo o quell'ambiente; sono tutti questi fattori che lo formano, e gli danno un ca- rattere e Io fanno essei^e questo o quello. Sono nuovi ele- menti dell' arte, l' uomo guardato nelle ultime sue profon- dità. E questo non è solo artistico, ma è ancora morale. La missione dell' uomo è di domare la natura, di vincere tutte le cattive influenze , di conoscerle per vincerle. Sono esse come il parassita che succhia la vite e succhia 1' uomo, e in questa lotta per la vita egli ucciderà voi , se voi non avete la forza di uccidere lui. Ci è dunque tutto un mondo microscopico, che si l'ivela all'arte. La vita artistica non dev'essere solo vita di super- ficie, ma vita interna. E, se vogliamo restringere in poco il discorso, l'uomo, per accarezzare l'uomo, ha trascurato troppo le sue forze natu- rali e animali. Che cosa è quest' arte nuova ? È la natura che domanda il suo posto; è l'animalità che vuole una più larga parte. Il pensiero stillato e assottigliato vuole rinfre- scarsi e ringiovanirsi nelle pure onde della natura e ritro- vare là la sua forza e la sua giovanezza. Non vuole più :re il pensiero impotente di Amleto ; perchè, cos'era Am- ) ? In Amleto e' era 1' uomo in eccesso e 1' animalità in {inetto. La restaurazione del corpo umano accompagna que- if arte fecondata dalle loi*ze naturali e animali. L'animalità è la poesia de' tempi giovani. Achille è il più feroce e terribile animale, che abbia creato fantasia di poeta. Non ha famiglia, non ha patria, non ha pietà, cuore di ferro. L' inferno dantesco è pittura potentissima dell' animalità umana. Il maggiore attrattivo del poema ariostesco è in quegl' indisciplinati animali che si dicono cavalieri, accom- pagnati dal mezzo riso del poeta, sentore di tempi più ci- vili. Si è creduto perfino che i tempi ordinati e civili fossero prosaici. L' arte tende a concretare sempre più e ad incor- porare i suoi ideali. E questo non te lo dà il pensiero e la riflessione, te lo dà l'energia animale, dalla quale esce la volontà e l'azione. Ideali astratti e mistici, ideali tisici e impotenti non tro- vano più eco in questa vecchia Europa, che cerca nuovo I sangue, un ritorno di gioventù. Vogliamo ringiovanire l'uo- '. rifare i corpi, cerchiamo avidi le nostre forze naturali nimali. Questo è il significato dell'animalità in contrap- izione a un esagerato umanismo. La ginnastica! E qual è- il processo artistico? Non piace a noi più quel- l'ordito artificioso, frutto di lavoro mentale, che ti mette innanzi il principale e l'accessorio, caratteri belli e formati in lotta, senza saper come. No, questo ha perduto per noi i! suo interesse, e noi siamo curiosi di sapere come avviene sta formazione. Non vogliamo vedere il formato, ma la inazione; e allora noi cominciamo a seguire i passi di ■ila che si chiama evoluzione naturale e che diviene evo- ione aj'tistica, e quindi noi si va di forma in forma, col presentimento in ciascuna di una forma ulteriore. Cammi- niamo da formazioni inferiori a formazioni superiori ; o , quando la foraa manca , sentiamo non minore interesse a vedere le formazioni maggiori a poco a poco tornare indie- tro. Questo processo evolutivo è il segreto dei grandi ar- — /(3 — listi; voi lo indovinate nel poema omerico, ove Achille ed Ettore rappresentano due momenti di questa evoluzione. Voi^ lo trovate nella evoluzione dantesca, in quell'inferno, pur- gatorio e paradiso che sono l'evoluzione della vita, com'era concepita a quel tempo. Voi lo trovate nella grande epoca dell'arte nuova, nel vecchio Faust, che caccia da sé il pen- siero sottile e scolastico, e si rituffa nelle onde della na- tura, e riacquista le forze della vita, la facoltà di godere, la potenza di amare, e di forma in forma ritrova la smar- rita, ritrova Margherita. E cos'è Margherita? È la vita nella sua primavera, nella sua ingenuità, nella sua ignoranza, nella sua freschezza. Si, noi vogliamo vedere il cammino ascendente delle forme verso r umanità nel suo pieno ideale , o il cammino discendente quando la malattia si rivela, e le forme, come nell' inferno dantesco, vanno digradando sino all'ultima dissoluzione. Que- sto è il processo evolutivo. E le forme, quali sono le forme di quest'arte nuova? Non più categorie fìsse, non più forme semplici , eleganti e co- miche. Le forme sono quali sono le cose ; le lingue dotte , le lingue comuni, trattate dall'arte e quasi esaurite, sentono anch' esse il bisogno di ritemprarsi nelle lingue del popolo, più vicino alla natura , che ha passioni più vive , che ha impressioni immediate, e che deriva il suo linguaggio non dalle regole, ma dalle sue impressioni. L'artista cercherà e si approprierà tutto quel tesoro d'immagini, di movenze, di proverbii, di sentenze, tutta quella maniera accorciata, viva, spigliata, rapida, eh' è nei dialetti. Torniamo ora a Zola. Cosa è il suo Assommoirì È una evo- luzione a rovescio, dall'uomo all'animale, dall'ideale umano di Gervasia sino all'idiotismo, alla intelligenza cristallizzata, all'essere morale demolito, all'essere fisico incadaverito. Que- sto non è già materia di immaginazione ; è materia reale. Stanno li, in Parigi, questi esseri disumanati, in quella città che marche à la téte de ìa civilisation. E di simili ne tro- vate in tutti i centri civili; due terzi dell'umanità sono più - 77 - meno in questo stato. E quali sono 1 motori di questa Dateria? Sono un complesso d' influenze, che hanno formato |ueir ambiente, e che hanno formato Gervasia. Il processo 5 schiettamente evolutivo , e ci piace tanto il vedere , con juale acuto senso del reale, con quanta esattezza di osser- «razione scientifica sono colti tutti i passaggi di una deca- denza lenta ed inconscia, che trasforma V uomo morale come la natura trasforma l'uomo fisico, senza che l'uomo se ne avveda; sicché, in ultimo, Gervasia, paragonando il suo primo stato coir abisso nel quale è caduta, scoppia in un riso folle, e talora se la prende col buon Dio. Diamo un esempio di questa evoluzione. L'unità del racconto e V Assommoir, la bottega dei liquori spiritosi, la cloaca massima da cui derivano tutte le lordure. È là che Lantier preparava l' abbandono della compagna^ È là che Coupeau tra i cattivi compagni dichiarava il suo affetto a Gervasia. È là che Coupeau, deturpato dal vino, fu ucciso dall'acquavite. È là che Lantier condueeva le sue vit- time, che egli chiamava amici. Là, in quel ritrovo di oziosi, vivaio di ladri e di assassini. Questa è la sala di papà Co- lombe, che la prima volta si offerse alla vista di Gervasia, la quale presentiva colà la rivalità di una donna e il tra- dimento dell' uomo. Un sabato Coupeau promette a Gervasia di condurla seco a teatro, e far la cena insieme. Il danaro della settimana voleva spenderlo così, e Gervasia, già deca- duta, non trova nulla a dire. Aspetta, aspetta. E Coupeau non viene. E la fame le tor- "\va lo stomaco: non regge più. Piove a dirotta. E cosa im- :ta? Ella pensa: — A-WAssommoir deve stare costui. — E inge aìV Assommoir ed è li per spingere l'uscio. Ma pen- : — Cosa diranno di me? Una donna in questo luogo! — o ritrae. Ma piove, piove. E torna e si ritrae, finché non IO più e trova subito il sofisma per coonestare: — Infine, Mo una moglie che cerca il marito. — Entra e trova Cou- lu in un cerchio di ebbri. Ebbro lui per il primo. Lascio .1 «foL'hi, i motti, le allusioni. Coupeau dice infine: — Bevi — 78 — un po' ; un goceetto ti sazia la fame. — Prega di qua, spingi di là, Gervasia beve l'anisetta di Coupeau come beveva l'a- nisetta materna. E se ne sente confortare, e vede portare in giro un liquore che sembrava oro, e la macchina che le stava alle spalle le infiamma i nervi, la ubbriaca prima di bere. Beve , e poi beve , e poi beve ; ella è già ebbra tra ebbri. Povera Gervasia ! Aveva istinti , non aveva qualità, non aveva forza di resistenza. Questo processo evolutivo, condotto con una coerenza ed una costanza unica, desta la nostra ammirazione. E non è meno potente, in questa evoluzione, lo stile, che è impersonale, stile delle cose. La materia è calda da sé; non le è bisogno sguardo d' artista. Abbellimenti , belletti , perifrasi, figure, questo dizionario delle vecchie forme qui non ha lasciato alcun vestigio. Col tipo è andata via ogni esagerazione di frase. L'artista, colla sua morbosa ingerenza, non è più il prete, posto li fra l'uomo e Dio; il lettore en- tra in comunione immediata colla cosa. E non perciò manca l'ideale. Gli è solo che 1' ideale non nasce da una vita ar- tistica soprapposta e mescolata con la vita naturale. L'ideale è nelle cose, dalle quali escono lampi e guizzi di sentimenti umani. In questo mondo dove l'uomo scompare e la bestia appare , sono interessantissimi i pochi e rari e fuggitivi sprazzi umani, non accompagnati, non sviluppati dalla pre- senza dell'artista: sarebbe una profanazione. Prendiamo qualche esempio. Nella stanza dell' albergo Bon- coeuì\ in mezzo alla desolazione, al presentimento dell' ab- bandono, un raggio di sole peneti'a illuminando. Mentre il pianto e i singhiozzi soffocano la madre, due bambini dor- mono nel riso della pace. Un poeta direbbe subito che quel raggio di sole e quella celeste pace è un'ironia. Zola non dice nulla. È la cosa che parla sola. C'è anche Lalla, fan- ciulla di otto anni, che ha visto morire la mamma sotto le mazzate del padre ubbriaco, che prende anche lei ciascuna sera le frustate dell' ubbriachezza , che fa da mammina lei alle due piccole sorelline, ed è tutta ordine, tutta nettezza. — 79 — *ta previdenza; e non ha altra espressione dell'anima se n due occhi neri, pensosi, che talora ingrandisce quando alcuna cosa esce dall' abitudine e la sorprende. Oramai è usa al puzzo dell' acquavite, foriero delle frustate. Ma una sera entra la buona Gervasia, che talora le era scudo contro il padre, e sente l'acquavite, la sente dalla bo2ca di Gervasia, e ingrandisce quegli occhi neri pensosi. Quanta materia di osservazione , quanta commozione in quella Lalia , che non parla e guarda. Questo è l'ideale delle cose. E ci e anche come un filo d' argento in questa trama ver- minosa; ci è come una traccia ideale dal principio all'ulti- mo. — Goujet è un bravo operaio, cresciuto innanzi al senno, come direbbe Boccaccio, di una intelligence dure, cervello di bambino in un corpo di Ercole. Sotto gli occhi di una madre dabbene e severa non ha conosciuto ancora altra donna «he Gervasia. E la vede lì così buona presso il marito ma- lato , che ella non aveva consentito di mandare allo spe- dale , e che vegliava dì e notte , spendendo intorno a lui . tutti i suoi risparmii. Gervasia gli dice un di: — perchè non ; prendi moglie? — E lui: — dove troverei un'altra Gervasia? — Così nasce questo amore fanciullesco. A Goujet giunse la jce di una prima caduta di Gervasia e non era vero ; ci era l' apparenza del male , non ci era ancora il male. Il quar- tiere diceva che il male era avvenuto solo perchè ce ne era r apparenza. Si vedono, e non si dicono una parola, e cam- minano finché si fermano senza intesa , come per istinto , come per rispondere a quello che era già nei loro cuori ; si fermano in un bel pratello, sparso di fiori, il solo verde, il solo azzurro di cielo che si trova in questo racconto. E Goujet coglie fiori, e li getta nel panierino di Gervasia, e ride, ride ed è contento. Qnesto è V amore di Goujet E quando la trova per le vie di Parigi, e vanno a casa, Gervasia si getta come affamata sulla cena, e saziata la fa- me sta lì come donna che si sente in potere di un uomo. Goujet prorompe : je vous aime, Gervasie. Je vous aime aussi, dice ella e fugge. Goujet era sempre quello; poteva — 80 — dire je vous airne e la sapeva già degradata. Ma lei, quanto era mutata! poteva rifare la sua vita, poteva dire a Goujet: je vous aime ? Innanzi a Goujet la donna decaduta sente la vergogna, fugge dal suo petto il guizzo di un ultimo sen- timento umano. L' uomo volgare non intende questa fuga di Gervasia ; poteva là, in braccio a Goujet, mi disse un giorno qualcuno, finire la sua miseria e la sua degradazione; e colui si mostrava meno uomo di Gervasia, che nella sua fuga ritrovava il suo sentimento di donna. Potrei citare parecchi di questi tratti, ove dal grembo inconscio della natura scaturisce V ideale umano, come acqua- dalia fonts. Ma il tema è lungo, abbrevio. Dico solo : vedete come Gervasia muore. Ci è in quel mondo anche il becchi- no , ubbriaco sempre , anche portando i morti : in questo racconto quasi tutti sono ubbriachi. Ma è un ubbriaco buon compagnone e allegro; il suo nome di quartiere è Bibi la Gaieté, Bibi-l'-allegria. Il morto è per lui una pratique : egli dice : je vais emballer ma pratique. Che emozione in questo linguaggio volgare! E prende il corpo di Gervasia, co- stui che si chiama le consolateur des dames: e parla fami- gliarmente al cadavere, e dice: faù dodo, ma belle! La culla e la bara confuse nella mente ubbriaca, l'ubbriachezza dirim- petto alla morte, come fa la plebe. Questo è l'ideale delie cose. Concludiamo. — Qual è il vostro giudizio di Zola ? — Un tal critico dice : — De Sanctis non lo lascia intendere, ma ha una predilezione per Zola; Zola è un progresso anche dirimpetto a Manzoni ; Zola è più grande di Manzoni.^ Che torre di Ba- bele in questo parole ! come in certuni la critica è nella sua infanzia ! — Che cosa ha a fare il progresso delle forme con la grandezza dell' ingegno artistico? Manzoni è geniale, Zola è un ingegno potente che non sale fino al genio. Egli non è un creatore di arte nuova, e neppure un pre- cursore come si tiene. È un fenomeno, o se vi piace me- glio, un sintomo. È il pittore della corruzione. Il bel mondo dell'arte ideale va in isfascio; e Zola raccoglie le macerie e te le butta sul viso. È la conclusione ordinai'ia di ogni - 81 — (lemoUzione, non è il principio di un nuovo edifizio. Il suo mondo animale è ottuso; Zola non intravede niente al di là. I precursori sono come la via lattea ; lasciano una trac- cia luminosa; i posteri più tardi in quella luce scopriranno le stelle. Zola non è il precursore del nuovo ; ma è il bec- chino dell'antico. Nuove sono le forme sue dell'arte attaccate al cadavere del contenuto. Volete voi sapere quali sono i precursori ? Precui*sore è Vico , il vero padre di questa nuova arte , il cui mondo non è tanto una logica ideale, come credeva la filosofia tedesca , che si vantava continuatrice di Vico : il suo mondo è filologico, storico, psicologico, positivo, con- creto, opposto alle idee innate, alle tesi astratte, cartesiane. E la scienza fondata suH' osservazione e sul reale che è la continuatrice di Vico, e Vico non è ancora esaurito; il se- calo prossimo sarà la sua continuazione. L'uomo incompreso al suo tempo portava nel suo petto l'idea di due secoli. E un altro precursore è Goethe ; e cos' altro questo mondo nuo%'o dell' arte , se non il vecchio Faust ringiovanito, che di forma in forma ritrova la vita? La scienza ha volto le spalle agli ideali teologici e metafisici, ed ha cercato la ve- rità nello studio della natura. E 1' arte volge anche lei le spalle alle costruzioni ideali e cerca nella natura nuovo sangue. Un giovanotto venne ieri a me: — Professore, voglio un biglietto: desidero sentirvi. — E perchè? — dissi io — Per- chè voglio che mi spi«*gate il verismo. — Eccomi a soddi- sfare questo giovanotto. Verismo, idealismo, realismo, dottrinarismo, spiritualismo, materialismo, e tutte queste parole che finiscono in ismo^ mi sono sovranamente antipatiche. Mi sembrano aggettivi peggiorati nel sostantivo, una esa- gerazione, una caricatuia nel loro sostantivo. Voglio il puro e non il purismo, la dottrina e non il dottrinarismo, spirito e non spiritualismo, materia e non materialismo, vero e noo verismo. Questi nomi non corrispondono alla verità delle De Saxctis— Manzoni e ter Mi varii — Voi. IL 6 — 82 - cose, la natura è più ampia e non può essere compresa ivi dentro ; è il cervello limitato dell' uomo, che non può ab- bracciare il tutto, e piglia una parte e quella chiama il tutto. E se io volessi ora lasciare qualche ricordo alla gioventù, dico che il momento della nuova arte non è più contem- plazione, il pensiero impotente di Amleto, ma è azione, è il Faust rifatto giovane; e dico che il motto di una arte seria è questo: poco parlare noi, e far molto parlare le cose. Sint lacrimae rerum. Dateci le lagrime delle cose e rispar- miateci le lagrime vostre! Un'appendice. È chiaro che in questa conferenza l'ultima parte, che è la conclusiva, potè essere appena abbozzata. Dopo due ore e mezzo di discorso non ne potevo più. E non mi fa mera- viglia che alcuni mi abbiano frainteso, vedendo in queste ultime conclusioni una specie di eccletismo , secondo quel motto : Tous les genres soni bons, hors le genre ennuyeux. L' eccletismo è la tolleranza e la libertà di coscienza; è la prima vittoria delle idee nuove. La Riforma vinse, quando dopo lunga lotta acquistò il suo dritto di cittadinanza ac- canto agli altri culti. Dite oggi ; idealismo, realismo , poco importa: divertiteci, non annoiateci, ecco quello che importa; dire questo è già una vittoria per i principii nuovi. Ma l'eccletismo troppo continuato è uno stato pericoloso dello spirito. I più ci stanno, perchè non vogliono darsi il fastidio di studiare e formarsi un' opinione ; errando tra il si e il no, giungono all'indifferenza, che è l'anemia dello spirito, il tarlo della nostra società. E l' indifferenza si pro- paga come la peste in tutti i rami dell' attività umana, re- ligione, filosofia, scienza, arte politica. Capisco che in questi tempi di transizione, dove il vecchio Ila ancora una gran forza di resistenza, ed il nuovo mesco- lato con elementi impuri non ha ancora una posizione chiara innanzi al maggior numero, l'eccletismo è una necessità, — 83 — mentre i lottatori combattono con varia vicenda. Bisogna conquistare la platea, cioè il grosso pubblico, abbagliato dagli splendori del passato, e non ancora ben chiaro delle nuove tendenze. Nella scienza sono venuti tra i realisti cosi illustri cultori che la partita si può dire guadagnata. Nel- l'arte non sono comparse ancora stelle di prima grandezza, ed è già un gran passo costringere la platea all'eccletismo. Ci è ancora nelle nostre idee e nei nostri costumi quella che io ho chiamato la malattia dell'ideale. E molti sono i malati, sopratutto in Italia, e sopratutto in politica e in arte. E permesso l'eccletismo al maggior numero. Ma non è permesso a quelli che combattono. Io non sono stato mai un eccletico. Ho esposto le mie idee sempre con la maggior chiarezza e determinatezza. E chi mi ha seguito nella mia vita intellettuale , vedrà che sin da quel tempo eh' Hegel era padrone del campo, io ho fatto le mie riserve, e non ho accettato il suo apriorismo , la sua trinità, le sue for- mole. Ma ci sono in Hegel due principi!, che sono la base di tutto il movimento odierno, il divenire^ base dell' evolu- zione (Entwickelung), e Vesistere, base del realismo. Il si- stema è ito in frantumi. Ma questi due principii lo colle- gano con l'nvvenire, Qualcuno pi'etende che io sono passato nel campo dei rea- listi, e qualche altro che io ho fatto ciò per vezzeggiare le moltitudini. Il qualcuno non conosce il mio intelletto , e il qualche altro non conosce il mio carattere. La verità è che io non sono un sistematico. Il sistema per me è una verità unilaterale, non è tutta la verità. Perciò aborro da'sistemì, pur riconoscendo la loro necessità. Il sistema nasce da una nuova tendenza che si manifesta in opposizione al passato. La quale, ridotta in sistema, si at- tribuisce un valore assoluto, e nel calore della lotta vi ag- giunge l'esagerazione e l'intolleranza della passione. Il si- stema è necessario, perchè gli uomini sono fatti così, e per pigliar bene la mira debbono chiudere un occhio. Suo con- trapeso è il buon senso, che, presto o tardi, piglia il suo pò- — 84 — sto. Il mio temperamento intellettuale non mi ha reso mai inchinevole a opinioni estreme. Sotto le varie forme della mia esistenza sono stato sempre centro sinistro o sinistra moderata, cosi in politica come in arte Perciò aborro dai sistemi e dalle loro esagerazioni. Il realismo in arte oggi ha il carattere di una reazione sfrenata, È un fenomeno di poca durata ; il buon tempo verrà. Il mio realismo lo esprimo in poche parole. La sua sostanza è questa che nell'arte bisogna dare una più larga parte alle forze naturali e animali dell'uomo, cac- ciare il réve e sostituirvi l'azione, se vogliamo ritornar gio- vani , formare la volontà , ritemprare la fibra. Il realismo che somigli a un' orgia, è poesia di vecchi impotenti e vi- ziosi, non è restaurazione di gioventù. Veggasi la mia Scienza e Vita. E la forma del realismo è questa, ch'ella sia corpu- lenta, chiara , concreta , ma tale che ivi dentro traspaiano tutti i fenomeni della coscienza. L'uomo deve fare, non dire, quello che pensa. Ma nell'azione dee trasparire il suo pen- siero , come nei moti dell' animale traspare il suo istinto. Questa è la forma obbiettiva, la vita delle cose. L' artista è come il grande attore che obblia sé e riproduce il per- sonaggio tal quale natura lo ha formato. Galileo, precursore del realismo anche in arte, chiamava questa naturalezza e semplicità. Perciò chiamava divino l'Ariosto ; perciò gli era antipatico il sentimentale e rettorico Tasso. Per una razza fantastica, amica delle frasi e delle pompe, educata nell'arcadia e nella rettorica, come generalmente è la nostra, il realismo è un eccellente antidoto. IV. Le « Ricordanze » del Settembrini. [E la prefazione alle Bicordame della mia vita di Lrioi Settem- BRiHi , pubblicate postume, Napoli, Morano. 187y, e in tutte le edi- zioni seguenti presso lo stesso editore. Del Settembrini il De-S. avea già discorso in Nuovi saggi critici, pp. 227-2f'4 , Settembrini e » suoi critici, pp. 438-445, Parole in morte di L. S. — Sulle Ricordame, vedi anche 0. Gverkini, Brandelli, Roma, Sommaruga, 1883, IV, 63-69; e cfr. il volume di Silvio Spaventa, Dal 1843 al 1860, Lettere, scritti, documenti, Napoli, Morano , 1898. ] Il 48 e il 60 sono già lontani, e quelli stessi che soprav- vivono, non veggono già più quei tempi che a guisa di una storia antica come quella di Napoleone o di Robespierre. Si è fatto tanto cammino, che anche i principali attori non li comprendono più e non li sentono. L'indirizzo delle opi- nioni è mutato , i bisogni sociali preoccupano tutti , una nuova generazione, che si dice positiva, c'incalza; e quando vogliamo cercare un rifugio in que' bei tempi eroici, li tro- viamo vacillanti nella memoria, irrigiditi nel cuore. Man- cata è quella poesia e non è sorta ancora la storia. Queste Ricordanze non sono una storia. La storia è di là da venire ; e il predestinato storico , se vuole non solo comprendere ma sentire quei tempi, li cercherà nei docu- menti contemporanei, gazzette, polemiche, ricordi, storie. Tra questi documenti quello che gliene darà il sentimento — 86 — più vivo e più sincero sono le Ricordanze di Luigi Settem- brini. Ivi troverà un frammento, un episodio della sua fu- tura istoria, ma tale, che gli sforza 1' immaginazione, e lo gitta in quel passato, come tra uomini vivi e presenti. Queste pagine sono scritte giorno per giorno , e a poca distanza, secondo le impressioni momentanee, e in momenti di concitazione geniale ; sono un vero giornale della vita. Scritte da un uomo eroico, che, narrando sé stesso, piglia una viva pai'tecipazione agli avvenimenti, attore e testimo- nio. La sua bonarietà, la sua semplicità, la sua fede viva, i suoi affetti di padre e di marito , le stesse sue esagera- zioni che non hanno fiele, e nascono da cuore amante, te lo rendono simpatico , ti ammaliano , e tu prendi interesse insieme per le cose e per la sua persona. Luigi Settembrini fu innanzi tutto un patriota. Trovò nella sua famiglia le memorie del novantanove e l' imma- gine più fresca del ventuno, carbonari, patriotti, martiri, oppressori, Borboni e Austriaci. Rifece in sé suo padre, ebbe quegli amori e quegli odii, giovinetto ancora. Nell'età adulta, la coltura e 1' ambiente lo ringagliardì in quell' indirizzo. Crebbe nemico di preti , di tiranni , e di stranieri, con un amore impaziente della unità e indipendenza nazionale. Fece suo Dio la patria, e da quello presero norma e misura tutti i suoi sentimenti. Così si andò formando il suo carattere ; così si preparava attore convinto e appassionato nel qua- rantotto e nel sessanta, continuando suo padre. Si può dire che questa sia la storia più o meno simile di tutti gì' italiani colti e onesti in quell'epoca memorabile. Era il colore del tempo. Si leggeva in tutti i volti la ri- bellione, r odio alla tirannide e allo straniero, l' Italia una e libera, non so che cupo o settario. Settembrini rassomi- gliava a molti ; e molti rassomigliavano a Settembrini. Vo- glio dire che questo era il carattere del secolo , e se vo- gliamo intendere Settembrini , dobbiamo cercarlo in quello che gli era proprio. Chi legge queste pagine si sente subito innanzi a un ga- lantuomo. Un bel titolo, di t?ui si poterono allora gloriare Vittorio Emanuele e il Marchese d'Azeglio. Oggi s' è fatto progresso, e se sei un galantuomo ti battezzano un bonomo, uno scemo, un uomo di buona fede; e i bricconi si vantano di canzonarti, come se non fosse maggior vergogna a loro, e confessione di bricconeria. Settembrini aveva un po' aria di scemo, di bonomo; e se ne inquieta e se ne difende, e dice più d' una volta che faceva lo scemo ; come volesse dire: poteva parer cosi; ma non era; anzi... Si vede, che quella sua aria di scemo , gli dava noia un pochino. Era un galantuomo, e vuol dire eh' era uomo sincero. La sincerità è il pudore dell'uomo, come il pudore è la since- rità della donna. Sincera è la sua parola e il suo sentire e il suo pensiero : e dietro non e' è fine e non e' è interesse che si vergogni di comparire. Quest' assenza compiuta di fini e interessi personali, questa purità lo innalza fra' con- temporanei. Vedete le Memorie del Montanelli (1). Ivi è una pretensione, una vanità che vuole gonfiare la persona, e riesce al fine opposto. Settembrini non si accorge nep- pure di esser grande e di esser buono. Questo gli par cosa naturale. Ed era davvero in lui natura. La sua modestia non è virtù, è innocenza, una inconsapevolezza spensierata del suo valore. Se gli stranieri sparlano di Ferdinando se- condo, si sente pungere. Se liberali impazienti mettono in- nanzi Marat, se ne sdegna. Se vogliono domandi grazia af Re, sorride. Il suo Raffaele, la sua Giulia, la sua compa- gna lo inteneriscono, solo a nominarli. Non domandate i perchè. Non li dice, perchè non li sa, e non ci pensa, e gli pare che non potea essere che così , e che tutti farebbero n quel modo. I»i qui nasce V infinita semplicità e spontaneità del suo dire, quasi fanciullesca ingenuità. Rara è l'analisi. Piglia le cose cosi come gli si porgono n prima tMiMidatiira e a prima (1) Sulle MfMori» del Montanelli, il De-S. scrib«e due articoli nel fiemontt del febbraio 186<">, rucrolti poi nei Saggi critici. — 88 — impressione, e le rende intere, con quel calore, e con quella luce che gli viene dall'anima. Ed è soddisfatto, non ci torna più, non ci si ferma, non analizza, non accarezza, non ri- cama. Di questa maniera semplice e rapida era perduta la memoria. Settembrini la trova senza cercarla, e non la trova già nell'aureo trecento, e non in questo o quello scrittore; la trova nella sua natura, nel suo modo di sentire e di con- cepire. Vero è che lo studio de' trecentisti gli ha dato il materiale tecnico. Ma quella forma 11 non è imitazione, non è scuola, è lui. E non si scrive a quel modo se non da uomo tutto impressione e non uso a riflettersi, a pensarvi su. Questo è quel fanciullesco e quasi primitivo, così caro ne' trecen- tisti, e che in lui è la grazia della sua natura. Scarsa era la seconda vista, la riflessione, e usava chiamare trivella quell'approfondire e analizzare Je cose ; di che non sentiva bisogno. Suppliva con alcune qualità geniali, concesse a po- chi : intuizione pronta , sicuro buon senso , o buon senno come dice lui, rettitudine di gusto e di giudizio. Così tutto gli esce vivo e vero; vita di superficie, ma vita. Molti dotti getterebbero a mare le loro dottrine, pur d' avere quel se- creto lì. Che ne dice il mio amico De Gubernatis ? (1). Questo naturale eccellente era illuminato da un cotal mezzo riso che stava fra la bonomia e la canzonatura, ed era tut- t'altro che di uomo scemo, come pareva a' più Vero è che non conosceva l' individuo nel suo particolare, e perciò gli mancava la profondità dell'odio e del disgusto ; subiti sdegni placabili, frizzi, antipatie, erano i suoi modi; spesso un motto era una pittura. La sua bontà lo tirava a giudicare buono jl primo che gli si off'riva, e leggermente lo faceva suo fa- (1) Allude qui alla critica acerba, ma non ingiusta, che il De Gu- bernatis fece delle Lezioni di letteratura del Settembrini nella Jiivi- ita Europea , fascicolo di aprile 1873 , Ricordi biografici , § XXII , Luigi Settembrini, specie a pp. 336-342. Il XXI di questi Ricordi bio- grafici era consacrato al De-S. , del quale il De Gubernatis faceva grandi elogi. — 89 — miliare, anzi confidente. Di rado si pentì: perchè quelli co' quali aveva a fare , erano gli uomini più eletti del paese. E, come in quell'uomo semplice e modesto non entrava in- vidia, e volentieri prendeva il secondo posto, il "^uo animo si apriva a' più dolci affetti, alTammirazioue e all'amicizia. La sua moderazione nel dir male si volgeva in entusiasmo, quando parlava degli amici. Perciò molti gli furono affeziona- tissimi, nessuno gli fu nemico. Sentiamo che in quell'anima non c'era fiele. Ma la conoscenza leggiera dell'individuo era in lui con- giunta con la viva apprensione dell* uomo in genere, come era in Leopardi, osservatore originale della natura umana, inetto a giudicare dell'individuo. Anche Setteoibrini aveva un talento raro di osservazione , che gli faceva cogliere le parti fisiche e morali di un individuo, riferendole a questo o a quel tipo d'uomo, con vivacità d'artista, anzi che con severità di storico. E in queste Ricordanze abbondano ri- tratti geniali, avvezzo a fare come il pittore, a porei in- nanzi gì' individui come modelli , e a spassarcisi un poco. Questa disposizione di spirito si rivelò principalmente Del- l' ergastolo, dove traduceva Luciano e dipingeva compagni. L' individuo, guardato a quel modo di artista, non gli poteva ispirare altro che un'amabile indulgenza. Indi quel suo mezzo riso canzonatorio , che voleva dire : — ti ho capito ; — non iscompagnato mai dalla bonomia. Gli sembrava un fare lucia- nesco, ed era il suo fare, quel suo ridere a mezzo, che gli errava perpetuamente tra le labbra , e che è spesso l' im- pronta di quell'uomo contemplativo che dicesi artista. Vedete nell'ergastolo. Si spassa a fare ritratti. Dico si spassa, perche ci mette un piacere di artista, anche a di- pingere ladri e omicidi. E come ne afferra bene i tratti ca- ratteristici! con parole impressionate, pregne di caricatura, di sarcasmo, d'ironia, di disgusto. Il Nasone (uu contadino abruzzese) è un ometto grigio, con certi occhiuzzi neri lu- centi e maliziosi, con un naso come tromba ; con una voce stridula e fendente, tartaglia strane parole del suo dialetto: - 90 - serba il suo tabacco in una pina selvaggia scavata, e di tanto in tanto ne versa un tantino sul dorso della mano , vi pone su il trombone e tira. « Costui è avaro, sudicio, schifo oltre ogni dire, ha un letto che sarebbe onorato se fosse chiamato canile : presta danari ad usura e ne ra- schia anche l'untume. » Pure il disgusto non è tale che gli vieti queir allegria artistica che viene dalla caricatura. Si mette innanzi i suoi compagni di stanza, e li squadra con quel cotal riso , e foggia de' tipi. Spesso li coglie nel parlare, e con vivezza napoletana li contraffa, e li fa par- lare con le loro frasi e con i loro modi e gesti e intona- zioni, sì che è un gusto a sentirli, e dimentichi T ergastolo come lo dimenticava dipingendo o traducendo il povero Luigi. Il ritorno era più crudele, e gridava: «La morte fa paura, e a me fa paura la vita , e troverei un po' di quiete nel nulla donde sono uscito, e dove ritornerò. Io fo come Giobbe, mi siedo sul mio letamaio ». E, dopo di essersi sfogato, con- chiude : « Ma seguitiamo a dipingere i compagni della mia cella». Con questi intermezzi ripigliava i ritratti, e ci sen- tiva piacere, e ci gustava l'obblio. Ecco il Giudice, un con- tadino abruzzese, un allegro matto, «secco, asciutto, senza barba, con l'aria, il contegno, il sussiego, la cravatta, le labbra strette del giudice criminale Scudieri, mio parente ». Ecco « l'omicciattolino di civile condizione, bruno, acceso, butterato, facile ad accendersi come un solfanello, pronto come una vespa». E quel bestione, rosso di peli, con tre denti in bocca ! Ma il prediletto è Pasquale , il calzolaio , giovanotto pervertito dallo zio, e dai compagni, innamorato di Lucia, ladro, omicida, camorrista, diede ed ebbe di brave coltellate, e ora mansuefatto conosce i suoi errori e li pian- ge. Il ritratto è tirato giù d'un fiato, e conchiuso con que- sto tratto di bonomia: «Mentre scrivo, egli mi sta vicino, seduto innanzi al suo deschetto, e tira lo spago; né potrebbe mai immaginare che io scrivo di lui e della sua bella Lu- cia ». Come ci si vede il piacere dell'artista e del brav'omo! Pure quel Pasquale gli maltrattava il cervello per tutto il — 91 — giorno ; e quando cominciava a dormire, ei lo svegliava con lo spietato martello « che mi ammaccava le membra ». Fu un refrigerio quando, attenuati i rigori, ebbe compagnia di soli politici. E venne il caro Gennarino, col signor Zio, un galantuomo di Cosenza , e il festevole Bellantonio, che Set- tembrini fece suo siniscalco: «un giovinastro alto, diritto, ben fatto della persona e con lunga chioma; ma un uccel- lacelo scapato, sventato, distratto, che parlando nel suo dia- letto pare un tartaro, anzi gestisce più che parla, e leva le mani in alto, e mugola inarticolatamente: che ora corruga gli occhi loschi e sorride, ora li straluna, e piglia un at- teggiamento goffamente tragico ; spesso in veste ed aria di gentiluomo, spesso tinto, lordo, affumicato, rabbuffato come un fornaio ; e fornaio era la sua arte ». È uno spasso a sen- tirlo nari'are le sue gesta. «Io sono il Napoleone di Reggio; venite a Reggio, dimandate chi è Napoleone, e tutti vi ri- sponderanno : e Francesco Bellantonio. — Una sera la si- gnora e la servetta sole sole passeggiavano, io le vidi , mi salta il pensiero di rubarmi la criata, me 1' afferro tra le braccia che pareva una piuma e scappo e me ne vo dietro a certi scogli. Poi mi ri' irai al forno e mi posi a dormire sopra una tavola. Stava facendo un sonno saporitissimo , quando mi sento i-ompere le ossa ; apro gli occhi e vedo la signora che con una pala del forno mi menava forte , ed io strillavo più forte per fare capire che mi facea male assai. — Sapete chi è Bellantonio? È più di Poerio che fu condannato a ventiquattro anni, e Bellantonio a l'ergastolo». Ecco ora un tratto finissimo : « Gli capitarono le lettere di Annibal Caro ; ed egli venne da me , a stenti compitando la parola Conciossiacosacché ; mi dimandò: — Che significa questa santa diavola di parola? — Io non sapendo che rispon- dergli per farglielo capire, me ne uscii pel rotto della cuf- fia: — É una cosa simile al tuo santo diavolo». Queste memorie non parlano quasi di altro che di carceri e di carcerati. Sono i ricordi del prigioniero. C'è la Vica- ria, e Santa Maria Apparente, e San Francesco, e Santo Ste- — 92 - fano. E sarebbe insopportabile, se il prigioniero non avesse questa divina libertà dello spirito, che ci sforza e ci tira e ci distrae appresso a lui, e talora ci fa dimenticare le pene, e talora anche ci rallegra. Questo Bellantonio è un capola- voro di brio comico; e si fa voler bene; e Settembrini con- chiude : « Povero Francesco ! quanta pena mi fa a vederlo nell'ergastolo ». Le narrazioni e i dialoghi sono cose vive come i ritratti. Ridotto coi soli politici, racconta la loro vita quotidiana con lepore e con brio. Leggete quella parte che comincia: ^L' er- gastolo è la casa dei sogni». Con acutezza è notata l'in- fluenza di quella vita ergastolana sui costumi e sui carat- teri. Nasce una specie di uomo nuovo , l' ergastolano. E la novità gli e come un solletico all' immaginazione, lo rallegra nella pena. «Se si ricomincia a parlare, passeggiare (passeg- giare mo', si passeggia come un leone nella gabbia, si danno sei o sette passi e si dà la volta)...» Com'è gustosa questa pa- rentesi! Lo vedi con quel suo risolino bonario e canzonato- rio nella pena! La poesia operava in lui quello che il ca- rattere nel signor Michele Aletta, un vecchietto di sessan- tadue anni, arzillo e allegro. Udite questo dialoghetto: « — Io voglio uscire, debbo uscire ed uscirò. — Non usciremo, don Michele. — Ed io vi dico che usciremo subito. — Usciremo morti. — No, vivi., per Dio: mi han veduto nel mio paese due volte con la bandiera in mano , nel 1821 e nel 1848 ; mi rivedranno cosi la terza volta, e diranno come dissero, costui non muore più.— Sì, ne usciremo dopo trent'anni. — No, dimani, oggi, più tardi può venire un vapore a pren- derci. Il mondo cangia in un momento. — Noi siamo morti. — Siamo vivi, ed io vivrò sino a novant'anni, lo sento, cosi sarà. Voi non mi fate paura, none, none! Non ci facciamo il malaugurio! — ». E Settembrini conchiude: «Egli non pensa, ma spera. Che disgrazia è pensare! ». In quella vita tutta artistica, evocata e abbellita dall'immaginazione, s'insinua un filo di mestizia. Lo svago è grande, ma con frequenti — 93 — ritorni sopra di sé. E inchina la fronte e pensa. Ciie di- sgrazia è pensare! E Settembrini aveva questa disgrazia. Non era solo un artista. Ci eia in lui l'uomo. C'era fede e sentimento. Credeva in Dio, e più nella patria e nella libertà. Era la fede del secolo. Ma ne' più era un credere ozioso e pigro. In lui era la sua vita. Giovane, prese moglie; aveva in vista la famiglia , era avido di affetti domestici , aveva per con- corso una cattedra; tutto io consigliava a starsi quieto. Ma che ? Aveva nel cervello il catechismo di quel capo ameno di Musolino , battezzato catechismo di Mazzini , e cercava proseliti , e cospirava. Aveva fede di santo e di martire , disposto più a soffrire fortemente che a vincere; gli man- cavano tutte le qualità che assicuravano il buon successo. Cospiratore inabile, per poco discernimento degli uomini e per soverchia buona fede , cadde presto nelle unghie della polizia, tirandosi appresso i suoi amici. La descrizione di quella prima prigionia è piena di brio e di lazzi, tutti giovani, spensierati, confidenti : si rivela già il suo talento artistico. Venuto il quarantotto , non si fece innanzi a domandare il premio; rimase un a parte, con la testa a posto; quando, in quel ribollimento di cupidigie e di passioni, la girava a' più savi. Concesso appena lo Statuto, già si voleva svolgerlo; e, tra svolgere e non svolgere, si venne alle fucilate. «Per quale idea s'è venuto a questo? — grida Settembrini — Pel giuramento, se si doveva svolgere non svolgere lo Statuto. avvocati, anzi paglietti, voi meritate la servitù!» Se Luigi fosse stato uomo di azione, scaldato da una buona ambizione , avrebbe preso i primi posti nel governo, lui autore della Protesta e popolarissimo. Ma era più vago di vedere che di fare, e contento di ve- dere le cose riuscite a bene, dice con semplicità: «Tornai in casa mia; tornai alla mia professione dell'insegnamento, )rnai alla mia vita consueta lontano dalle adunanze e dai rumori, e raramente uscivo di sera ». Ecco perchè serbava la testa fredda, vedeva giusto e lungi, vedeva con chiarezza — 94 — grande , tra quello svolgere , la quistione italiana. Fu un capo-divisione per due mesi, e dice: «In quei giorni ebbi un continuo capogiro ; da professore diventato segretario , non mi raccapezzavo più ». Vedeva la via torta, l' anarchia brutta , tutti quei ministri avvocati , che , chiacchierando sempre di legalità e di libertà e avendo fede solo nelle chiacchiere, facevano andare ogni cosa a rotoli; vedeva , e non era udito, e tornava a casa, senza influenza sull'an- damento pubblico. Nella fatale notte del 14 maggio, quando si fiutava già barricate e fucilate, dice : « Ero stanco di la- voro, di noia, di disgusto; mi sentivo un brivido di febbre; andai a casa, mi misi a letto e mi addormentai». Si di- sputava sulla formola del giuramento, e quel capo scarico di- ceva tra sé : « Si verrà al partito più semplice , non giu- rare, e finiranno tutte queste voci ». E, su questa sicurezza eroica, andava a casa e si addormentava. Non pensava che allora era più facile abolire il giuramento, che trovare la formula. Luigi, con quella fede e con quel buon senso, non fu che spettatore. Ma quale spettatore! come narra, come dipinge bene cose e uomini, con quale magia ci rimena avanti vivi que' tempi! e come giuste, come gagliarde sono le impres- sioni ! Sentite questa : tutti i ministri erano oppressi dalle petulanti e superbe dimando di uomini che parevano ub- briachi e volevano essere uditi per forza, e credevano la li- bertà un banchetto a cui ciascuno dovesse sedere e farsi una scorpacciata. Salivano tutte le scale, strepitavano in tutte le case; era un' anarchia brutta. «Intanto la plebe diceva: e se non si lavora e noi stiamo digiuni, che libertà è questa ? Prima il Re era uno, e mangiava per uno; ora son mille e mangiano per mille. Bisogna che pensiamo a' fatti nostri, anche noi ». Simile i contadini, peggio i soldati. « Stavano cagneschi contro tutti i liberali; ma come conoscerli? dal vestito, e li chiamarono i nazionali ».\\ colore era diven- tato il passaporto agli ufiìci. Voi parlate sempre di colore, e mai di sapore , gridava Settembrini. E quando sentì la — 95 - prima volta dalla plebe gridare Viva l'Italia!, dice: «Quella parola Italia, che prima era profferita da pochi e in segreto, quella parola sentita da pochissimi . e che ei'a stata V ul- tima e sacra parola profferita da tanti generosi che mori- rono, udita allora profferire e gridare dal popolo mi faceva sentire un brivido per la schiena, pei visceri, pel petto, e mi sforzava alle lagrime ». Questo era l' uomo nato a patire più che a fare, nato al luartirio più che alla vittoria, santo tra'santi, di una fede tanto più ardente quanto più pura di ogni interesse perso- nale. Andate le cose a male, i gridacchiatori, i piazzaiuoli si dileguarono, e chi s'è visto, s'è visto. Lui che stava a casa, si messe a cospirare di nuovo sotto al naso del Bor- bone vittorioso; là sul Vomero, eravamo in cinque o sei , i'ogni risma. Fu la prima volta e sola che fui in convegni 1,'reti: la natura non mi tira alle sette. Mi parve bello il pericolo, quando tutti si nascondevano. Guardavamo lui sor- ridente, che trovava tutto facile. Si facevano i più matti delirii: porre una mina sotto Palazzo Reale pareva un gioco. Mignogna(l) era il più matto. E si fini con la bomba Fauci- tano (2). Questa era la setta dell'Unità Italiana, che fece tanti martiri. Settembrini ci capitò per il primo , ed era natu- rale. Io lo chiamavo il facilone. Quando ci presentava un nuovo, e diceva: — Questi è dei nostri —, mi venivano i brividi, f'no di questi nostri mi si messe attorno, chiedendo quat- trini; altrimenti, ehm! E non si saziava mai. E lo chiama- vano il cavaliere. Un d'i gli volsi le spalle e avevo una gran paura che mi denunziasse. Ma non fiatò. E (oY^e lo teneva peggiore che non era. Ma cosa c'entro io qui? Parliamo di Settembrini, il povero martire che ricominciò la via delle (1 ) Nicola Mignogna; cfr. G. Pupiho Carbo5elli, N. M, nella $toria dell' unità d' Italia, Napoli, Morano, 1889. (2) Salvatore Faacitano, condannato poi col Settembrini a Santo Stefano. — 96 — carceri. E ora ricorda e descrive, e dipinge, con quel viso sorridente. Tanta serietà di fede era in lui accompagnata con molta vivacità di sentire. Aveva la fede ed il sentimento degli spiriti religiosi. Leggete la sua lettera a Gigia, quando era in cappella. Quando il suo animo è al di fuori, ha il pen- nello in mano, e sorride. Ma quando torna in sé! quando si sente solo ! quando non ne può proprio più ! Hai innanzi i varii moti di quella ricca vita interiore. Ora è malinconia; ora è sdegno, è disdegno ; ora è disperazioue, ora cade in fan- tasia, e ritorna l'artista. Gigia, Raffaele, Giulia, gli uccelli, la marina, la sua casa di Posilipo , i giardini , il cielo , la tomba di Virgilio, tutto gli torna innanzi , tutto esce vivo dalla sua immaginazione. Soprattutto quel Raffaele non lo lascia più; è il più caro sogno tra i suoi sogni. « Sono stato lungamente a riguar- dare questo lungo spazio di mare , quest' isoletta vicina e quelle lontane , quei battelli dove vedevo muovere uomini, quel camposanto dove dormono per stanchezza di dolori al- cuni disgraziati compagni, e le onde deW m fecondo mare, e il cielo dipinto dalla benedetta luce del sole, e sentivo venirmi sul volto, entrarmi nei polmoni un filo d'aura vi- tale, che mi ha ristorato le forze, mi ha messo nell'animo quella dolce malinconia , che spesso ho sentito al suono di un istrumento musicale. Mentre cosi stavo , io sognavo ad occhi aperti, e mi veniva a mente il mio caro figliuolo che ora va scorrendo i mari, e che non so dove ora sia; e mi ricordavo quando lo vidi e lo benedissi l'ultima volta il 18 dicembre 1851 prima eh' egli partisse per Inghilterra. Chi sa che fa ora il povero figliuol mio, che patisce, e quanto patisce! chi sa se potrò più rivederlo! Egli ha diciotto anni; oh! quanto vorrei vederlo! Mentre cosi pensavo, e stavo per più profondarmi in questo doloroso pensiero, mi sono sen- tito una mano sulla spalla, e Gennarino mi ha detto: che guardi? — Il mare ed il cielo, ho risposto». Questo non era doloroso pensiero, come dice lui, ma te- nera malinconia, madre de' sogni. I dolorosi pensieri ci sono pur troppo. Si sente immalvagire tra malvagi, perde l'im- magine della virtù e della bellezza. Poi compatisce a quei malvagi , e se la piglia con quelli che non li educarono, e fa sermoni. Poi viene la noia, la stizza. « Lo studio mi di- sgusta, il far niente mi pesa, il conversare coi compagni mi dispiace, e non vorrei udirli pure, non vorrei vederli, ab- borisco tutti e me stesso. Prima, io ero un uomo di buona pa- sta, ora sono di pasta di cantaridi; per nulla mi adiro, vo sulle furie ». Gli si guasta il carattere , gli si inacerba il cuore, gli si oscura l'intelletto. «Io non sono più uomo ^ ma la centesima parte di un uomo: il corpo è grave, è stanco; nel capo non ho più lume, ma una tenebra oscurissima; nel cuore molti squarci profondi e dolorosi mi fanno male assai assai», E si ricorda il Petrarca, e conchiude: Non 8on chi fui: di me perì gran parte; (.Questo che avanza è sol languore e pianto. Finisce con due versi del Petrarca! Ricominciano le ne- nie, e finisce con una terzina di Dante! E conchiude: oh, vorrei non essere nato uomo! C'era in lui una vena letteraria che lo assiste consola- liice nelle maggiori strette. Eccolo fantasticare sugli uo- mini nel più vivo del suo disdegno. « Siamo tutti una mi- stura sozza di moltissima sciocchezza, di alquanta malizia, " di poche goccioline di senno. Che cosa è il vero? Il vero quel punto, quel corpo che non si sa se sia scuro o lu- minoso, mobile o immobile, se esista o non esista, intorno al quale dicono gli astronomi che gira il sole del nostra sistema planetario e gli altri soli. Io l'ho cercato e non l'ha trovato; io 1' ho amato e sono rimasto deluso. Foss' egli il dolore? foss' egli la morte? Oh, dovrò saperlo una volta. — Che cosa ho scritto? Io noi so, né voglio rileggerlo ». C'è del I^eopardi. Sono fantasie ch'egli non prende sul serio, come Leopardi le sue. Sono fantasie da cui germogliano Db Sakctis — Manzoni e scritti varii — Voi. II 7 — 98 — versi. Sicuro. Sente morire la sua mente, e fantastica e le fa il canto funebre: ciò che prova che la mente era più viva che mai, mentr'egli grida: è morta, è morta. Sembra che quella fantasia sul Vero lo abbia fissato, e che gli sia parsa bella e nuova, e la continua in verso. Ricorda, quando l'anima e la mente giunsero nel sole, e bevvero il Vero e il Bello a due vive fontane : D'onde talor piovono spruzzi in terra. Ora il sole è spento, e nel buio si vede solo una spada rovente I La spada del dolore E il solo Ver che esiste in mezzo al niente. La scienza è breve fosforescenza : la parola è una appa- renza, a cui gli sciocchi dettero polpa ed ossa; la ragione con un bocciuol di canna fa bolle di sapone, che si sciol- gono in gocciole di pianto : Quanto riso mi move Questo genere umano ! E invoca la mente perduta, perchè lo salvi da questa voce crudele : mia mente perduta, dove sei ? Salvami da costei. Cosi spoetava il nostro improvvisato poeta, tra Leopardi e Petrarca, e molceva l' affanno. Quando leggo Silvio Pellico, talora mi casca il libro, per quella monotonia di carcere e di pazienza. Ma qui leggi e leggi , divori lo spazio. Bene intoppi qua e là. Tutto non è uguale ; ora senti la fretta , ora la negligenza , ora non j*o che soverchio e dottrinale; qui ti pare che qualche cosa manchi; qui senti che la corda non suona bene, qui il let- terato mi guasta 1' uon.o. E che importa ? Leggi e leggi , — 99 - divori Jo spazio. Ci è una malia per entro a queste pagine, che ti rende gli oggetti vivi, mobili, rapidi, e danzano e ti circondano, e non ti lasciano requie. E chiudi, il libro, e quelli stanno lì, e non li puoi mandar via, e si fissano, prendono posto nella tua immaginaz'one. Aneddoti , fatte- relli, motti, arguzie popolari, il plebeo nella reggia , 1' en- tusiasmo nella plebe, la confusione delle lingue, le quaran- tottate, dolori e gioie, ingenuità e malizie, ritratti, fantasie, sermoni, illusioni, disperazioni, tutto questo non è stato, è oggi, anzi proprio ora : così fresco vien fuori. — Ma cosa ci s'impara? — dice uno. — Non ci è sugo, — dice un altro. — Fede, sentimento, sta bene ; ma la vista è corta. Fantasie, benissimo ; ma l' intelligenza , dov' è ? dov'è la trivella ? In verità , prese obbiettivamente , queste Me- morie non hanno grande importanza per lo storico e per r uomo di stato. — Così dicono i critici oggettivi, e mi rassomigliano qual- cuno che mi diceva candidamente: — Che sugo c'è nella poe- >;;n? oofia, ecc. Al paragrafo XXXII segue un paragrafo non numerato, col titolo: n nuopo Leopardi, che — 102 — l'editore avverte di avere ritrovato dopo, e formar séguito al pre- cedente. Ma né questo paragrafo ultimo era inedito , né forma sé- guito al precedente, e l'anello intermedio esisteva già stampato; co- me tra i manoscritti del De-S. abbiamo poi ritrovati altri paragrafi della monografìa. In un quadernetto , infatti , si contengono tre paragrafi coi ti toli: a Firenze, a Pisa, il Risorgimento , che dovrebbero portare i numeri da XXXIII a XXXV. Questi tre paragrafi furono stampati In un sol corpo in un articolo della Nuova Antologia, pubblicato il 15 ottobre 1879, pp. 612-622, col titolo: Leopardi risorto. In doppia redazione si trova anche fra i manoscritti il paragrafo seguente (che dovrebbe essere il XXXVI), col titolo: // nuovo Leo- pardi, già stampato nel fascicolo della Nuova Antologia del 1 luglio 1881, pp. 1-10. In doppia redazione esiste tra i manoscritti un paragrafo intito- lato Silvia ; e in una sola redazione un altro intitolato 1 nuovi idil- Hi- A quest' ultimo seguono due brevi cenni intitolati : Silvia , e a Recanati. Da un appunto appare che il De Sanctis aveva prima in- tenzione di far seguire al § XXXVI, Il nuovo Leopardi, il XXXVII, Silvia, e a questo il XXXVIII, Due idillii, e il XXXIX, Il canto not- turno del pastore errante. Fuse poi questi due ultimi in un solo, / nuovi idillii. Lo scritto su Silvia fu già pubblicato, dalla bozza più imperfetta nel giornale letterario il Fortunio , del 22 giugno 1893 ; come sul Pungolo, del 25-26 giugno dello stesso anno, fu pubblicato, anche da una prima bozza , un frammento dello scritto sui Nuovi idillii. Coi detti manoscritti, e coi fascicoli della Nuova Antologia, abbiamo ricomposto il séguito, che qui pubblichiamo, della monografia sul Leopardi, scegliendo le redazioni che ci sono sembrate per segni certi le ultime e piti compiute.] § XXXIII. A Firenze. Lieopardi, tornato di Bologna in Recanati gli 11 di no- vembre del 1826, vi dimorò sino al 23 aprile del 1827. Cosa fece in questo tempo, s' è visto. Curò la stampa del suo Pf^- trarca, lavorò intorno alla Crestomazia, oltre cose di minor momento. Appena fu in Recanati, già desiderava Bologna. Il 13 dicembre scriveva al Brighenti : sento qui un poco men freddo che a Bologna^ di corpo; ma d animo ho vn — 103 — freddo, che mi ammazza, e ogni ora m,i par mille di fug- gir via. Quel freddo dell' animo era la tristezza di una so- litudine continua e assoluta, come scrive il 9 febbraio. E s'aiuta, scrivendo lettere, o qualche articolo per il Ntiovo Ri- coglitore, cercando spesso notizie letterarie, ricordando con desiderio gli amici e le amiche di Bologna, soprattutto il Bri- ghenti e il buon Pepoli e l'amorosa Antonietta Tommasini. S' affaticò tanto intorno alla Crestomazia , che a' primi di marzo aveva già fatto lo spoglio di oltre settanta autori. Aggiungi le correzioni di stampa delle Operette morali che il fido Stella pubblicava in Milano. E, se si pon mente che qualche dolcezza gli dovea pur venire dall'usanza domestica, volendo egli un gran bene alla Paolina e a Carlo, e che di salute non era male, cessatogli anche qual mal d'inte- stini che lo travagliava a Bologna; si vede che quel suo freddo d'animo e quella sua tristezza di solitudine non si deve poi prendere alla lettera. Potea ben sentirsi tristo in certi momenti; ma la tristezza non era il suo stato normale in quel soggiorno di Recanati. E si vede anche dallo stile sciolto e ricordevole, se non affettuoso, cb'è nelle sue lettere. Di una qualche importanza sono le due ultime lettere che troviamo di lui scritte in Recanati. L'una è del 18 aprile, alla sua cara Antonietta Tommasini, in risposta ad una gra- ziosa ed elegante lettera, occasionata dal suo piccolo arti- colo stampato nel Ricoglitore. L'articolo non era altro che il suo Discorso in confutazione del Giordani , premesso al suo volgarizzamento dal greco di una orazione di Gemisto Pletone. In quel discorso Leopardi stima non inglorioso e non inu- tile il volgarizzare, contro la sentenza di Pietro Giordani ; loda Pletone, come vicinissimo agli antichi greci per bontJi di lingua ; e piglia occasione a magnificare la nazione greca che «per ispazio dintorno a ventiquattro secoli, senza alcuna intervallo , fu nella civiltà e nelle lettera il più del tempo sovrana e senza pari al mondo, non mai superata; conqui- indo, propagò l'una e le altre nell'Asia e Dell'Africa; con- — 104 - quistata, le comunicò agli altri popoli dell'Europa... all'ul- timo, già vicina a sottentrare a un giogo barbaro, e per- dere il nome, e per dir così, la vita, parve che a modo <1' una fiamma, spegnendosi gittasse una maggior luce ; pro- dusse ingegni nobilissimi , degni di molto migliori tempi ; e, caduta, fuggendo molti di essi a diverse parti, un'altra volta fu all' Europa, e perciò al mondo, maestra di civiltà e di lettere ». In questo tempo la G-recia faceva sforzi grandi per ven- dicarsi a nazione, accompagnati dalla simpatia dell'Europa civile. Un lampo di questa simpatia splende nel magnifico elogio, che Leopardi intuona alla Grecia a proposito di Ge- misto Pletone , lui alieno da distrazioni e da digressioni. Pure si astiene da qualunque accenno alla immane lotta. E questo par freddezza all'entusiastica Antonietta, e gli grida ehe i greci sono nostri fratelli. Leopardi risponde: «Anch' io riguardo i poveri greci come nostri fratelli,, e se più si fosse potuto dire in loro favore, lo avrei detto certamente in quel- l'articolo: nondimeno, considerato la impossibilità in cui siamo di parlare liberamente, mi pare di averne detto abbastan- za ». Metto pegno che l'xAntonietta non dovè rimaner con- tenta di questa secca risposta. Quella caldezza di cuore, che ispirò le canzoni patriottiche , non e' è più. Tutto ciò che vive ai di fuori, opera tardamente e scarsamente sopra que- sto essere concentrato. L'ultima lettera è a Puccinotti, secca al solito, e finisce in uno scoppio di bile : « .... sporca città, dove non so se gli uomini siano più asini o più birbanti : so bene che sono l'uno e l'altro». E conchiude: «La prima volta che in Reca- nati sarò uscito di casa, sarà dopodimani, quando monterò in legno per andarmene ». Questo fu il suo addio a Recanati. L'anima era già a Bo- logna, in mezzo alla cordialità della famiglia Tommasini o Brighcnti, tra cari e stimati amici, come il Costa, Io Stroc- <^.hi. il Marchetti, il Pepoli, l'Orioli, il Maestri, il Colombo, — 105 — il Taverna. Il povero Leopardi vi si sentiva stimato e amato, • questo era il balsamo che gli raddolciva il carattere. La sua breve, ma lieta dimora in Bologna fu dal 26 aprile al 20 giugno. Alla sua Paolinuccia scrive: «La stagione qui e ottima , e io mi diverto un poco più del solito , perche , grazie a Dio, mi sento bene,... e perchè gli amici mi tirano, ^ouo stato all' Opera già due volte ». Vi continuò lo spoglio degli autori e le correzioni de' Dialoghi, attendendo l'arrivo della Stella. Il buon libraio gli confermò le sue commissioni, co' soliti dodici scudi al mese. Voleva da lui anche un Cinonio; ma il Leopardi, che, dopo il Petrarca e la Crestomazia non vo- leva sobbarcarsi ad un altro lavoro di schiena, promise di tentare il Costa, e non ne fece nulla, saputo esser 1' uomo ilivenuto cosi pigro, che sarebbe quasi impossibile indurlo '/ assumere una lunga fatica. Riparli lo Stella per Milano , recando seco come trofeo la Crestomazia, alla quale nen mancava altro che la pre- fazione. E Leopardi co' dodici scudi nell'immaginazione tutto lieto andò nella sospirata Firenze. Viaggio ottimo. Ma appena giunto, quel suo brutto mal ^' occhi invece di migliorare peggiora, e lo costringe a stare casa tutto il dì , senza né leggere , né sciHvere , e non può uscir fuori se non la sera al buio, come i pipistrelli. Aggiungi un mal di denti, che lo tiene inquieto : la malin- conia che mi dà questa sciocchezza da un mese in qua, non è credibile. L'operazione chirurgica gli sta sempre nel pensiero, come una cotuìanna da eseguirsi, e che lo spa- venta come un ragazzo. Ma questi suoi incomodi , eh' egli dice senza conseguenza, non gl'irapediscono di scrivere alla sorella il solito « grazie a Dio, sto bene ». Nelle sue lettere tocca appena di questi piccoli accidenti della vita, e se ne lamenta solo perchè gli tolgono di scrivere agli amici co.«ì -Desso come vorrebbe , e perchè non gli è dato di vedere )lte ('osc notabili di Firenze. La sua tristezza non gli i-ec;i i:upazienza e non dolore, come di uomo che vi sia già av- — 106 — vezzo. La sua facoltà di affetto non pare scemata. Scrive con effusione a Carluccio, a Paolinuccia, alla cara Adelaide, alla signora Antonietta, e si ricorda volentieri degli amici di Bologna, nome per nome. Se non poteva veder Firenze , ei"a pur visitato da' primarii cittadini, da tutta quella com- pagnia di letterati eh' erano intorno al Vieusseux, e di cui dice : « sono tutti molto sociali , e generalmente pensano e valgono assai, più de' bolognesi ». Fra quelli era Giordani, e Niccolini, e Frullani, e Capponi, e Lambruschini e Mon- tani. Più tardi conobbe il signor Manzoni, col quale si trat- teneva a lungo : uomo 'pieno di amabilità e degno della sua fama. Impressioni molto vive non pare che ricevesse dalle amichevoli e interessanti conversazioni, di cui non e cenno nemmeno ai più famigliari. Dice a Brighenti : « io vivo molto malinconico, non ostante le molte gentilezze usatemi da que- sti letterati: tra'quali tutt' i primarii, compreso Niccolini». Scrive al papà che ha fatto conoscenza e amicizia col fa- moso Manzoni di Milano , della cui ultim,a opera tutta l'Italia parla. Esposizione secca del fatto, quasi egli fosse marmo , quantunque indovini la sua soddisfazione della vi- sita del Niccolini , e della conoscenza col Manzoni. Questo stato marmoreo è detto dall' autore stoico de' Dialoghi in- differenza filosofica , ed è quel medesimo che , giovane , quando sentiva più, chiamava con disperata energia ferreo sopore. Talora se ne stanca, e presente e chiama la morte: « Sono stanco della vita, scrive al Puccinotti , stanco della indifferenza filosofica, che è il solo rimedio de' mali e della noia, ma che infine annoia essa medesima. Non ho altri di- segni , altre speranze che di morire. » Il ferreo sopore ei-a pur poetico , perchè congiunto con la fresca rimembranza di un altro stato, e col sentimento e il dolore della piiva- zione. L' indifferenza filosofica è affatto prosaica , divenuta un'abitudine contro la noia, ed essa medesima noiosa. In qualche momento d'umor nero Leopardi si ribella contro l'abitudine, sente il peso dell'indifferenza, e può dire: certo è che un morto passa la sua giornata meglio di me. Quel — 107 — passar la giornata con le braccia in croce, quell'ozio yiu tristo assai della morte, a cui lo costringe il mal d'occhi, è talora più forte della sua indifferenza filosofica, e gli ab- buia la vita, non sì che gli dia virtù di farne una rappre- sentazione poetica come fece già del ferreo sopore. Ma in generale la sua vita è tollerabile, messe le distrazioni che gli venivano dalle molte conoscenze e dai buoni amici , e più in là dalla vista di Firenze, quando lo stato degli occhi gli consentiva di uscire di giorno. Nelle sue lettere tro- viamo un umore uguale e prosaico, simile allo stato ordi- nario della più parte degli uomini, ciò ch'egli chiama in- differenza, il quale gli vieta o gì' inaridisce le impressioni; cosi tardo il sentire come è tardo il suo respiro e la sua digestione. Scrivendo al carissimo signor padre il 4 ottobre, sappiamo che gli occhi sono migliorati e che comincia a uscire di gior- no. Ma s'affanna ^e' quartieri d'inverno, perchè il clima di Firenze non e molto freddo . ma è infestato continua- mente da venti e da nebbie, come a Recanati, e il vento è suo capitale nemico. Cerca un clima caldo. Stella offre Como. Ma è troppo lontano. Pensa a Roma. Ma il lungo viaggio e la lontananza dal mondo civilizzato ne lo disto- glie. Si risolve per Massa di Carrara, clima ottimo, simile a quel di Nizza: non vi nevica mai, si esce e si passeggia senza ferraiuolo, in mezzo alla piazza pubblica crescono degli aranci piantati in terra. Ma nel più brillo muta pen- siero, ed eccolo in Pisa, spintovi da Giordani , eh' era tor- nato da colà contentissimo. Riparti per Firenze la mattina del 9 novembre, e fu a Pisa la sera, viaggio di cinquanta miglia. g XXXIV. A Pisa. Scrive alla Paolina: «Sono rimasto incantato di Pisa per il clima: se dura cosi, sarà una beatitudine. Qui ho trovato tanto caldo che ho dovuto gettare il ferraiuolo e allegge- — 108 — l'irmi di panni... Lung' Arno è uno spettacolo cosi bello, così ampio, così magnifico, così gaio, così ridente che in- namora... vi si passeggia poi nell'inverno con gran piacere, perchè v' è quasi sempre un' aria di primavera ; vi brilla un sole bellissimo tra le dorature de' caffé, delle botteghe piene di galanterie e nelle invetriate de' palazzi e delle case tutte di bella architettura... un misto di città grande e di città piccola , di cittadino e villareecio ; un misto così ro- mantico che non ho mai veduto altrettanto. A tutte le altre bellezze si aggiunge la bella lingua. E poi vi si aggiunge che io, grazie a Dio, sto bene, che mangio con appetito, che ho una camera a ponente, che guarda sopra un orto, con una grande apertura tanto che si -arriva a veder l'o- rizzonte ». Queste impressioni ripete, ora 1' una ora l'altra, e quasi con le stesse parole, agli amici. Pisa è un paradiso, il clima è divino. Il padre lo esortava a tornare in Recanati. Egli negava, descrivendo la sua vita in Pisa. «Qui non v'è mai vento, mai nebbia; v'è sempre ombra, e se s' hanno gior- nate piovose, è ben difficile che non siavi un intervallo di tempo da poter passeggiare. Infatti, dacché sono in Pisa, non è passato giorno che io non abbia passeggiato per due in tre ore: cosa per me necessarissima e la cui mancanza e la mia morte; perchè il continuo esercizio di nervi e mu- scoli del capo, senza il corrispondente esercizio di quelli delle altre parti del corpo, produce quello squilibrio totale nella macchina , che è la rovina infallibile degli studiosi . come io ho veduto in me per cosi lunga esperienza. Qui per tutto decembre abbiamo avuto ed abbiamo una tempe- ratura tale, ch'io mi debbo difendere dal caldo più che dal freddo. Oltre la passeggiata del giorno , esco anche la sera, spesso senza ferraiuolo ; leggo e scrivo a finestra aper- ta ». A Paolina scrive: «Ho qui parecchi amici, e più no avrei se volessi far visite , perchè dapertutto m' è usata assai buona accoglienza». In casa Cloni conobbe il Colletta, e conobbe anche il Carmignani e Rosini, E dice al padre : — 109 — «Qui tutti mi vogliono bene, e quelli che parrebbe doves- sero guardarmi con più gelosia sono miei panegiristi ed in. Tioduttori, e mi stanno sempre attorno ». Questo non vuol dire che a volta non si lagni del mal de' nervi e dello stomaco e degli intestini, e che trema da mattina a sera, e che non può studiare. All'Antonietta dice: «Questi miei nervi non mi lasciano più speranza: ne il man- giar poco, nò il mangiar molto, né il calore, né l'acqua, né il passeggiare le mezze giornate, né lo star sempre in riposo» insomma nessuna dieta e nessun metodo mi giova. Non posso fissare la mente in un pensiero serio per un solo minuto, senza sentirmi muovere una convulsione interna ». Il 5 mag- gio del 1828, scrive a Giordani : < La mia vita ò noia e pena: pochissimo posso studiare, e quel pochissimo è noia medesimamente., la mia salute è sempre tale da farmi im- possibile ogni godimento: ogni menomo piacere mi ammaz- zerebbe: se non voglio morire, bisogna c^.' io non viva». In questo modo di scrivere c'è del nuovo: non sono le solite lamentanze, a cui T indifferenza filosofica toglieva ogni colo- re; c'è qui dentro il sospiro e la lacrima, c'è la partecipa- zione dell'anima. Il perfetto scrittore italiano, come Gior- dani lo aveva preconizzato, continua cosi: «Questo anno pas- sato (in Firenze) tu* m' hai potuto conoscere meglio che per l'addietro; hai potuto vedere che io non sono nulla; questo io ti aveva già predicato più volte ; questo è quello eh' io predico a tutti quelli che desiderano di aver notizia dell'es • ser mio. Ma tu non devi perciò scemarmi la tua benevo- lenza, la quale è fondata sulle qualità del mio cuore, e su quell'amore antico e tenero eh' io ti giurai nel primo fiore de' miei poveri anni, e che ti ho serbato e ti serberò fino alla morte. E sappi, e ricordati che fuori della mia famiglia, tu sei il solo uomo il cui amore mi sia paruto tale da ser- virmene come di rifugio, una colonna dove la stanca mia rifa s' appoggia ». Nel 1819 diceva: «io sono già vissuto», e scriveva gl'idillii; nel 1828 dice: «io non sono nulla», e indovini dalla forma — 110 — insolitamente colorita che già risorge, già ha sacrificato alla Musa. C è il sentimento della sua infelicità, non sonnolente nella sua indifirerenza filosofica ma vivo e poetico ; e lo vedi in queir amore tenero giurato nel primo fiore de' poveri anni, in quell'ora di rifugio, in quella colonna a cui s'ap- poggia la stanca vita. Giordani non ne capi nulla ; non capì che il fuoco dalla cenere divampava , e gli rispose i so- liti conforti. La dimora in Firenze, le nuove amicizie, le illustri conoscenze, le interessanti conversazioni, il vivo di una lingua divina, non gli furono inutili, e fiorivano insieme con la salute sotto il dolce calore del clima pisano. x\cquista un' alacrità insolita. Messa da banda col consenso dello Stella V Enciclopedia, non senza avere accumulato materiali per nuovi lavori che gli giravano in mente, e posta mano alla Crestomazia poetica, l'ebbe condotta a termine in poco tempo e insieme 1* immaginazione gli si è svegliata, la fa- coltà del sogno ritorna, il passato gli si ripresenta vivo, quel lungo torpore eh' egli chiamava indifierenza è cessato. I nervi lo molestano, ma il sangue circola più libero, più vivace tra quell'aria pura, e gli rimette in moto tutte le sue facoltà. Le sue passeggiate diventano poetiche; la via deliziosa per la quale suole andare, è battezzata dalla sua immaginazione, è chiamata la Via delle rimembranze. E così camminando sogna a occhi aperti, s' abbandona all'onda delle sue immaginazioni , gli pare d' esser tornato al suo buon tempo antico, come il 25 febbraio scrive alla Paoli- na. E il 2 maggio le fa questa confidenza: « Io ho finito oramai la Crestomazia poetica e dopo due anni ho fatto de* versi quest'aprile, ma versi all'antica, e con quel mio cuore d'una volta. Ciò che non gì' impedisce di scrivere tre giorni dopo al Giordani quella triste lettera: io non sono nulla! Leopardi è risorto e canta il suo risorgimento. — Ili — § XXXV. Il Risorgimento. E che è questo risorgimento di Leopardi ? Forse è dive- nuto felice? No. Anzi e più vivace la coscienza della sua infelicità : Mancano, il sento, all'anima Alta, gentile e pura, La sorte, la natura, Il mondo e la beltà. Forse gli volse un riso la speranza? No. Anzi la sua trafittura è d'averla perduta per sempre: Ahi della speme il viso Io non vedrò mai più. Sono mutate le sue idee sul mondo? L'immagine, Terrore, >no non più errori, ma cosa salda, sono la verità? No. Dalle mie vaghe immagini So ben eh' ella discorda : So die natura è sorda, Che miserar non sa ; Che non del ben sollecita Fu, ma dell'esser solo La morte della speranza, l'impura vista della infausta verità, il sentimento della sua infelicità non è qui affievo- lito, anzi vi è ribadito e illuminato. Perchè, dunque, si sente risorto? Cosa e risorto in lui? La facoltà di sentire di cui portava a Jacopsenn, o come ora dice, il cuore. E perchè la vita non è di suo avviso altro che facoltà di sentire, d'immaginare, d'amare, è in lui risorta la vita; si sentiva morto, ora torna a vivere. E canta la risurrezione della Ita immaginazione, del suo sentire. Risorgono i dolci a£fanni, i teneri moti della prima età; — 112 — rivede la bella natura, così come la vedeva allora, inesperto delle cose, e ora malgrado V esperienza della vita e la vista della verità, sente con meraviglia in sé ì'ivivere gl'ingan- ni aperii e noti. Questa rappresentazione del suo nuovo stato acquista rilievo da quello stato di sopore, ove le stesse cose gli comparivano innanzi morte. Ed hai una rappresen- tazione in antitesi della natura, così come compariva a lui in quel doppio stato, morta e viva. Queste cose non le dice già con quel disordine, con quella veemenza, con quell'improvviso ch'è la parola dell'entusiasmo giovanile. Ha racquistato i moti e i sensi della gioventù , ma non l'ingenuità di quella; ora sa troppo, e parla con ironia della sorda Natura, che pure allora benediceva: Pur che ci serbi al duolo. Or d' altro a lei non cai. Il suo piacere non è puro e non è intero. Qui non e' è l'inno e non c'è l'ode. Il piacere è contenuto dal sapere, dalla presenza del vero, che vi apparisce come fosca nuvola in cielo sereno; con questo, che la nuvola qui è l'immuta' bile verità e il cielo è la mutabile apparenza. Che importa? Se l'apparenza dura , non chiamerà spietato 1' autore della vita. Non è una riconciliazione e una concessione. Consente solo di non chiamarlo spietato, e sub conditione, se. La situazione poetica non è nel primo momento dell'en- tusiasmo, quando egli si sente rivivere, ma in un momento posteriore o di riflessione, interrogando sé stesso, riandando la sua vita descrivendo e spiegando il nuovo uomo che s' è formato in lui. Perciò la poesia prende una forma storica e riflessiva. Non si dipinge egli nel punto che piange e ammira e il cuore gli batte. Ha pianto, ha ammirato, ha palpitato. Ora ci riflette sopra. La mente rimane sovrana, e distribuisce con ordine e con chiarezza tutte le parti, con orditura semplice, con moto diritto e soave, senza indugio e senza fretta. Non — 113 — e' è immagine e non impressione cosi viva che lo svii e gli rompa il filo del pensiero. Le rimembranze non s' affollano, e non l' incalzano , ma si svolgono l'una dall'altra, come onde di mare. Diresti che riviva la sua vita nella sua naturale successione. I dolci affanni della prima età, e quando mancarono, il do- lore della mancanza, e quando mancò il dolore, una tri- stezza eh' era ancora dolore, e infine il sopore, abbandonata ogni resistenza: Quasi perduto e morto Il cor b' abbandonò ; questi varii stati della vita gli tornano innanzi 1' uno ap- presso all' altro, l' uno uscito dall' altro. Si può credere che ci sia un po' di sottigliezza in quel dolore che manca , e nel pianto del dolore mancato, che è una tristezza la quale è ancora dolore. Ma chi ha studiato bene tutte le diverse stazioni del suo martirio, vedrà che Leopardi è qui non meno acuto che vero esploratore del suo passato. La finez- za e profondità dell'osservazione ti costringe a pensare per coglier bene così delicate gradazioni tra dolore, tristezza e sopore, e, pensando, gusti il piacere intellettuale di scoprirle vere. Tu senti, e acquisti insieme un abito riflessivo che ti dispone a spiegare quello che senti. E tale appunto è il carattere di questa poesia. Or che gli sta tutto il passato innanzi, l'uomo nuovo ri- corda quale gli appariva il mondo allora, e lo rifa coi più brillanti colori di una fantasia ridesta. Quella natura, che non valse a trarlo dal duro sopore, era pure cosi bella : il canto della rondine, la squilla vespertina, il fuggitivo sole, una candida ignuda mano; e ora la rivede con sentimento nuovo, e l'accompagna co' più cari vezzi dell'immaginazione. Questa rappresentazione vivace dà rilievo a quello stato d'insensibilità ch'egli caratterizza in pochi indimenticabili tratti, con una chiarezza uguale alla finezza. Certi contrasti e certi epiteti, come l'età decrepita e l'aprile degli anni, D« Sahctib — Manzoni e acritti varii — Voi. II. 8 — 114 — i giorni fugaci e brevi, imprimono in questa rappresenta- zione il moto del sentimento. Con quel grido di meraviglia e di tenera commozione che il cieco senza speranza rivede improvviso il sole, con quel sentimento prorompe qui il grido del redivivo. Non ci è gradazione, non c'è a poco a poco; il passaggio è brusco^ violento, come innanzi a un miracolo. Non è una evoluzione, come si dice oggi; è una rivoluzione. Clii dalla grave, immemore Quiete or mi ridesta? Clie virtù nova è questa , Questa che sento in me? Quasi non crede agli occhi suoi, non crede quasi a'proprii moti. Dunque, è vero? dunque, il core è risorto? Oh sì. E raccoglie e accumula le nuove bellezze e le nuove impres- sioni con così precipitevole impeto ritmico, che pare voglia tutto in un sorso assaporare il suo godimento. Qui è il tuono più alto del sentimento, che va lentamente digradando. Comparisce il crudo fato, il triste secolo, 1' i- gnuda gloria, la bellezza vuota. In lui non ci è altro di ri- sorto che il cuore, se pure E in questo se vanisce il canto, quasi in un sospiro malinconico, di una mezza sod- disfazione. Qui tutto è vero , tutto è a posto. Forse e' è di troppo V insistenza sulla vanità della donna, dove sospetti qualche ricordo personale, che intorbida le proporzioni dell'armo- nia, chi sa! un momento di cattivo umore contro le fio- rentine, al quale dà sfogo in una lettera, o il disprezzo di quella strega bolognese, di cui scrive a Papadopoli. É un reliquato, come dicono i medici, nella vita nuova. E ci trovi insieme un presentimento deW Aspasia. In questo Risorgimento non solo l'asprezza, il latinismo, la solennità è liquefatta, ma anche il metro e il ritmo. Hai settenarii metastasiani, de' quali il primo versetto sdrucciola nel secondo, richiamato dalla rima nel terao, che va a de- — 115 — olinare subitamente nel quarto, formando periodetti liquidi, veloci , e talora con ripigliate connesse , di una movenza melodiosa. Le immagini sono vaghe, e le diresti note mu- sicali, se nella loro generalità non fossero precise. E sono tutte attirate in un movimento ritmico, che, accompagnato S. 8i proponeva di parlare di parecchi poeti contemporanei , italiani e stranieri. IV, APPENDICE DOCUMENTI LETTERARH CONTRIBUTI BIOGRAFICI E BIBLIOGRAFICI Il imimn wuuuiitBiuminttuui i M i w iimmwiuNiniimii ii Frammenti di scuola. [Nei Nuovi saggi critici , pp. 321-357 , il De-S. pubblicò aleuni di- seorsi tenuti ai giovani della sua prima scuola; della quale poi di- scorse ampiamente nella sua autobiografia. Tra le carte del De-S. esistono, oltre alcune tracce di lezioni e quaderni di appunti scritti da scolari , altri parecchi discorsi d'inaugurazione e di chiusura dell'anno scolastico. Noi pubblichiamo due di essi, che ci paiono per qualche riguardo notevoli. Mancano dell' indicazione del tempo in cui furono recitati. ] Discorso d'apertura. Egli è qualche tempo , noi assistiamo ad uno spettacolo ben singolare. Ogni anno vedi giovani impazienti ed avidi lomandare a' maestri nuovi principii: ogni anno vedi mae- stri compiacenti e cortesi saziarli di nuovi principii. Le no- vità atterriscono gli uomini di animo misero e angusto, ne' luali il nobile desiderio di scorgere in esse qualche nuova erità è vinto dal timore che nella codarda coscienza ten- gon nascoso di esser cacciati di nido e sopraffatti dagli al- tri. Ma le novità non atterriscono me, che, oltre che mai non saprei chinare il mio animo a tanta bassezza , io ap- partengo ad una scuola . il cui capo e stato tra' primi a spoltrire gli animi infiacchiti de' suoi cittadini, e, rifacendoli di lingua e di gusto, indirizzarli per una via novella, sosti- tuendo a giuochi di memoria ed a materiali esercizii la ra- gione e la fatica. Chi sì belle e sì utili cose ha fatte, chi ha •>ntito la gioia suprema per un animo nobile di far prò a'suoi ' ittadini, certo né egli potè mai concepire, né ne' suoi discepoli — 152 — potò mai instillare invidia per chi sentisse la medesima gioia e tentasse le medesime cose. Io dunque di tutto cuore applaudo alle novità: e non pertanto io vi confesso che non senza noia io veggo tanta sete ed avidità di nuovi principii; e ■che di queste gare e contese che a noi veggo fervere in- torno, non che rallegrarmi, quasi mi sdegno. Vi è un tempo in cui le contese e le gare sono come l' annunzio di una vita novella, tempo in cui le vecchie dottrine, divenute cieche abitudini di animi addormentati, crollano da tutte le parti, € le menti maravigliosamente s'infiammano e studiano a nuove cose: tali furono le letterarie contese al Cinquecento, tali al principio del nostro secolo. Le contese traggono seco le esagerazione , finché il buon senso degli uomini offeso, con la sua arma usata, il riso, si vendica terribilmente. Allora le contese e le esagerazioni vengon meno, e a poco a poco, di mezzo alle contenzioni e agli errori, sorger si vede lim- pida e pura la verità; la quale, nascostasi alle dispute e alle formole, si manifesta spontanea al naturai senso degli uomi- ni. Questa verità; prende il nome di principio: cessa allora ogni contesa, ed il nuovo principio lungo tempo arbitro ri- mane e signore di tutto il mondo. Ponete mente e vedrete che pochi sono i principii che stanno in cima di tutto 1' u- mano sapere: ma se di ciascun principio osserverete la sto- ria , vedrete per quanti strani errori , per quante ostinate contenzioni e per che lungo tempo esso è passato per ren- dersi a noi manifesto. Ora io domando, se dopo di essorsi conteso per cinquanta anni in tutta quasi l' Europa su'prin- dò a leggere il manoscritto ai suoi amici e discepoli per averne giudizii e consigli. Il prof. Ferdinando Flores ci dice di avere assistito alla lettura che ne fu fatta da Diomede Marvasi in casa di Eduardo Salvetti. Una copia, autografa, di quella prima reda- zione si trova nella Bibl. di San Martino, dove, per dono della ve« dova, son ora andate le carte del De-S. ; e un'altra ne trasse il Flo- res, che cortesemente 1' ha messa a nostra disposizione. Nella copia esemplata dal Flores si leggeva , a capo dello scritto , la data del Dicembre 1850 , eh' era forse quella del tempo in cui il lavoro fu cominciato. Tenendo conto dei giudizii e dei suggerimenti ricevuti, il De-S. ricorresse il suo lavoro , e vi fece 1' aggiunta dell' episodio dell'arrivo del Tasso a Sorrento presso la sorella Cornelia. Di questo rifacimento si trovano due copie , anche autografe , nella Bibl. di San Martino ; nella prima delle quali il dramma è diviso in tre parti, e nella seconda, in un prologo e sei atti. Questa seconda re- t dazione, che ha anche alcune differenze nei particolari, ci sembra la definitiva. Nella copia della redazione in tre parti vi è la s«guent4> letterina : Miei ottimi amici, Ho tardato un buon pezzo a mandarvi il Torquato Tasso , nella speranza di potervelo leggere io stesso , ed udire il vostro avviso ; ma, poiché dispero oramai di una prossima liberazione, è inutile che io indugi più oltre. Vi ringrazio con tutto il cuore della cura che * avete messa in esaminarlo ; ed io mi sono in gran parte giovato dei vetri consigli. Quale es.io si sia, per ora non mi sento né la volontà né l'attitudine di ritornarvi sopra: che se la fortuna mi consentirà che io vi riveda, potrò con più riposato animo conferirne con voi. Abbiatelo intanto come testimonianza della memoria che iu serberò sempre di voi. F. I>. S. _- 174 — Tornando al P^'^l^J/w letti del De-S., '^ ^j^^.f^fj^ letteratura tLri.i;s^SB^'sru.sSsra:i --- ed in altri suoi scrittu ^ oeruscdemme. ^ „„ , v:,« che il De-S., stato lui ^^^ — 'a I 1 ?;1V. Torquato scrive le umm^^P,,^ ^^^^^ .^ timenti che prova nel por te ^^ ^SaUeS» mente con due L'mpagni, e -ccon ^^ « shava^ ^^.^nramo^e pe^S-^^-"- ^^^ Tasso: i servi fuggono ^^^.^^^ ^^ «^P r^Torose composte per Sena 3l H Tasso «^'^^"^""er Eleonora. Ma. Tasso: i serv. '--- /^^nsiero del suo amo^« P^^ composte per mondo, e si confoita coi p ^^^^ j^ "'^\^ru servo, che gl'in»V nel!' aprir la «-assa dove son^^ ^^^^.^^^ '^'l^to i Sore amico del Tasso un'illu'^ione, oramai - 175 — partecipe dei meschini interessi e della malignità di quelli. Scena 6*- Vengono parecchi cortigiani ed Orazio Ariosto. Si vede il Tasso tra le invidie e miserie che lo feriscono da tutti i lati. Da alcune pa- role di Antonio, Torquato s'accorge che il ladro delle carte è stato lui, e Io schiafifeggia. Atto secondo. Nei palazzo ducale. Scena 1'. La Principessa pensa al Tasso e ne ridice alcuni versi, quando ode dalla via cantare: "Con la penna e con la spada Nessun vai quanto Torquato „. Scena 2'. La Principessa discorre del Tasso con la sua damigella, anche di nome Eleonora, corteggiata da Torquato in apparenza, la quale la- scia trasparire il suo malumore e la sua gelosia. Scena .3*. Il Tas so si fa annunziare, ed entra dalla Principessa, nonostante il diviato. Scena 4^. Il Tasso racconta dell'aggressione patita per opera di Anto- nio, ed ha un dialogo con lei, che lo persuade a partire. Ma, mentre egli, ormai certo del suo amore, la stringe al seno, e vuol obbedirle partendo, sopravviene il Duca, che lo fa rinchiudere per matto. Atto terzo. A S. Anna. Scena J*. Soliloquio del Tasso. Scena 2*. Dia- logo col custode, che introduce un altro pazzo, un giovanetto che ripete sempre queste parole: " Ella è morta „. Scena 5*. Viene il me- dico; e, mentre costui parla della malattia del Tasso, e il giovane ripete il suo triste ritornello, risuonano i tocchi di una campana fu- nebre, e passano le esequie di Eleonora. Atto quarto. A Sorrento. Scena 1*. Il Tasso, vestito da pastore, ri- pete tra sé i versi dell'ultimo coro del Torrismondo (Ahi lacrime, ah doìore.....). Scena 2*. È la scena di riconoscimento con la sorella , la quale, nella gioia del ritorno, gli dice: " Fa cuore oramai. Sono finiti i tuoi mali „. Scena 3*. Torquato resta , assorto , ripetendo : " Finiti I „. S'ode una musica malinconica. Scena 4^. Venuta dell'a- mico Giambattista Manso. Scena 5.^ Dialogo fra il Tasso e il Manso. Perduta Eleonora, il poeta sente che per lui è morta ogni gioia della vita ed ogni ispirazione del genio. Atto quinto. In casa del Manso a Posilipo. Dialogo con personaggi che esprimono le varie dicerie e opinioni intorno al Tasso. Dialogo con Berardino Telesio. Giunge l'annunzio dell'apparecchiata coro- nazione di Roma. Atto sesto. Il Tasso a S. Onofrio. — Mentre si odono di fuori voci che gridano: "Al Campidoglio! Viva il Tasso! ., appaiono sulla scena in forme visibili le immagini che passano per la fantasia del poeta: il Campidoglio, la villa del Manso, ed, infine, Eleonora, che gli ri- pete i versi di Clorinda: " Mira come snn bella e come lieta, Fedel mio caro, e in me tuo duolo acqueta „, e gli porge una corona. Tra queste immagini, il poeta muore. ■* O Poesia! O ombre! sogni 1 fanta- smi! Orare sembianze che fuggitive mi apparivate un giorno! Voi vi arrestate al fine. La realtà mi è dinanzi „. Nella prima redazione del dramma vi è una nota, clie dice: " Il dramma potrebbe finire anche in quest'altro modo. <^uando il poeta pronunzia le ultime parole e ricade , entra parte del popolo nella aua stanza , parte rimano al di fuori. Musica soave e malinconica. Ercole Tasso recita le seguenti strofe , in cui si rinchiude il con- cetto platonico del dramma. Dopo ciascuna strofa, la musica ripi- glia „. Ma un'altra nota, finale, avverte: " Questa seconda fine non è che un ghiribizzo per passare il tempo. Il dramma dee finire nel primo modo,. — A noi, tuttavia, sembra opportuno riferire i versi in questione, percliè indicano il significato del dramma : — 176 — Onde ti sei partita, Gentile alma, ritorni, Cui fur lungo dolore i brevi giorni. Quand'eri giovinetta, Ridea nel tuo pensiero De la patria diletta Ancor la rimembranza, E la creta prendea Forma simile alla celeste Idea. De' tuoi celesti amici ancor desio T'era rimase in petto, E nelle forme di quaggiù pingevi Il lor sereno aspetto; E fur Tancredi, Erminia e il pio Buglione Nomi terreni della tua ragione. Congiunta eternamente Alma in alma vivevi;' E quando apparve il riso, Ed il dolce tremar di due bei lumi, Di sangue ti rimase men che dramma, E i segni avesti dell'antica fiamma. Sparirò i dolci inganni; La tua Donna sparì; s'ascose il Cielo; In pianti ed in affanni Pellegrina vivesti in mezzo a noi; E sotto al vel che l' Universo involve. Terra trovasti e polve. Onde ti sei partita, Gentile alma, ritorni, Cui fur lungo dolore i brevi giorni. In uu foglio staccato, si trova, tra i manoscritti, una dedica : A Torquato Tasso, che doveva precedere il dramma. Noi abbiamo creduto opportuno di pubblicare, in questa raccolta, la dedica, la scena di prologo, la scena coi cortigiani che chiude il primo atto, e l'intero atto quinto ; i quali brani, mentre danno un saggio della forma drammatica usata dall'autore, contengono gli ac- cenni di alcune idee critiche, che il De-S. svolse poi in altri lavori.] 1. A Torquato Tasso. Il tuo corpo è morto ; ma la tua ragione è ancor viva , ed ammaestra e diletta e commove. Fanciullo appena di dodici anni, tu svegliasti la mia fantasia, e la riempivi di sogni, di maraviglie e d' incanti. Sovente io lasciava il de- sinare , e mi ricoglieva solo con te nel segreto della mia stanza, dove, mago possente, con tanta evidenza mi ponevi davanti e duelli e battaglie, eh' io talora vi tenea cupida- mente fisi gli sguardi come in teatro, e talora con fanciul- lesco talento battagliava ed armeggiava solo. Più tardi, la tua voce trasse da me le prime lagrime : dolci lagrime e desiderate, ahi! ben diverse da quelle amarissime , che fa versare il mondo. Fatto adulto , in più largo spazio aggi- randomi, io t' obbliai ; né dovevi ritornare alla mia memo- ria, che quando l'animo, per gravi sventure affranto, si rac- coglie solitario in se stesso. Questo tristo tempo è venuto per me assai presto ; che alcuna volta i casi e i travagli della vita son tali da render bianchi i capelli anche dei giovani. Con quanta angoscia il mio pensiero è ritornato allora sulle rimembranze incancellabili della prima età! Ad uno ad uno mi si sono presentati dinanzi parenti, amici, maestri. E tutti dileguati come ombre! Tu solo mi sei ri- masto, o Torquato, o amico della mia fanciullezza ; tu solo che a me sopravviverai, compagno eterno degli uomini, di- letto de' lieti anni, e meditazione de' tristi. Non è ora più la tua Gerusalemme , in che affiso il pensiero ; ma sei tu stesso. Trastullo della fortuna, e trabalzato in qua e in là dalle altrui e dalle tue stesse passioni; tu vedesti ogni tua illusione venir meno, e ti sentisti morire a poco a poco. Nella mia infelicità io ho appreso a comprenderti meglio, o infortunato ; e molte ore sono passate , profondato nella contemplazione della tua miseria. Assai soffristi : e il tuo dolore sali fino all'altezza del tuo ingegno. Pure non dispe- rasti tu mai; che nella tua tristezza è sempre alcuna cosa di temperato e di soave. Ond^, se pur talora io sento dentro di me piangermi l'anima, e gli occhi ho aridi e fissi; a te pensando, malinconiche e dolci memorie mi vengono innanzi, e piango, e mi conforto. Quanto cari momenti io ho passati con te ! quante volte, rimemorando i tuoi mali , io ho di- menticati i miei ! Cosi senza quasi avvedermi io scrissi di te, ed al tuo nome consacro questa testimonianza di affetto e di dolore. Ma tu sei si grande, eh' io riverente a te m' in- chino, e perdono ti chieggio di avere tanto umile cosa in- dirizzata ad uno Immortale. 2.» PROLOGO (Appartamento del Tasso nel Palazzo Ducale. Camera) Tasso solo, scrivendo. Finito ! {Si leva con impeto) Dio ! Tu mi hai conceduto di veder questo giorno. (^ mia Gerusalemme , tu esisti I Ds Sarctis — Manzoni e tcritti varii — Voi. II. 12 ,,r,i 1 te ' ^ion sono questi in tremo nelV appressarmi a le. ^^^^^^^^ ^ Come 10 ueui" „,i„rn ia te quella etcìc- -primire fantasia; .0 V. veggo. « |;„,i„ezza eterna, ° P^ P voi splenderete »"';'"''.,•. amorosi e gentil . Ane f«-*' ' rttViange^'O^' »■? F'r- Uo : oesta, frre s ;S„>.^^^^^^^ Co'.e .ae ^i^eXan^'-'^-i sguardi, ^TTO I, SCEN^ V. \RiosTO, Cortigiani e detti. Il Capitano, Ariosi^, . un' invasione nel tuo appartamento! Capitano. Un inva ^. ^^^^ Tasso ^conrwso)-^^ -^,anguardia. der-a tanto d^ «onoscer^^^^^^ , ^ ^^ yasso. Signori... qui- , . j^ le veci Uei .intonio. Concedete che ai^i^*^- ^o/fre sedie, tutti seggono) - 179 — '^'ip. {guardando intorno). Questa stanza mi ha 1' aria di un campo di battaglia dopo la vittoria. i" Cortig. Un disordine pindai'ico! Ariosto. Eppure non può non esser compreso di un invo- lontario rispetto chi pone il piede in una stanza, ove fu composta la Gerusalemme Liberata. Mosti. Certo. '"op. Ma! (ammirando e guardando) Libri per terra, quel- r uscio che ci sta facendo inchini (scuotendo V uscio) 0... e... {aprendo un libro) una bottiglia di vino accanto a Platone! Caro Torquato, io credo, Apollo sul Parnaso stia un po' meglio alloggiato. .\nt. Il mio amico è degno di scusa. Quando io sono qui entrato, de' sicarii minacciavano i suoi giorni. tp. Bah I (tutti si guardano in atti di dubbio). Ant. Quello che più gli duole è che gli sono state involate... cose d' infinito valore per lui. (Silenzio) ;^ Cortig. E a quanto giunge la somma che vi è stata tolta? Tasso. La somma! Io darei tutto l'oro eh' è sulla terra... Ant. Si tratta di carte importanti. f^ap. Diamine ! Forse le carte dotali per ricoverare i vostri beni materni? Tasao {con impazienza). Sono le mie correzioni al mio poema e... .\'>t. E un' altra cosa ! (i7 Tasso lo guarda sospettoso., e cosi nelle altre allusioni di Antonio). Cap. Tasso , tu dovresti seguitare il consiglio che ieri ti diede il Duca. Ant. Appunto. Il Duca, conoscendo l'amistà che mi lega teco da si lungo tempo mi ha commesso di fartene istanza in suo nome. Tu hai bisogno di una moglie, Torquato. Tasso. Il mio amore è la poesia. Cap. Ah ! ah ! Tu hai bisogno che la sia di carne ed ossa, caro il mio Torquato. Ant. vuoi tu foi*se imitare l'illustre nostra Principessa? (con malizia). yfnsti. Non poniamo un si onorato nome fra' nostri scherai (al Tassò) Signore, dimenticavo l'obbietto della nostra venuta. 11 signor Orazio Ariosto , che abbiamo avuto la poca cortesia d'obbliare, desidera... lassù. Aiiosto? Parente del gran Ludovico? Ariosto. Nipote. — 180 — Tasso. Oh, lascia ch'io mi stringa al seno un amico! («6- hracciandolo). Ariosto. Io sono altero del nome che porto, massime perchè mi procaccia l'amicizia e la stima di Torquato Tasso. Mosti. Noi vi lasciamo a fronte a fronte. {Restano nel fondo Tasso ed Ariosto ed Agostina Mosti. Gruppo degli altri sul davanti della scena). 2° Cortig. Ma quale delle tre Eleonore ? Ant. Egli mira alto. Tasso è ambizioso. 1" Cortig. Eh ! egli non è che un poeta. Vanità, e niente altro che vanità. A lui basta una Madonna Laura per far sonetti e canzoni.... 2° Cortig. E tu credi che la Duchessa di Scandiano.... i" Cortig. E perchè no? Platonicamente. Cap. Ah bah ! Per me io l'ho veduto far d'occhio alla dami- gella, e, in fede mia, la è fresca ed appetitosa. Lo spi- rito è spirito.... Ant. E la carne è carne. Tant' è. Egli mira alto. 2° Cortig. Poiché ei si cela, cosa ci è sotto. i° Cortig. Noi non gli vogliamo alcun male. Ma sono stanco di sonetti... Ant. Ma non istà qui tutto il male. 2° Cortig. Gli è vero. Piace anche talora a udire una bella poesia. Ma, e che bisogno è di lui? non abbiamo qui Antonio? Tanto sa altri quanto altri, e tu vali ben lui. Ant. Avete letto lo scritto dell' Inferrigno ? Quanti errori , fino di lingua e di grammatica.... Cap. (alzando la voce), osella Gerusalemme liberataì {Tasso e gli altri due si rivolgono verso di essi). Ant. L' Inferrigno ne ha notata una lunga lista, cominciando dal primo verso: « Canto V armi pietose e il Capitano ». Ariosto. Ebbene? Ant. Ebbene. Pietoso in luogo di pio , e capitano parola non usata da Dante, né dal Petrarca, né da altro clas- sico poeta. d° Cortig. E infellonirei 2" Cortig. E il gj-an capoì i" Cortig. E il ti perdoni 2" Cortig. E il ? Ariosto. Coraggio, Tasso. Anche il Furioso fu appuntato di simili falli. I tuoi errori saranno un giorno proprietà della lingua. Mosti. Il Furioso si può bene invidiare, ma non 8uperai*e. Ariosto. I grandi ingegni non s'invidiano; essi si stimano — 181 — perchè si comprendono. Ben so che alcuni, comparando insieme due poemi tanto diversi di concetto e di stile , hanno cercato di detraile alla fama dell'uno o dell'al- tro. Io, nipote di Ludovico Ariosto, sono io primo am- miratore di Torquato Tasso, né credo si richiegga alla gloria di quel Divino, che si menomi quella di altri. Tasso. Tu hai un nobile cuore, Orazio. Io non so se mi noe • ciano più i nemici o gli amici. Pubblicare le mie poe- sie senza darmi tempo che io le ammendassi! Né era mestieri , per innalzar me , di deprimere 1' altissimo poeta , che nel poetare eroicamente giunse a quel se- gno , a cui nessun moderno e pochi degli antichi son pervenuti. Ariosto. Voi fate testimonianza così della vostra grandezza. Ani. Sentirsi dir grande da un sì riverito uomo! Sei pur fortunato! Tu, abitazione in palagio; la grazia del Duca ; il tuo nome glorioso per le lingue di tutti; e, per giunta, i pili ritrosi sguardi solo verso di te.... e non tu solo fai versi. Tasso. Anche tu! Ant. Egli e vero ch'io non veggo lo Spirito. Tasso. Deridimi pure a posta tua. Nell'Universo ciascuno contempla sé stesso; tu non vi trovi che materia in- .sensibile e muta; esso si anima a' miei sguardi e mi parla; ed io.... io, si, veggo in ciascuna cosa che mi cir- conda.... uno spirito. r Coìtig. Angiolo o Demonio? 2* Cortig. Maschio o femmina? Ant. Femmina, per Dio, e — Principessa, n'è vero. Tasso? E poi lo prende l' umor nero. E poi mi fa il malinco- nico. Timido ed impacciato come il suo Tancredi. Ma noi lo divezzeremo. .iriosto. Voi dispregiate il Tancredi? Ant. Un avventuriere eh' è stato in tante battaglie, ed ha corso tanti paesi e che arros.5Ìsce come un fanciullo {guardando il Tasso); che si sta innanzi alla sua donna piantato e teso, come uno uscito pur ora di scuola, e che non sa dirle una parola, neppure io t'amo! Tasso. Quando si ama veramente, la parola io t' amo ti trema .sul labbro. .{riosto. Chi può spargere il ridicolo sopra Tancredi, ha il cuore ben arido. Capit. Io amo Tancredi. Egli è il migliore spadaccino ch'io mi sappia. - 182 — Tasso. Voi non comprendete Tancredi! Qual maraviglia? E comprendete voi me? Antonio mi chiama un fan- ciullo! — Nella nostra prima età, quando la terra ci ride, e la speranza indora il nostro avvenire, la vita è una poesia : noi adoriamo la virtù , perchè è bella , ed amiamo la bellezza come splendore di Dio. Brevi giorni! E quando la tiiste esperienza vi agghiaccia, quando la virtù diviene un calcolo, e l'amore voluttà; se alcuno serba intera la giovinezza del core , voi lo chiamate un fanciullo! Per me la poesia non è solo un bisogno della mia fantasia; la poesia per me è tutta la vita. Mosti. E noi pure ammiriamo la poesia. Tasso. Voi l'ammirate, come quegli spettatori che applau- discono alla virtù in teatro: calato il sipario, ciascuno ripiglia il suo personaggio. Ant. Ben detto! Eloquente! Tasso. Antonio, le tue lodi ed i tuoi biasimi mi sono una cosa. Ant. Trasportar la poesia nella vita! Guardatevi bene. Il mondo è un libro che vuol essere studiato ; e mal per chi non l' intende. — Noi possiamo ammirare il poeta, quando recita; ma quando ei misura questo basso mondo dalla sua nebbiosa regione, quando ei vede in ciascuna regina o — Principessa — un'Erminia che spasimi per ogni avventuriere; quando egli crede sia facile mestiere di poter fare l'Olindo; quando ei s'immagina che con so- netti e canzoni.... Tasso (si gitta verso di lui e gli dice tra' denti). Le mie carte! Ladro! Ant. {levandosi). Tu menti. Tasso (gli dà una guanciata). Cap. Alto là [separandoli). Mosti, Nel Palagio Ducale! ]" Cortig. Nel Palagio del Duca! 2" Cortig. Lesa Maestà! Tasso {ascolta le braccia ina^ociate e con disdegno , indi prorompe). Coraggio. Aggiungete altre ingiurie ancora. Esse non potranno avanzar mai il disprezzo che ho per voi. — 183 — 4.» ATTO V. (Giardino nel casino del Manso a Posilipo) SCENA. UNICA Luogo ameno nel giardino: personaggi vanno e vengono passeggiando Entrano parlando Pasqualoni, Pieri e un gentiluomo. Gentil. E Marco Sciarra ? Questo bandito che non dà indie- tro innanzi ad una compagnia di fanti spagnuoli Pasq. E che si ride di tutto il Sacro Regio Consiglio.... Gentil. Sgombrare alla sola vista del Tasso per rendergli o- nore, com'egli dicea! Pieri. Uno scellerato sublime! [entra un gentiluomo Milanese^ ben vestito e adomo di ric- che catene d' oro secotido V uso di quei tempi in Milano. Gentil. Signor Cavaliere I Milanese. Signor Cavaliere! Pieri (a Pasqualoni). Due cadetti senza quattrini e senza cervello. Pasq. Zitto (escono Pieri e Pasqualoni). Gentil. Ella capitata in Napoli! Mil. Vengo da Roma e brucio di voglia di vedere il Tasso. Sono due anni che mi aggiro per tutte le città d'Ita- lia, e dovunque ne odo mirabilia. Tasso di qua, Tasso di là. Trovano la sua vita più poetica ancora che le sue poesie. Di Roma non le dico nulla. Fui un di a desinare in casa il Dottor Rinaldini, un buon diavolo, quantunque non gentiluomo, medico di Clemente Vili. Vi capitarono la sera due cardinali , i fratelli Cinzio . nipoti del Beatissimo Padre. Che gara! che ardore! Cia- scuno sostenea, che il Tasso avrebbe a lui dedicata la Gerusalemme conquistata. E già si bucina per le stra- de di Roma che un bel di gli otterranno la corona dal Papa. 'ientiì. Come sarà contento a vederla! Mil. È egli ancora in casa del sig. Principe di Conza? Gentil. No. La storia è curiosa. Il Principe avea commes- so ad un suo familiare di guardare, come si fa un te- — 184 — soro, il manoscritto del Tasso, eh' egli voleva a sé dedi- cato. Il poeta se ne apri col suo Manso e Giambattista.... MU. Sentiamo. Gentil. Toglie in una mano il manoscritto, e porgendo l'al- tra al Tasso, dritto e spedito ésselo menato a casa. Il familiare rimase con un par d'occhi aperti, e non osu nulla. Ei vi fu un gran dire. Ma , infine , il Principe fece il buon viso, e tutto tornò a meglio. Mil. Ed egli è qui ? Oh bravo ! oh bene ! mi tarda tanto di sapere com' è fatto un grand' uomo. Gentil. Eccolo. {Entrano Tasso e Manso) Mil. (si avanza con un cotal fare sciocco verso il Manso, e gli dice sicché oda il Tasso). Questi è dunque quel grand' uomo , che si diceva essere impazzato? Tasso. Sono desso ; ma non mi bisognò mai — nemmeno una sola catena. Mil. (co7ifuso e portando la mano alle sue catenelle). Ma.... io diceva.... Manso. Come trova questa vista, signor Cavaliere ? {Entrano Pieri e Pasqualoni, e Telesio , che siede e rimane distratto) Mil. Magnifica ! Sublime ! Il vostro Napoli è impareggiabile. Manso. Quelle sparse nubi addossate al Vesuvio ! Pieri. Quel tremulo vapore , che dal Vesuvio monta su e s' imporpora ! Pasq. Guardate là verso Portici , quella casetta : sembra illuminata a festa: di tant'oro vi brillano i vividi raggi del sole. Tasso. E fuggitivi ! Cos'i tramonta la nostra vita ! Pieri. E che ! questo spettacolo, che un giorno infiammava di divino estro la tua fantasia , non t' ispira oggi che una sì malinconica considerazione ? Tasso. Tu sei giovane, o Pieri. Il mio pensiero va già oltre la vita. Ieri ho posto mano alla terza giornata della Creazione; ma sento che non giungerò alla sesta. E sia presto! Desidero di morire: desidero di uscir fuori di questo mondo dell' apparenza. Spero di trovare lassù , nel regno di Dio, la realtà de' miei sogni. Manso. Tasso, sai pure quanto mi addolora a udirti par- lare così. Tasso. Manso, s' io avessi avuto un amico simile a te, avrei molti errori causato e molte calamità. Tu sei giunto troppo tardi. Il mio cuor'^ è vulnerato insanabilmente. Ma a te dispiace eh' io parli così. Ridiamo dunque. — 185 — ( Gruppo dì personaggi. Il Milanese e il gentiluomo da un lato, Pasqnaloni e Pieri dall'altro, Tasso e Manso nel mezzo, Telesio seduto). Manso. L'avvocato ti ha date buone speranze? Dura già eh' è un buon pezzo cotesta tua lite I Tasso. Ei chiede danaro. Manso. Ciò eh' io possiedo, è tuo ; e se T amicizia fosse un calcolo, tu me ne ricambi assai largamente. Un giorno non per le mie ricchezze, né pe' miei vassalli io sarò ricordato; diranno i posteri: Giambattista Manso fu un amico del Tasso ! Gentil. Che gliene pare insomma? {additando il Tasso al Milanese). Mil. Eh !.... ha un nobile portamento. Si vede che è gen- tiluomo, un mio pari! — E quel cotale, là, col mento in aria, che non ha detto ancor sillaba ? Gentil. Un certo Telesio, Bernardino o Berardino, quale si sia il suo nome. Uno di Cosenza. Egli fa il filosofo. Mil. E veste filosoficamente {squadrandolo). Pieri. Giunto alla tomba, ove al suo spirto vivo Dolorosa prigione il ciel prescrisse... Pasq. È vero, è vero. Manso. Che ne dici, Torquato? Non è questa la più bella delle tue ottave ? Mil. E quale stimate voi che sia il miglior verso del Pe- trarca ? Tasso {salutandolo {) Infinita è la schiera degli scioccLi. Mil. Mi pare che il Signore Manno {a Pasqnaloni). Avete letta la Gerusalemme con- quistata ? Pasq. Letta ed ammirata — Non si potea meglio. La cri- tica non avrà a notarvi pure una menda. Tutte le re- gole vi sono osservate. Manso. Eppure ei scrive una teraa Gerusalemme. {Maraviglia) Taxso. È vero. Vi è qualche cosa qui entro {accennando il capo) che non si traduce mai pienamente. Chi ha il senso dell'Arte, muore scontento. Telesio. L'Arte ha ancora la sua vecchiezza. Ci ha un tempo per gli individui e pe' popoli, in cui si rifa da erudito e da critico quello che s" immaginò da poeta. — 186 - Tasso. Un' amai'a verità, o Teleslo. Pure io sperava che la Gerusalemme conquistata Pieri {con fuoco). No, Tasso. Io conosco ben poco Aristo- tile e Platone ; la mia critica è qui (indicando il cuo- re). Ne' primi lampi d'ispirazione è la vita: aggiungi, o togli , spesso sotto più ornata apparenza la poesia è morta: marmo polito e bianco al di fuori, ma freddo e inanimato. Pasq. Bisogna pur confessare che nel nuovo poema i fatti sono più verisimili, e più conformi alla storia, e che so- prattutto sotto il velo della favola si nascondono altis- simi veri. Pieri. Che mi fa a me l'allegoria e la storia? Tasso, tu hai potuto sottoporre la tua ragione libera e creatrice al giudizio de' Salviati e de' Castelvetri ! Tu vuoi tra- sformare Erminia in Nicea, e Rinaldo in Riccardo, sban- dire Sofronia, incatenare Armida e ammogliare Argante. Tu non lo puoi ! Abbiamo versate tante lagrime sugli infelici casi di Olindo ! Erminia e il Pastox'e ci riem- piono l'animo di una cara malinconia; e quando il pove- ro, affranto dalle fatiche, cerca riposo e diletto, e' canta Rinaldo. Tasso, tu hai potuto creare Rinaldo : tu non puoi distruggerlo. Tasso (stringendogli affettuosamente le mani). giovine , in te mi traluce l'immagine de' miei trascorsi anni. Io avea la tua sicurezza e la medesima fìdan/.a in me stesso. Ora le cose mi appariscono di un modo ben diverso. Io ho voluto dare un grand' esempio; ed accostandomi, per quanto ho potuto, ad Omero e Virgilio, richiamare, se ancora è possibile , la Poesia alle fonti eterne del bello. La gioventù trascorre nella licenza ; le regole sono avute in dispregio , e il cattivo gusto si diffonde dappertutto. Il Pastor Fido è l'esagerazione (ìeWAmiata; ed in su questo andare non so dove noi giungeremo. Oggi è costume di disprezzare gli antichi maestri del sapere; e i sofisti sono ritornati di nuovo (volgendosi a Telesio). Telesio. Tu mi tieni un sofista? (pausa — si alza). L'Arte traligna, ed il cattivo gusto già signoreggia tra noi: dici vero. Ma confortati , o Tasso. Nella vita umana non vi è interregno: la Poesia muore e la Filosofia na- sce. Tu compi un secolo, io ne comincio un altro. Pieri. O Telesio, tu riveli alla mia giovane mente un mon- do nuovo. - 187 — Telesio. Tu m' intendi, tu, giovane : la parola dell'avvenire non fruttifica che ne' giovani cuori : i vecchi non mi comprendono. Si, Pieri; una secreta idea travaglia le umane generazioni ; il regno dell'autorità crolla e la ra- gione già scuote i suoi ceppi. Verrà tempo che gli uo- mini redenti ricorderanno con gratitudine colui , che oggi è chiamato un solista ! (Manso, chiamato, lascia la scena). Tasso, {con grava benevolenza). Nobile confidenza della gio- vanezza! Questo mondo, che per voi s'incammina a vita nuova , per me ogni di più s' intenebra e si dissolve. Ma io non imiterò i vecchi lodatori del buon tempo antico : la gioventù è la nuova generazione, ed il vec- chio dee riverire in quella la posterità che incomincia per lui. - Operate. Concedete l'ardire di un tale con- siglio a questi bianchi capelli : operate , o giovani. — Noi abbiamo percorsa la nostra via, e non senza lode: a ciascuno il suo tempo. Quanto a me, le mie illusioni sono svanite. La mia vita è stata simile a un sogno. Amore, gloria, felicità allettavano la mia giovinezza; ed io correva appresso a queste care ombre, che lusin- gando mi fuggivano dinanzi. Ora il sogno si è dilegnato: e di tante dolci speranze, che mi resta egli più ? Pieri, Pasq., Telesio. La gloria ! Tasso. Anche la gloria è a me negata ; anche la gloria i miei nemici mi contrastano. (Entra il Manso con una lettera in mano). Manso. Onorate l'altissimo poeta! Si, godi, o Tasso; apri alla gioia il tuo animo. Lettera del Cardinal CinzioI — Sono felice abbastanza , poiché al tuo amico è con-e- duto di dirti : Torquato Tasso, va a ricevere in Roma quella corona, che fregiò la fronte di Francesco Pe- trarca ! ( Tutti si serrano attorno al Tasso: questi rimuiK con la lettera in mano assorto ; indi esclama) Tasso. Un altro sogno ? Tutti. No, no. Tasso. Dunque, io l'avrò? quella corona, secreto desiderio e mia perduta speranza, io l'avrò? No, non è vero. Io non fui infelice. IV. La Scuola. [i^uesto articolo fu pubblicato ne\ì& Nuoiia Antologia, agosto 1872: ed è stato recentemente ristampato dal Morano in un opuscoletto di pp. 24 dal titolo: Francesco de Sxvctis, La Scuola — Pulcinella, sag- gio di Giorgio Arcoleo (Napoli, 1897). Ad illustrazione di quest'arti- colo vedi l'opuscolo del Torraca: Dal " Libro della scuola „ di Fran- cesco de Sanclif, MDCCCLXXII (Roma, 1885); e la prefaz. al volume La letteratura italiana nel sec. XIX. Abbiamo tralasciato il lavoro del- l' Arcoleo che v' era inserito , come non essenziale all' intelligenza dello scritto del De-S., e potendosi leggere nel fascicolo della Nuora Antologia, e nella citata ristampa in opuscolo.] Chiedo scusa a' lettori deìV Antologia del mio lungo si- lenzio. Ma cosa farci? Il mio cervello e ora tutto scuola, e li dentro non ci cape che una cosa alla volta. Sicché, ri- solvendomi pure a voler ricomparire innanzi a loro , sieno «ontenti che io fri' intrattenga un po' della mia scuola: che )n saprei davvero parlar d'altro. Una scuola non mi par cosa viva, se non a questo patto, che accanto all'insegnamento ci stia la parte educativa; una ginnastica intellettuale e morale, che stimoli e metta in moto tutte le forze latenti dello spirito. Il meno che un giovane possa domandare alla scuola è lo scibile, anzi lo scibile e lui che dee trovarlo e conquistarlo, se vuole sia davvero cosa sua. La scuola gli può dare gli ultimi risultati della M!ienza, e se non fosse che questo, in verità una scuola è di troppo; tanto vale pi<:liarli in un libro quei risultati. Ciò che un giovane dee domandare alla scuola 6 di esser messo — lUO — in grado che la scienza la cerchi e la trovi lui. Perciò la scuola è un laboratorio , dove tutti sieno compagni nel la- voro, maestro e discepoli, e il maestro non esponga solo e dimostri, ma cerchi e osservi insieme con loro, si che attori sieno tutti, e tutti sieno come un solo essere organico, ani- mato dallo stesso spirito. Una scuola così fatta non vale solo a educare l'intelligenza, ma, ciò che è più, ti forma la volontà. Vi si apprende la serietà dello scopo, la tenacità de' mezzi , la risolutezza accompagnata con la disciplina e con la pazienza ; vi si apprende, innanzi tutto, ad essere un uomo. Cosi ho sempre concepita io la scuola , e sempre mi è parso cosa facile : perchè là dentro io ci mettevo tutto me, e godevo di vedermi giorno per giorno sbocciare innanzi questo e quel fiore , ora rivelarsi una intelligenza, ora di- segnarsi un carattere, ora un rozzo spirito visibilmente tra- sformarsi. A Zurigo il 9 agosto del 1856 ricevei una let- tera che conservo, cara memoria. Cito alcuni brani: «Quale impressione ha fatto su di me la vostra scuola, non posso dire. Mi sento un altro. Perdonate, se anch' io, lo scolaro, sciolgo il freno a' miei intimi sentimenti. Voi siete il mio gran benefattore, ed io sono il gran debitore. Non sono a - dulatore, parlo col cuore sincero di buon tedesco. E potessi io divenire il vostro amico ! Ma, giovane inesperto ancora senza profonde cognizioni , non posso essere vostro amico adesso : troppo grande è la difi'erenza. Spero di esserlo ^iù tardi, quando mi son fatto degno, divenuto uomo di prati- ca, di carattere provato, di più fina coltura. Questa sarà la mia mira. Se mi sarà permesso di stringere un giorno con voi il legame dell'amicizia, questo mi nobiliterebbe, mi mi- gliorerebbe. Che bella relazione è tra maestro e scolari, come voi l'intendete! Così, penso, intendeva Socrate l'uffizio di maestro. Voi non volete solo insegnarci quello che sapete; ma vivere con noi, studiarci, formare il nostro spirito, farci buoni cittadini e capaci figli delle scienze per continuo in- flusso. Divenuto anch' io maestro un giorno, seguirò il vo- stro sistema alla meglio, voglio dirmi il vostro scolaro nel vero senso ». Era appena un anno che assisteva alle mie lezioni. Ci venne ispido, timido, tutto ancora involuto in sé. Stava lì in fondo, solo, non curato da alcuno. E venne alfine il suo giorno. Scrisse un buon lavoro, tutti gli occhi furono .«^opra di lui, piacque a se stesso. E, come dice lui, si sentì un altro. Gli 6 che quell'altro gli si era andato formando a grado a grado al di dentro, per continuo influsso , come — 191 — jii dice nel suo linguaggio pittoresco. E la scuola è ap- punto questo continuo influsso. Una scuola simile ho iniziata in Napoli, sono pochi mesi. Qui era la tradizione della prima scuola (1). Mi presentavo ai figli de' miei vecchi discepoli. Avevo gran desiderio di tastare questa nuova generazione, nella quale sono poste le sorti dell' edifizio tumultuario e frettoloso da noi innalzata. E r ho trovata migliore della sua riputazione. S'era fatto un gran dire de' nostri milioni d'analfabeti, de' pessimi esa- mi liceali, e mi sonava ancora all'orecchio queW abbasso Senofonte .\ che fece il giro di tutta Italia (2). Ma non è col vilipendio che si forma una generazione. Quanto a me, dico schietto che ho ritrovata la mia gioventù napo'itana , come stava nella mia memoria. L'ambiente è mutato: non ci e più queir aria di sentimentale alla Byron o alla Leo- pai'di, che rivelava aspirazioni confuse e non soddisfatte, di che è rimasto tipo tradizionale Luigi La Vista (3). Allora eravamo tutti malati , maestro e discepoli , malati del mal del paese. Oggi la patria e' è ; e la gioventù tra un ideale soddisfatto e un altro da venire e non ancora ben chiaro, sta senza bussola, senza un di là, e si chiama positiva. Gli è come marito e moglie, soddisfatti oramai e annoiati della loro soddisfazione, perchè in essi non è penetrato ancora il sentimento di una vita nuova e più seria; la famiglia e fuori ancora del loro spirito. La gioventù è nella sua luna di miele, sazia di patria e di libertà, felice e annoiata delia sua fe- licità, perché non si è messa ancora in cammino verso nuovi orizzonti. Indi quella sua aria un po' svagata e distratta, che ci ha colpiti e disposti male. Ora rinnega l' ideale, perchè non ne ha alcuno, e cerca e non trova il reale, e si chiama e non è "positiva, e, contenta a quel nome nuovo, non pensa a rinnovare la sua sostanza, e se la passa così tra spensie- rata e annoiata. Ma è stato transitorio. Comincerà anche per lei vita nuova e veramente positiva. Libertà e patria è una ei-edità acquistata senza fatica sua. Il suo compito e rendere questa eredità cosa positiva , dare alla liberta un ■1) D.^I 1883 al 1848. {ìiota del De-S.) 2) Facezia inventata da un giorualiata, che ò passata per un fatto nlmente accaduto , ed ò stata tante volte citata a testimonianza dello condizioni intellettuali degli scolari d' Italia! (3) Studente ucciso in Napoli dagli Svizzeri il 15 maggio 1848. Il professore Villarì ha con pietosa cura raccolti e pubblicati i suoi scritti. (S'ota del I>e-S.) — 192 — contenuto e fissarlo bene nella coscienza, rifare e realizzare 10 spirito italiano, fondare, sotto a quella unità geografica che si dice la patria, l'unità intellettuale e morale. L' ere- dità acquistata è una forma quasi ancora vuota ; il suo com- pito è farne cosa viva e organica, un contenuto ricco e omo- geneo. Questo verrà. Perchè, sotto a questa apparente svo- gliatezza, trovo l'antico fondo della nostra gioventù ancora incorrotto: quella ricca immaginazione, quell'amore del sa- pere, quella febbre delle lettere, quel desiderio di cose nuo- ve. Sono forze altere che tumultuano nel loro ozio. Date a quelle uno scopo chiaro e ben definito , e avrete la disci- plina tenace e pacata di forze messe in esercizio. Cominciai la scuola con questo disegno, di associare i giovani al mio lavoro, e fare che ciascuna lezione fosse il prodotto di un lavoro collettivo. — Spiegherò il soggetto di una lezione, indicherò le indagini, le analisi, i libri da con- sultare, i materiali da raccogliere, e poi li comporremo, li formeremo, et lux facta est^ e la lezione è fatta. Avremo forse una sola lezione in un mese , ma sarà frutto del la- voro collettivo di tutto il mese. — Ciascuna lezione sarebbe stato un avvenimento. I giovani 1' avi'ebbero veduta nasce- re, formarsi, acquistar colore. Questo è il laboratorio com' io r intendo. Questa è la scuola normale. Ma vidi subiio non esser possibile cominciare così. Mancava quella certa ugua- glianza di coltura, quella comunione degli spiriti, che renda possibilmente armonico un lavoro collettivo. Di giovani ce n' era troppi, vogliosissimi, con abitudini teatrali, impazienti di sentir cantare il maestro e battergli le mani. Quando dissi a certuni che avrei fatta una lezione sola al mese, mi guar- darono in faccia , come avessi detto un grosso sproposito. 11 mio sistema richiedeva una modestia e una pazienza di lavoro troppo lontana dalla scuola accademica , quale an- cora è oggi. Mi risolvei dunque di cantare anch' io , lavo- rando la mia lezione tutto solo ed esponendo a' giovani i risultati del mio lavoro. Ho dovuto sul principio andare molto adagio, passo passo, e fermarmi a ciascun passo, e tirar bene la loro attenzione su' passaggi e sul cammino del discorso, e introdurli con molta cautela nelle analisi più delicate, riassumere, render conto di ciascuna idea, infram- mettere teoria e critica, usare forma popolarissima e chia- rissima. Cansavo al possibile le formolo , le definizioni , le regole troppo meccaniche e assolute ; perchè i giovani in- clinano al dommatismo , e se possono afferrare una regola una definizione, credono avere in mano la scienza, e sta- - 193 — diano e giudicano a priori, secondo certi preconcetti. Questo impedisce in loro lo sviluppo dello spirito critico, vizia l' impressione e il gusto , sostituisce alla loro spontaneità una coscienza artificiale. La scuola, quando non vi si rin- novi spesso r ai'ia , genera queir insetto roditore del cer- vello, che dicesi pedanteria. E primo ci capita il maestro, quando non abbia la forza di ventilare la sua intelligenza e si addormenti sulle sue teorie , e ripeta meccanicamente se stesso. Il che induce nel giovane la mala disposizione a volere in ogni caso singolo guardare le generalità e non quello che esso ha di proprio e d' incomunicabile , la sua individualità o personalità , dov' è la sua vita. Mi ricordo che nella mia prima scuola, quando un certo indirizzo in- tellettuale e morale durava un par d' anni , già ci si sen- tiva la maniera, l'abitudine, il meccanismo, e saremmo im- pedantiti tutti , se non fosse stato in noi il vigore e l' en- tusiasmo della gioventù , che ci teneva in un movimento continuo di formazione e di progresso. Negli ultimi anni la maniera fu un certo sentimentalismo fiacco e tutto d'im- maginazione , a cui successero presto, come antidoto , i ri- tratti storici e letteraria Non dava tèmi , ciascuno li ca- vava da' suoi studi e dalle sue inclinazioni. Pure prevaleva a quando a quando una certa natura di argomenti, una certa intonazione, e quello che prima era spontaneo e naturale , diveniva freddo e artificioso. Ma ci era un gran correttivo, la discussione, la continua lettura, l'attrito delle opinioni, un orizzonte spesso rinnovato. Io ho sempre stimato che la sostanza della s'uola è tutta in questa parte educativa, la quale regolata bene darebbe buoni frutti, posto pure che il maestro fo.=se poco felice nelle sue lezioni accademiche. Perciò al mio soliloquio ho voluto aggiungere il dialogo, una di- scussione pubblica sopra quel lavoro , che mi fosse parso più acconcio ad essere studiato con profitto. Le difficoltà sono grandi. E prima ci è la noia. I giovani che discutono non sono tutti aquile. E non tutt' i lavori sono interessanti. Lo sbadiglio e 1' accompagnamento obbligato delle accade- mie e de' parlamenti : che dire di una scuola? soprattutto per quelli che ci vengono con animo più di spettatori che di attori. Poi, ci è in fermentazione tante piccole passioni, tante naturali tendenze della gioventù; l'amor proprio che si ribella, una certa superbietta che spunta, la gelosia, la tristezza, la presunzione e la pretensione. Perchi questo e- sercizio possa andare, ò dunque mestieri creare nella scuola un'atmosfera morale. Alcuni non ci resistono, ma quelli che Db Sahctis — Manzoni e acritti varii — Voi. II. 18 — 194 — ci stanno, si trasformano, si sentono un altro, come diceva il mio tedesco là a Zurigo. E questo è grande beneficio : perchè tutte quelle passioncelle ingrandiscono con l'età, ac- quistano consistenza, e formano quel medium morale , elio dà una fisonomia alle classi intelligenti. Per me è fuori di dubbio, che, se ne' nostri uomini anche più colti ci è una certa debolezza di tempra, se in loro generalmente la saga- cia è astuzia e intrigo, l'ambizione è vanità, la collera è stiz- za e pettegolezzo, la volontà è velleità, e l' idea è opinione, si dee in gran parte alla poca virilità dell'educazione sco- lastica. Alla fiacchezza de' corpi si provvede ora con la gin- nastica; non ci è anche una ginnastica per corroborare gli animi? Dirò che non ho dovuto penar molto a formare que- st'atmosfera morale. I giovani sono naturalmente docili e generosi; e la vostra autorità è irresistibile, quando voi vi fate stimare da loro per la vostra imparzialità e rettitudine, per la serietà che mettete nel vostro ufficio. Molto ancora e a fare ; ma oramai ci è già una fisonomia della scuola , una certa misura ne' sentimenti e nelle forme, che" ci rende impossibile la volgarità e la bassezza. Opera non meno diffi- "cile è l'educazione intellettuale. E, per conseguire questo scopo, io soglio attirare l' attenzione meno sulla verità o fal- sità del contenuto , che sul modo col quale il contenuto ò organizzato. I giovani sono inclinati alle disputazioni astrat- te, massime i napolitani, di così pronto eloquio, d' ingegno così sottile, tutti avvocati nati. Ciò che io domando più spes- so, è questo: — ci è qui un disegno? e se ci è, è bene svi- luppato? l'analisi è esatta? è ben distinto dagli aceessorii il sostanziale? — Passo poi alla proprietà e al colorito della ^espressione. Non è già che sieno queste per 1' appunto le mie domande; vario molto, mi lascio tirare dalla natura del lavoro. Ma la mia intenzione è quella. Miro a svilup- pare ne' giovani le forze intellettuali, avvezzandoli alla se- rietà e precisione del disegno , alla correzione e proprietà dell' espressione , e svegliando in loro quel vigore e nesso 'logico, che manca alla più parte dei nostri scrittori. Credo più utile questo esercizio che le grammatiche, le rettoriche, le arti dello scrivere e le logiche. E qui altre difficoltà. Mi «on veduto piovere addosso drammi e commedie, gli argo- menti più semplici prendevano le proporzioni di un libro , più povera era 1' esecuzione, e più vasta era la concezione, i giovani sono inclinati al generalizzare , e quanto minore e in loro il senso pratico e positivo della vita, tanto più vi abbonda l' immaginazione, e stanno volentieri nel vago, nel- — 195 — l'iudefinito. Aggiungi le nostre enciclopedie, le nostre filosofie della storia, i nostri sedicenti corsi ideali, e con queste ten- denze e con tutta questa roba in capo, la nuova generazione osa chiamarsi positiva. Una volta diedi questo tèma: fatemi un ritratto del Pulcinella. Avevo innanzi il bel ritratto di Goethe, così succoso nella sua brevità (1). Ed ecco sfilarmi davanti de' veri trattati su quella maschera, e delle faree, e fino delle commedie. Il più bello è che Pulcinella rimase annegato fra tante qualità che gli affibiarono, spesso con- tradittorie, sicché dovè parere a molti un personaggio assur- do. Mancava la forza di cogliere in tante varietà apparenti la nota fondamentale, che da un carattere a quella masche- ra. Tre venerdì furono consacrati a questa discussione. Ci furono una ventina di lavori , parte letti e discussi , parte osaminati da me in modo sommario. Un venerdì lesse il suo lavoro Giorgio Arcoleo. Si fece subito silenzio , e' era una certa aspettazione. Un altro suo lavoro l' avea già messo ti*a* migliori, e nella scuola si forma presto una gerarchia naturale e riconosciuta , la gerarchia dell' ingegno. Il suo lavoro fu udito con molta attenzione , e in parecchi punti interrotto da segni non dubbii di approvazione. Io voglio farvelo sentire (2). che roba ! mi direte. Non si poteva mo' dire questo medesimo in due pagine? Fatto è che agli uditori non parve lungo. E il nostro Arcoleo, quando ebbe finito di leggere, aveva la faccia radiante tra' bravo e i bene che gli veni- vano da molti lati. Comincia la discussione. Che ve ne pare? chiesi al signor Giliberti : ditemi la vostra impressione. Que- sta è abitualmente la mia prima interrogazione. Io sto molto all' impressione. Desidero che il giovane prenda le mosse non da regole astratte , ma da se stesso , da quello che si passa nel suo animo, e si avvezzi così a guardarsi in sé, a cogliere i suoi minimi moti interni, a sentirsi ed a sapersi. Questo lo tiene nel vivo e nel concreto, gli sveglia lo spi- rito critico, gli forma un mondo più virile, il mondo della riflessione e della coscienza. Che ve ne pare , signor Gili- berti ? E il Giliberti : « La mia impressione è questa , che il lavoro è riuscito a cattivarsi la mia attenzione, sì che ho potuto seguirlo senza fatica , anzi in certi punti con vero (1) Nel sao Carnevale^ parte II del Fautt. (Nota del D«-S.). (2) Seguiva a questo punto il lavoro dell' Arcole», dal titolo: PuU rinfila dentro e fuori di teatro. — 196 — ■piacere : pure in conclusione non ho ancora innanzi il ca- rattere del Pulcinella, e mi è parso che il Pulcinella sia ■qui piuttosto r occasione che 1' argomento ». L' impressione era giusta. E la discussione non fu se non l'analisi e lo svi- luppo di questa impressione, che a poco a poco si andò tra- sformando in un giudizio bello e buono, fondato sui principii eterni dell' arte , che ciascuno cercando bene trova in un cantuccio spesso dimenticato della propria anima. Il Pulci- nella innanzi al signor Arcoleo si era subito svaporato in una vuota generalità , come è il caso appunto de' giovani. Non fu più un individuo , fu un simbolo , il nome proprio del comico preso nella sua generalità, un Pulcinella sfumato tra' vapori del cervello, e, come dice l' autore, guardato col cannocchiale. Accostandosi un po' più all' argomento , gli è ■venuta un' idea giusta. Pulcinella, ha detto, non è il prodotto di un individuo, è il figlio dell' istinto popolare. Ma, §e prima avea troppo generalizzato, qui ha troppo esagerato. Perchè su questa via ciò che è innanzi al suo spirito non è il Pul- cinella, ma il popolo, e si avvezza in quello a guardar que- sto. Anche qui Pulcinella non è un individuo vivo e libero, ma la figura di un altro. Poi, come l'individuo èqui sper- duto tra la generalità e le esagerazioni, non e' è un centro, voglio dire un tipo essenziale , intorno a cui si raggruppi tutto il resto, sicché hai un continuo accavallarsi d'idee e d' immagini senza tregua, e all' ultimo non ti resta nello spirito niente di netto e di conchiuso (1). Di che nasce ancora (1) Vedi il citato opuscolo del Torraca, Dal " Libro della scuola „ pp, 25-29, dove sono riferiti i giudizii del De-S. su parecchi lavori aventi ad argomento il Pulcinella, letti nell sua scuola dallo Zamma- rano, dal Bonari, dal Torraca e dall' Arcoleo, con osservazioni molto interessanti per chi voglia studiar di nuovo il carattere ed il va- lore estetico di quella maschera e delle maschere in genere. — A proposito del lavoro dello Zammarano, uno degli scolari si sforzava di provare che il carattere del Pulcinella non è assurdo e contra- dittorio, come lo Z. credeva ; ed un altro, die 1' autore mal si ap- poneva considerando come qualità principale del carattere di Pul- cinella il frizzo, eh' è effetto di qualche altra cosa interiore. A pro- posito del lavoro del Bonari, il Prof, diceva che l'avere considerato assurdo il carattere di Pulcinella , per le contraddizioni che vi si scorgono, dipendeva dal non aver colto la nota fondamentale di esso, per la quale non è rimasto solo in Napoli , ha avuta voga fuori d' Italia : essa costituisce di Pulcinella la maschera delle maschere. Distingueva ne' tipi comici la formazione primaria dalla secondaria. La prima si ha quando si assegna al tipo un carattere determinato che non può piìi mutare, come il Brighella, il Capitan Spavento, etc. La seconda , quando, rimanendo sempre la stessa nota fondamen- tale, ci si ricama intorno: cos'i si forma il repertorio, e dì qui le - 197 — la qualità della forma, niente riposata, anzi tumultuosa, e talora impropria, tutta a raffronti ed antitesi, ad allusioni e rapporti, impaziente della ricerca e dell' analisi, afferma- tiva, assoluta e perentoria, e, per paura del luogo comune, troppo distillata. Pure, che copia d' idee e d' immagini! che facilità di movenze e di rapporti ! quale moto continuo e rapido di discorso, sì che non ti arresti mai, mai non sta- gni ! Ti senti in presenza di un ingegno non ordinario. Che (!Osa manca al nostro Arcoleo? Letture ha troppe e d'ogni sorta ; reminiscenze involontarie gli si affollano : notizie d' idee e di cose ha da affogarvi entro; molti mondi smoz- zicati, contradittorii cozzano, nel suo cervello; che gli manca? Lui stesso lo ha detto: perchè, all'ultimo, preoccupato dal- l' aria della scuola , previene la critica e se la fa lui. Gli manca un senso della vita più esatto e concreto attraver- so le cose e non attraverso le idee, come lui dice assai bene. E non già perchè sia miope, come crede, anzi è pre- sbite ; vede da lontano e in confuso e non vede le cose più vicine. E gli manca pure un mondo suo elaborato tra' dolori e le gioie della sua coscienza. Molti rimangono cosi in aria, e non conchiudono. Conchiuderà il signor Arcoleo? Ma e tempo che conchiuda io. E la mia conchiusione è questa, di poter lasciare dopo me una scuola che mi continui, e mi parrà di non esser vivuto indarno, quando il frutto della mia vita sia una scuola, dove non sia solo rinnovata l'in- telligenza, ma tutta l'anima; ciò che io chiamo educazione. dissonanze e contraddizioni. Pulcinella nella nota fondamentale, rap- presenta il popolano sciocco ed ozioso. Nelle altre mascliere queste qualità ci sono, ma rimangono accessorie. Pulcinella fa ridere a spese 8ue; altre maschere a spese degli altri. Goethe ba colto questa nota , e il Prof, leggeva il brano citato della Seconda parte del Fausto. A proposito del lavoro del Torraca, accennava che la que- stione della futura trasformazione del Pulcinella si riconnette con 'juella dibattuta fra il Qoldoni e Carlo Gozzi. Accennava alle fiabe, creazione popolare, per la quale banno ^'rande propensione i tede- schi; onde le lodi dello Schlegel pel Gozzi, e i temi del dramma del Wagner. Ma le fiabe , come parto della fantasia popolare , do- vrebbero avere ingenuità , sentimento del maraviglioso, cose che mancano nelle fiabe del Gozzi. Gozzi e Goldoni avevano entrambi ragione. Ma ci sarà più Pulcinella? Il nome e il personaggio potranno cambiare; ma il comico non potrà morire. È però un'acuta osser- vazione quella dell' Arcoleo: che il tipo comico dell'avvenire sarà Triboulet; il che significa che la commedia cede al dramma. E si appone in parte al vero, dicendo che il Pulcinella finirà nelle l»:iracche dei burattini. Criticava l'altra osservazione dell' Arcoleo, che la nota fondamentale del carattere di Pulcinella sia 1' esterio- ritù, ch'è fatto estetico generalissimo, che domina tre secoli della iett««ratura italiana, non particolare del comico e di Pulcinella. riÌHMIMIWWIIIIIIIIIIIIIIIliniinil'WMIIIIiltgglWIIIIIWI'WIMtHllllilflHM imumiMM»! Discorso pronunziato a Trani il 29 gennaio 1883. [Qaesto discorso fu stenografato dal Mandalari e dallo stesso ri- Ht&oipato neir opuscolo : A F. de S. nel III anniversario della tua morte gli alunni del Liceo ginnasiale Pietro Giannone di Caserta, Ca- serta, Jaselli, 1886. Il De-S., non rieletto deputato di Avellino nelle elezioni genarali del 1882, pose la sua candidatura nel collegio di Trani, convocato a" 7 gennaio 1883. Dopo la proclamazione e con- validazione dell'elezione, negli ultimi giorni di gennaio, si recò a Trani, dove tenne, il giorno 29, il discorso che riproduciamo.] Signori , Questa è la prima volta nella mia vita che mi trovo a fare un discorso in teatro. Su di un paleoscenico mi sento come separato da voi, e la vita mi pare non più una mis- sione, ma una scena, e l'oratore mi si trasforma in attore, che gonfia le gote e simula passioni e caratteri. Questo non mi va; e proprio ciò che ci è di più contrario alla mia na- tura modesta e semplice. Io sono un uomo fatto così alla buona, e mi piace di stare in mezzo a voi e trasfondere in voi la mia anima e ricevere da voi le mie inspirazioni. K poiché dicono che io sono un uomo distratto, voglio questa volta fare un grande sforzo di distrazione, e oblio il palco- scenico e mi figuro che io mi trovi a un convegno deside- rato, con vecchi amici. Signori, io sono ancora sotto l' impressione dell'accoglienza magnifica per cordialità di espansione, per quella pulitezza — 200 — dì costume e ordine nel brio, per quel fare di grande città, che mi faceva leggere sulle vostre fronti: « Noi non siamo secondi a nessuno ». La vostra accoglienza era degna della vostra votazione : splendida espressione l' una e l' altra della vostra benevolenza verso l'esule, al quale avete restituita la patria, onorando voi stessi e mostrandovi capaci di quella riverenza alla vecchiezza, di quell'ossequio a' benemeriti , che sono i sentimenti ed i doveri elementari, e quasi l'al- fabeto di un paese che vuol dirsi civile, E questi sentimenti furono in voi cosi gagliardi, che non solo i partiti locali , che vogliono pur far sentire la loro voce nelle elezioni, ma i partiti politici e le diverse classi sociali si trovarono concordi in una sola votazione. E cosi indovinavano il mio desiderio, e forse anche un po' la mia natura. Io non sono propriamente un uomo di partito, non ho animo partigiano. La mia inclinazione è non di guardare dentro nel partito, ma di guardare al disopra, là nel paese, del quale i partiti sono istrumento. Quando io vedo uomini, che non escono da quella cerchia stretta, che si chiama un partito, e inventano una giustizia, una verità, una libertà a uso del partito, e vogliono il bene per sé e non per tutti, io mi ribello e dico: « No; la giustizia è una, la verità ò una ».- I partiti sono tanto più forti, quanto meno pensano a 3è e più pensano al paese ; ed hanno in questo il loro premio, che di- ventano cosi centro di attrazione e di simpatia, e ingrossano, e sono incoraggiati e sostenuti. Questo è quello che io chiamo il patriottismo di un par- tito, quel sentire viva e presente la patria in mezzo al par- tito , quel tenersi in continua comunicazione con tutto il paese. Voglio darvi un esempio, ed esco per poco dalla mia distrazione e ritorno al teatro. Stiamo sul palcoscenico, voi siete la platea. Se Io scrittore o l'attore s'infoca nell'azione, e non tien conto del pubblico, e non infoca anche quello, nasce una diversa temperatura; e più s'infoca l'attore e più la platea si raffredda, e non lo sente, e si mette a chiac- chierare e prende l'occhialino e guarda le belle signorine ne' palchi. La platea è il paese, che assiste all'opera de' par- titi ; e quando questi s' infocano , il paese innanzi a certe collere a freddo rimane indifferente , e volge le spalle , e nasce quel terribile fenomeno, che si chiama l'apatia; il paese che abbandona i partiti, e talora, talora deserta per- sino le urne. Bisogna pensare al paese , se volete che il paese si occupi di voi. E, perchè tutti sanno che io , pur rimanendo fedele al mio partito, mi ci sto v^olentieri al di — 201 — sopra, tutt' i partiti politici mi stimano e mi voorliono bene, e voi lo avete maravigliosamente compreso, unendovi tutti intorno al mio nome , e guardando in me più il patriotta che r uomo di partito. Lasciamo dunque i partiti e parliamo del paese. Voi non vi attenderete da me un programma po- litico. Già io ho avuto sempre poco gusto per questa spe- cie di programmi, eiie sono, in certe occasioni, come una rete per pescare qne' buoni pesci, che si chiamano gli elet- tori. Vedete , per esempio , quel cosi detto programma di Stradella, intorno al quale si assidono uomini di tutti i co- lori e di tutti i sapori, e mi viene in mente quel detto di Tallevrand, e dico che, come la parola, così il programma politico, pare talora messo li per covrir meglio il nostro pensiero. Del resto, per gli elettori di spirito il vero programma è tutta la vita di un uomo, e questo è il programma che io presento a voi. Più che fare un programma, io voglio dirvi quali sono le mie aspirazioni per il bene del mio paese. Noi abbiamo oramai V unità nazionale; ma a questa unità manca ancora la base, manca V unificazione. E l'unificazione è quel lento lavorio di assimilazione, che dee scemare possibilmente le distanze, che separano ancora regione da regione e classe da classe. E a ciò non conduce questo aguzzare di continuo le passioni e le differenze di classi e di regioni, e seminare odio, invidia, uno stato di guerra negli animi, perchè l'odio non crea niente, ma distrugge tutto, e perchè questo non e unificare, ma segregare l'Italia, è un delitto contro l'unità nazionale. Io vi dirò qual è il mezzo per giungere a questa unificazione. L'organismo sociale esimile all'organismo uma- no, nel quale la malattia di un membro, se tu la trascuri, diviene malattia e morte di tutto l'organismo. Se una re- gione langue, quel languore si ripercuote in tutte le regioni d'Italia; e una classe che soffre, diviene una piaga infissa nel corpo sociale, che si fa cancrena e lo uccide. Il male di uno diviene il male di tutti; e nasce quel .sentimento di so- lidarietà, che ci fa sentire come nostra sventura, sventura «li tutta Italia, la sventura che colpisce una regione, o una cla.'se. E noi dobbiamo esser pronti all'aiuto non solo in nome di questa o quella regione, di questa o quella classe, ma in nome di tutta Italia, per il bene d' Italia. Noi dobbiamo creare negli animi questo sentimento di solidarietà, amore, carità, fratellanza; e avremo allora l'unificazione, avremo data alla nostra unità quella base di granito, che la renda - 202 — indistruttibile non solo nella nostra coscienza, ma nella co- scienza de' nostri avversarli. E, per formare questo sentimento di solidarietà, dobbiamo creare un ambiente , nel quale possa svilupparsi e vivere. E quando io fui nella vita politica, e vidi formarsi un am- biente, nel quale talora i bassi fondi sociali osavano di al- zare la testa e cercavano d'imporsi; quando vidi in quell'am- biente svilupparsi e vivere e prosperare la corruttela poli- tica, eh' è il tarlo de' governi parlamentari, e trionfare Via politico, che è la politica usata a vantaggio dell' w, io mi sentii correre la penna tra le dita e scrissi certe pagine nel Diruto, la cui conclusione è questa frase: Bisogna purificare r ambiente. E poiché mi sento già in familiarità con voi , voglio spiegarvi come in me sono nate queste impressioni nella mia vita politica. La politica non è stata mai per me una vocazione; io ero nato per vivere in mezzo a' miei giovani, e ad essi pre- dicare ciò che mi pareva il bello ed il buono; e mi sen- tivo tanto felice in mezzo a quelli. Io non parlai loro mai di libertà, non parlai mai d'Italia; parlavo della dignità personale, e dicevo : — Guardate in tutto la dignità della vostra persona : quello che voi dite è parte di voi , è la vostra personalità, e mentire alla vostra parola è un mu- tilare la vostra persona , è fare una cattiva azione, è uno sporcare la vostra persona! — Mantenete intatta e degna la vostra persona. — E in questa parola c'era tutto: c'era la patria, c'era la libertà, e' era l' Italia, e' era la virtù. Allora durava ancora, e con- tinua anche oggi , quel vizio ereditario della nostra deca- denza, che divenne il tarlo dell'intelligenza italiana, e si chiama la rettorica, quella frase luccicante, che contenta e interessa per sé , e nasconde la vacuità del pensiero e la freddezza del sentimento, e genera un calore fittizio e mor- boso. E questa io combattevo non solo in nome del buon gusto, ma in nome della dignità umana, perchè la retto- rica é queir alti'o dire ed altro fare, quel pensare che non è sentire, quel sentire che non è fare, che è stato per lungo tempo il carattere e la vergogna della razza italiana. Io dicevo che la scuola dev' essei^e la vita; e quando venne il giorno della prova, e la patria ci chiamò, maestro e di- scepoli dicemmo: — Ma che? La nostra scuola è per av- ventura un' accademia? Siamo noi un'Arcadia? No; la scuola e la vita.— E maestro e discepoli entrammo nella vita poli- tica, che conduceva all'esilio, alla prigione, al patibolo; e — 203 — i miei discepoli affermarono questa grande verità che in scuola è la vita, chi con la morte, chi con la prigione, chi col confino, chi con l'esilio; ed io, io seguii le sorti dei miei discepoli, gioioso di patire con loro! Così la vita politica fu concepita da noi come un dovei'e ed un sacrifìcio-, ed io, entrando nel Parlamento, mi por- tavo appresso il professore, e quello che fui nella scuola , fui nella Tita; e quando vidi l'ambiente viziarsi, e il pub- blico indifferente o motteggiatore, quello stato degli animi, che trasforma a poco a poco il vizio in costume e genera dissoluzione morale, fui preso da quella indignazione, che talora è necessaria per rompere l'aria e far entrare la lu- ce. Nella mia ingenuità pensavo che bastasse predicare per mutare il mondo e avevo molta fede in quelle pagine, le quali mi hanno procurato molte noie, ma che pur riman- gono il mio titolo d'onore nella mia storia politica. L'opera de' secoli non si cancella in un giorno; ed io vidi che f7 primo programma politico dev' essere la nostra educazione^ sola capace di creare quel buono e sano ambiente , dove possa fruttificare la sincerità, il patriottismo, il sentimento della solidarietà, il dovere dell'abnegazione, la gioia del sacrifizio. E questa Italia , che ride nel mio pensiero , non ve la può dare che l'educazione; e noi, o signori, pensiamo troppo all' istruzione , e non pensiamo abbastanza all' edu- cazione. E che cosa è l'educazione? L'educazione è l'ingrandi- mento del nostro io, che fa suo, fa parte di sé quello che è fuori, e che è pure suo prodotto, la famiglia, il comune, la patria, l'umanità; e l'uomo dalla solitudine del proprio 70, che lo confonde con l'animale, s'innalza ai più alti ideali, e talora diventa un eroe, quando, sacrificando il pro- prio io, sa soffrire e morire per quelli. È r educazione che ingrandisce i nostri cuori con l' in- grandire de' nostri intelletti, e trasforma le società e le fa simili a noi. Io mi ricordo. Un giorno stavano intorno a me i giovani, e mi esprimevano le loro fantasie, e chi vo- leva l'Italia fatta cosi, e chi diceva no, dev'essere fatta cosi, e mi rammentavano quel re spagnuolo, che voleva fa- re la lezione a Domeneddio, e « se fossi stato io, avrei fatto il mondo cosi». E io dicevo a questi giovani: — Studiate, educatevi , siate intelligenti e buoni. L' Italia sarà quello che sarete voi. — Ora abbassiamo un po' il tuono e parliamo delle cose nostre come in famiglia. Io mi sento orgoglioso di rappre- sentare un collegio, dove è un corpo elettorale così disci- plinato e così patriottico. Mi piace anche che la città capo del collegio, sia stata chiamata l'Atene delle Puglie, perchè tra Atene e i miei studi! e la mia vita e' è pure qualche simpatia. Io cercherò che Atene non resti un titulus sine re, un conte senza contea. Alcuni, che mi negarono il voto, dissero che io ero divenuto un pezzo da museo, una statua da essere messa in un tabernacolo; ma io sento quanto cuore ancora batte in questa statua (1). E son contento, perchè mi sento ancora buono a fare qualche bene all' Italia e qualche bene al mio collegio, e anche alla provincia, alla quale il collegio appartiene. (1) Accenna alle voci fatte correre, prima delle elezioni generali del 1882 nel nativo Collegio di Avellino e per le quali il De-S. andò in Ariano e fece un discorso. {Nota di M. Mandatari). VI. Pagine sparse. 1. Dinnanzi al cadavere di G. B. Calvello. (Il Calvello (nato in Palermo nel 18ip e morto in Napoli il 4 novembre 187-t ) fu professore di storia antica nell' Università di Napoli. Scrisse a lungo di lui il Toeraca, Saggi e rassegne, Livorno, Vigo , 1885, pp. 426-470: cfr. anche Settembrini, Scritti varii , Na- poli, Morano , 1879, 1 , 489. Queste parole del De-S. furono ristam- pat« nel 1886 dal Mandalarì in un ■> degli opuscoli commemorativi, citati a pag. 211.J Quel cadavere che ci tiene qui mesti e raccolti, ha avuto una vita semplice, senza grandi fatti, senza passioni straor- dinarie, vita di lavoro e di dovere, con molti e cari e sacri obblighi, e con proventi scarsi, mal proporaionati all' inge- gno e agli studii. Vita dura, signori ! Pure, quando lo udivi dalla cattedra, quando lo incontravi per via, a veder quegli occhi vivi, quel parlare pronto, quella fìsonomia pura, con quel riso ingenuo di fanciullo, ch'era l'effusione d'una vita interiore pacata e contenta, tu dicevi : — Quest'uomo si sente felice! — La sua felicità era naturale armonia e concordia del pensiero e dell'azione, che lo teneva, ne' momenti più diffi- cili, sulla via diritta, con semplicità, senza vanto ; era mo- destia di vita e di bisogni, che lo rendeva alieno da ogni ambizione, assai contento di adorare le sue divinità, lo stu- dio e la scuola. Di Calvello non rimarrà traccia, altro che ne' parenti e tra gli umici ; questo mondo, troppo preoccu- pato e distratto , dimenticherà Calvello. Io raccomando la uua memoria a voi, giovani, co' quali e pei quali egli è vis- suto ; a voi, che con tanta frequenza eravate a sentirlo, e lo amavate tanto. Ci era una voce interiore che vi dice- va: — Ecco un uomo che fa il suo dovere. - 200 — Le Strenne. [Questa pagina fu pubblicata nella Strenna dell' Associazione della stampa del 1881.] In vita mia non ho mai scritto in nessuna strenna. Una monografia sulle strenne sarebbe un libro curiosissimo che ti farebbe sfilare davanti molti uomini celebri, oggi dimen- ticati, e ti farebbe un quadro vivente della nostra cultura letteraria nella sua rapida vicenda. Il futuro storico cerchi pure , non vi troverà mai il mio nome. Nella prima gio- ventù , quando ero tutto dietro a combattere la rettorica , sentivo in quelle strenne un non so che di arcadico, e mi pareva che quei sonetti, e quelle canzoni, e le leggende, e le prose storiche non esprimessero alcun sentimento vero e lasciassero vuoto lo spirito. Poi mi spiaceva vedere gli ado- lescenti arrampicarsi a quel Parnaso per contemplarsi stam- pati vicino a qualche grand' uomo, e vietava ai miei gio- vani di cercar fama prematura scrivendo in quelle pagine. Ma ora ho mutato avviso, amici miei, e accetto volentieri il vostro invito. In questa vita tempestosa, piena di fastidii e di travagli, nella quale l'uomo è lupo all'uomo, e ci di- voriamo gli uni cogli altri colla tranquillità di filosofi che hanno innalzato il fatto a legge di natura, sotto il bel nome di lotta per l'esistenza, lice un po' d' arcadia , almeno una volta l'anno, celebrando coi bambini la festa del Natale. Il bambino, con quei suoi occhi profondi e sereni, non è an- cora persona, non è cosa terrena. Esso è l'ideale attonito, inconsapevole, pur mo nato, il primo schizzo, in cui si ri- liette e si forma la stoffa del grande artista. Dice Platone, che il bambino è ricordevole; io dico, che ricordevole è l'ar- tista, perchè nessun grande artista è veramente che non senta in sé del bambino. È il bambino, è quella bonomia e semplicità, che si chiama il segreto del genio, e rende ama- bile e ingenuo il lavoro inconscio della creazione. Dunque, fe- steggiamo il bambino , valorosi poeti ed artisti , pensando , che, se il bambino muore nell'uomo, sopravvive nell'arte. Io applaudo ai vostri canti, e me ne tengo di essere in mezzo a voi lo spettatore. A ogni modo , bambineggiamo almeno una volta l'anno e rinfreschiamoci il sangue. - 207 — Albei'to Mario. [Queste parole in elogio del Mario furono pronunziate dal De-S. all' Associazione della Stampa la sera del 18 giugno 1883. Furono pubblicate nel giornale Capitan Fracassa , a. IV , n. 168 , 20 giu- gno 1883.] La stampa ha onorato la memoria di Alberto Mario con testimonianza unanime di dolore e di affetto. L'Associazione della stampa, rappresentanza qui in Roma del giornalismo italiano e che considera parte di sé tutti gli appartenenti alla stampa, non poteva rimanere indifferente innanzi alla perdita di un uomo che ha passato una buona parte della vita in mezzo al giornalismo; e ha onorato questo con la sin- cerità delle opinioni, con la saldezza de' convincimenti, con la rettitudine della condotta, con la compostezza dello scri- vere, con una finezza di polemica, nella quale si rivelava , senza ostentazione, una coltura non ordinaria. Ci sono uomini i quali trovano l'espansione della vita in mezzo all'azione, alle agitazioni e alle passioni sociali, e spesso, sotto la pressura di necessità pubbliche o private, lasciano diminuita o contaminata la loro parte ideale. Ma in Alberto Mario la vita ai espandeva come pensiero, fede, amore, e corse all' azione, quando l' azione era un do- vere e un sacrificio, e se ne ritrasse quando venne il tempo delle ricompense e degli onori. Egli era una di quelle na- ture che nelle occasioni sono eroiche, e ritornano idilliche, soddisfatte e riposate nel loro orticello, nella santità della famiglia, nella domestichezza del loco natio, nelle gioie del- l'amicizia, nel raccoglimento dello studiare e dello scrivere. I^ dolce dimora su' colli di Toscana, o nella sua Lendinara, gli era più cara che non quel vano affaccendarsi, dove il comune degli uomini trova la sua soddisfazione. Nemico di tutte le religioni, aveva un'intimità di senti- mento, una fede nel bene, uno splendore di bellezza nell'a- nima, che faceva di lui un essere religioso, se è vero che la religione non è al di fuori, ma al di dentro. Nel Cinquecento, sarebbe stato discepolo di Lutero; oggi è discepolo di Galileo, di Mill, di Romagnoli, di Carlo Cat- taneo. La scienza non si fissò in lui senza un certo vagare del cervello. — 208 - A Padova è tutto Gioberti, D' Azeglio, Cesare Balbo, tutto Italia e Libertà, e il babbo, che sognava nel suo puttino un ingegnere o un avvocato, a sentirlo parlare a quel modo, gli diceva: -•- Putin, vu no fari mai gnente. E Mario fece molto, perchè, se non potè aggiungere quat- trini, aggiunse lustro e decoro alla casa paterna. A Ginevra e a Londra fu tutto Mazzini, idealista e cen- tralista. A Lugano, in un ambiente dominato da Cattaneo, fu positivista e federalista, e vi dovè conferire ancora non poco il suo soggiorno in America. 11 suo cervello si fissò dove i più noti risultati scientifici di questo tempo si tro- vano schematizzati e sistemati. Ne' suoi libii non c'è indizio di dubbio o di esitaaione , tutto vi è affermato colla chiarezza e col brio dell' uomo , che erede possedere la verità. E non ci è indizio di quella fatica, che l'acquisto della verità ti è costato: sembra quasi la veda e non la pensi , se pensare vuol dire creare , esa- minare, astrarre, indurre e dedurre. Trovi proposizioni staccate, ciascuna da sé un periodo, i monosillabi della scienza , soppresse le indagini e le pre- messe; talora in una mezza pagina trovi il sugo di tutto un secolo. Quanto a me, a quelli che affannosamente dimo- strano una verità, che non è cosa loro, da altri indagata e stabilita, preferisco questo simpatico Mario, che ti dà le sue reminiscenze in forma di sentenze e di assiomi, senza osten- tazione e senza pedanteria, volgarizzatore e banditore della scienza. Quando polemizza o quando narra, gli è altro. Trovi fi- nezza d' intelletto , giocondità di spirito fino all' umorismo. Il suo scrivere è caldo, abbreviativo, linguaggio di popolo. E forse sarebbe giunto alla popolarità ; ma glielo vietava una forma aristocratica e letteraria non emancipata abba- stanza dalle prime impressioni scolastiche. Ma che cosa importa V Se la scienza in lui non fu molto pensata , fu molto amata , e 1' amore gì' indora e illumina quelle verità , come al loro primo apparirgli nel cervello , e gliele fa visibili, palpabili, gioconde, come le antiche di- vinità. Sembrano idoli e teste e figure, e sono le ombre e le parvenze del pensiero in un' anima credente e innamo- rata. L' artista in lui rimarra. E ora il povero Mario è morto, e sotto a' suoi fiori e sotto alle sue erbe non ama, non pensa più, e fa amare e fa pen- sare quelli che lo leggono. — 209 — — Volete la felicità ? Amate e lavorate. Volete l' immor- talità ? Lasciate eredità di affetti! — Sono belle parole di Mario. Nella vita fu felice, perchè amò e lavorò , e ora la sua vita si continua in quelli che l'amano, e in lei, nata inglese, d'animo italiana, vissuta per r Italia insieme con lui, e che insieme con lui vivrà nel libro della gratitudine italiana. E ora, se l'Associazione consente, manderemo un telegram- ma a questa povera donna. Il di là. [È uno degli ultimi scritti del De-S. Come risulta da una lettera pubblicata nel voi. In memoria, p. XXVII, il De-S. mandava questa pagina il 24 novembre 1883 al Morano, per un Aìlum pel IV cen- tenario di Martino Lutero, del quale il Morano era editore. Fu ri- stampata in appendice all' opuscolo contenente la lezione sul Cinque maggio, Napoli, Morano, 1884, pp 19-20. J Nella scala della creazione il presentimento rappresenta una gran parte. Ci è nella forma inferiore un addentellato al suo di' là, alla forma più elevata, un' immagine abbozzata e un sentimento vago di un essere più compiuto. E non fi- nisce negli uomini la scala degli esseri, perchè anche nel- l'uomo è il presentimento di un di hi a lui superiore, che egli vagheggia e abbozza nella sua idea, e chiama l'ideale, ?/«« cei'fa idea, non so che più perfetto, che non trova nel- r esistenza naturale. Gli angioli, i demoni, le celesti deità, tutti gli esseri spi- iiuali, dei quali l' immaginazione umana ha popolato l'uni- verso, sono le realità di questo presentimento, tentativi per foggiare o pensare quell'ideale esistenza superiore, che ci è sempre vicina e ci è sempre lontana. Religione, poesia, fi- losofia, hanno a base questo invitto presentimento che resi- ste a tutti gli sforzi del puro umanismo, e, cacciato, ripul- lula sempre. E, in verità, se crediamo che l'uomo sia 1' ultima forma «iella creazione, e che gì' infiniti mondi sieno non altro che lampioncini affissi là per fargli luce, si potrebbe tenere quel presentimento come superstizione di femminuccia. Ma se questo non è possibile crederlo , quel presentimento insita nella nostra natura di uomini non è che l'addentellato a una forma ulteriore, e contiene in so quest'affermazione, che Dk Sakctis — Manzoni e scritti varii — Voi. II. 14 — 210 — noi non siamo ultimo , ma intermedio anello nella catena degli esseri. Appunto perchè semplice presentimento , la concezione non può essere attinta nella sua realtà malgrado ogni sforzo d' immaginazione, e se possiamo trovare differenze quanti- tative, non ci è dato trovare differenze di qualità tra noi e il nostro di là, altro che vaghe e a base umana. La con- cezione rimane solo adunque ideale, una nostra idea, il cui riflesso luce sulla faccia degli esseri da noi foggiati. Più r uomo si chiude nel proprio io , e più è vicino al- l' animale. Sentire , foggiare , pensare il di là della nostra esistenza, ci mette in comunione col Cielo, dove con gl'in- finiti mondi stiamo noi pure; ci santifica, ci nobilita, ci reca nell'anima i mormorii e i fantasmi di esistenze superiori, ci sveglia il senso del mistero e dell' infinito. Martino Lutero, predicando 1' unione immediata dell'ani- ma col mondo superiore , fu il redentore del pensiero , il creatore del sentimento religioso. VII. Dal « Carteggio > del De Sanctis. [Alcune lettere del De-S. furono edite nel 1886 e nel 1888 dal prof, M. Mindalari, in due opuscoli: A F. d. S. nel IH anniversario della sua morte gli alunni del Liceo ginnasiale Pietro Oiannone di C-a- serta (Caserta, Jaselli, 1886, di pp. 27; contiene, oltre il Discorso di Troni, sei lettere): % XV Lettere di F. d. S. con note di M. M. (Ca- serta, ivi, 1888, di pp 26). Dieci brevi letterine, dirette nel 1882 e nel 1883, al suo giovine amico, Gerardo Laurini, si leggono in ap- pendice al volume di G. Pipitonk Federico , Saggi di letteratura contemporanea (Palermo, tip. edt. Giannone e Lamantia, 1885, a pp. 465-476). Alcune altre nel volume In memoria _{ l8Si) , pp. VIII-X , XXI-XVIII, XXVII; ed altre, sparsamente. È annunziata la pub- blicazione, che farà il Torrai^a, in un volumetto della Biblioteca sto- rica del Risorgimento italiano del Casini e Fiorini, di una ventina di lettere del De-S. al padre, scritte tra il 1847 e il 1850, di argomento politico e domestico. — Nelle pagine, che seguono, abbiamo raccolto, scegliendole, alcune poche delle lettere già pubblicante, e ve ne ab- biamo aggiunte parecchie d'inedite, del De-S. o a lui dirette, che abbiamo trovato fra le carte di lui , o che ci sono state favorite dalle persone che le possedevano. Quelle già edite sono contrasse- gnate da un asterisco.] 1. Alle signorine Carolina e Caterina Femandez (1). Gentilissime Signorine, Certo, se in mezzo a' divertimenti della campagna voi mo- strate desiderio di leggere i miei caratteri, volete così darmi (1) Questa lettera si conserva tra le carte del Do-S.,e la pubbli- chiamo a semplice titolo di curiosità. Il cognome delle due signorine, <'n'\ era diretta, ci ì- stato dato dal Laurini. - 212 - una pruova novella della bontà che avete per me. In ve- rità, pensando al poco merito mio, sono stato buona pezza in forse, conoscendo di non potere io scrivervi cosa alcuna degna di esser letta da voi ; ma, considerando d'altra parte quanto sia grande la vostra umanità e cortesia, prendo ani- mo di presentarmi a voi con una poesia , stando in sulla certa speranza che voi compatireste alla povertà delle mie forze, e accettereste di buon grado almeno il mio buon vo- lere. Voi mi concederete che io mi trattenga un poco a no- iarvi con le mie ciance , esponendovi il disegno di questo poetico lavoro. Egli ha ormai quindici e forse più giorni , eh' io, preso da violentissima febbre, mi lasciai trasportare per modo alla mia fantasia , eh' ei mi parve già quasi di essere coli' un pie sulla tomba; e pensando di avermi a di- videre per sempre dalla mia carissima Madre senza neppure vederla una sola volta, mi sentiva per l'angoscia stringere il cuore. Ora io immagino in questa poesia, che, stando in questi pensieri, e non correndomi altro pel capo che morte, tomba, e i più paurosi e strani fantasmi, mi apparisca di improvviso la Speranza, bella e lieta, come la ci pingiamo nella mente, e confortandomi con soavissime parole, mi e- sorti a volger l'animo al Cielo, eh' è la vera patria dell'uomo. Consolato a tal vista, io le apro l'animo mio, e le mostro non di altro essere io dolente che di avere a lasciare per sempre la mia buona Madre. A questo Ella mi addita al- cuna cosa, e mi accenna eh' io guardi ; e volgendo gli occhi intorno, mi parve tutto a un tratto di trovarmi in una, dirò quasi, di coteste campagne, in tempo che la Luna silenziosa si avvolge ne' suoi perpetui giri. Ma quale non è la mia me- raviglia, allorché i miei sguardi si scontrano in due Don- zelle, e conosco quelle esser voi stesse ? Attonito, vi espongo i miei dolorosi pensieri ; e mentre che a questi vedeva a voi, o Carolina, farsi la faccia lagrimosa, sentii la voce pie- tosa di Caterina risonarmi nell'orecchio, come una conso- latrice melodia. Ella con i suoi detti mi l'iprende eh' io ab- bia r animo ad affetti terreni, e descrivendomi il Paradiso, come la sua infiammata anima a lei lo presentava, mi spar- ge il cuore di tanta dolcezza, che io me ne sento tutto rac- consolare. Allora la Speranza, veggendo avere avuto eflfetto sul mio cuore la sua voce e quella di Caterina , vassene in cielo , ed io, destatomi, mi trovo a un tempo libero dal malore del corpo e dal dolore disperato dell' animo (1). Due (1) Abbiamo sott' occhio un frammento di questo componimento — 213 — uose mi rimangono a dirvi, e dapprima vi confesso aperta- mente che questa poesia, quale ch'essa si sia, è dovuta tutta intera a voi , perocché dal vostro labbro io non ho udito uscir mai altro che parole di consolazione, di religione, di pace. Piacemi pure di farvi osservare che io, confortando me, ho avuto in animo di consolar voi a un tempo, che di conforto avete sì grande bisogno. E se questa poesia vi farà spargere alcuna di quelle lagrime, che sono come balsamo sulla ferita del cuore, e vi renderà meno acerba la vostra grande perdita , io me ne terrò assai lieto e avventuroso. Resta che io vi preghi di dovere con la vostra ingenuità e schiettezza dirmi il vostro avviso; eh' io fo molto capitale del giudizio delle Donne, le quali da Natura hanno sortito un'attitudine meravigliosa a sentire il sublime ed il bello; ed uso come sono ad ammirare in voi la finezza del gusto congiunta con l'amabilità del cuore, desidero il vostro giu- dizio e non temo il vostro rigore. Questa lettera, cosi come ora la ho gittata sulla carta, me r ha dettata il cuore qui in vostra casa , dove rimango a far compagnia a pranzo a vostro fratello, il quale nondime- poetico, e ne riferiamo alcuni versi sempre come curiosità, e per mo- strare come il De-S. fosse preso anch'egli dalla malattia leopardiana . Il presente componimento ha reminiscenze del Sogno del Leopardi : Brune le vesti, di pallor dipinte Maninconosa era la faccia; bassa Avean la fronte, e gli occhi a terra L'una Soprastava col capo, Che tenea chino verso l' altra ; e vidi Il naturai colore In lei velato, e di malor crudele Serbare ancora i segni in volto impressi. Avea scolpito in viso Un certo inenarrabile dolore, Che a pietà mi commosse, e in mio pensiero La reputai divina creatura, Che, qui peregrinando in mezzo al pianto, Sospirasse alla sua patria celeste. L'altra, agli atti, ai sembiante. Al misurato andare e a quel pudore Che avea negli occhi, ben parea che fosse La sua minor sorella; Pallida si, ma bianco era il pallore D«!l bellissimo volto, Dolente pur, ma d'un dolor che piace E che meglio direi malinconia. Quel caro e dolce affetto, <'he dal fango dei sensi innalza l'alma A contemplar di Dio le arcane cose. - 214 — no non potrà non sospirare ad una più dolce e più deside- rata compagnia. Ah ! e cosa dolcissima la compagnia di una sorella , ma quella di due sorelle così affettuose è poi un piacere, che credo non ce ne sia pari al mondo ! La vostra bontà mi affida per modo che son certo che voi farete buon viso a questa troppo noiosa lungheria; e prof- ferendovi la servitù mia, fate di star sane e liete. Napoli 19 luglio 1841. Vostro umilissimo servo Francesco de Sanctis Terenzio Marniani a Francesco de Sanctis. Mio Signore, Io sono in procinto d'istituire una Cattedra di lettera- tura comparata. Niuno può meglio di Lei salirvi con onore della università e degli studii italiani. Avrebbe uno stipen- dio che la legge presente non fa maggiore di 2480 f. Ma nel bilancio che presento quest'anno al Parlamento sarà stanziata una somma pei professori d' insegnamenti liberi , e cioè non obbligatorii per la scolaresca , la quale intende alle lauree professionali', e quella somma dee porre com- penso al difetto d'iscrizioni e propine, le quali per parec- chi professori ordinarli recano l' emolumento a non molto meno di 5000 f., oltre l' aumento che si fa loro del decimo ogni cinque anni. Qualora poi la Camera non approvasse tal somma aggiunta, il che reputo assai poco probabile, il Governo fornirebbe un compenso equivalente con altro titolo. Si compiaccia mandarmi un rigo di risposta, la quale vi- vamente desidero favorevole. E mi creda pieno di alta stima Torino, li 19 marzo del 60. suo devotissimo T. Marniani 3. Achille Vertunni a Francesco de Sanctis (1). Caro Professore, Da quanto tempo avrei voluto rispondere alla vostra ca- rissima lettera per ringraziarvi della consolazione che mi (1) Achille Vertunni, nato in Napoli nel 1826, fu valente pittore di paesaggio, discepolo del Pergola ed emulo di Filippo Palizzi nei primi — 215 - avete data col mostrarmi che vi ricordate sempre di me ! Ma indugiai sulle prime di scrivervi una lunga lettera e dirvi tante cose ; di poi sono stato afflitto per circa due mesi da dolorosa malattia che me lo ha del tutto impedito. Ora son convalescente, ed appena ho potuto prender la penna , il pensiero è corso a voi lontano, che foi*se nella solitudine consumate amaramente i vostri giorni ! — Oh uomo degno di altri tempi, d'altra terra !... Ma forse in qual tempo, in qual terra foste nato, la vostra sorte sarebbe pur stata la stessa. Dio! ed un tanto cuore dovrà soffrir sempre lo strazio della solitudine e dell'abbandono? — Ma no, che non siete solo... E non avete voi educato tanti cuori a battere uniti al vo- stro ? a rispondere ad ogni suo sentimento? E se voi vi ri- cordate di noi lontani, dispersi, potete voi credere che tutti noi avremmo potuto dimenticare chi ci educava ad ogni no- bile sentimento, al bello, al buono, al grande ? No, che cia- scuno di noi involontariamente deve pur ripetere ad ogni momento a sé stesso; — Se io penso, s'io sento, s'io son pur qualche cosa al mondo, lo debbo a De Sanctis; — ed ecco che il cuore ricorre a voi , e rinnova ad ogni momento quella mutua corrispondenza d'affetti che ci ha sempre tenuti stret- ti. — Oh non ci sconoscete per carità ! . . . non vi chiamate solo al mondo... no , avete tanti cuori che vi amano ; e se essi son lontani, che importa? — non vi è il pensiero che ci avvicina, non la parola che vivifica questo affetto? Oh, se aveste potuto udire, se poteste udire quante volte abbiamo parlato e parliamo di voi dal momento che abbiamo avut:i la sventura di perdervi ; se sapeste quanto è amaro per noi il non vedervi, il non udirvi più , voi non vi terreste solo al mondo. No , quando si è compiuta cosi degnamente la nobil missione che voi avete pur compiuta fra noi, non si può, non si dee temere di rimaner solo al mondo. Ne vo- lete voi una prova ? Il primo essere a cui ho insegnato u rispettarvi, ad amarvi, è stata la donna che ora è mia. Io le ho parlato continuamente di voi fin dal momento che leg- gemmo il pi'imo libro insieme. — Fu un bisogno per me, tra- sfondere in lei r istesso affetto riconoscente eh' io sentiva per colui che primo mi avea insegnato a comprend'*'*' . :i indicare un libro. tempi della comune carriera. Dopo il 1855 dimorò quasi sempre iu Roma, dove ebbe lunghi anni di fortunata celebrità ; ed ivi ò morto il 20 giugno 1897. Fra le sue opeie più belle van ricordate la Pia dei J'olotiiri, lu Torre di Astiini, gli Acquedotti nella Cnnipaijnn Romana, la l'ineta di Castel Fuanno. — 216 — E quando è venuto a noi un bambino, primo nostro pen- siero è stato il dolore di non poter affidare un giorno a voi la sua educazione. Oh, come avreste saputo destare nella sua giovinetta mente nobili ed elevati sentimenti, come avreste saputo istillare nel suo vergine cuore generosi ed amore- voli sensi !... Ed ora, chi sarà il suo maestro, il suo educa- tore? Ecco il continuato e doloroso nostro pensiero, e quindi il continuato ritorno alla memoria di voi. E quando cade un discorso sui primi anni di mia giova- nezza , non è sempre De Sanctis il primo di cui debba io parlare ? E quando i pensieri dell'Arte mi occupano tutto , che è pur gran parte di mia vita, non son io costretto, senza che pur me ne accorga, a ritornare con la mente a voi per ri- cordare quanto da voi appresi?.. Ma, infine, a che vengo io ora enumerando tutte le occasioni che mi fanno ricordare un uomo che per sé stesso è una grande memoria per quei che hanno la sventura di non averlo più in mezzo a loro? Lo stesso, son certo, avverrà a tutti gli alti-i compagni, che tutti non potranno a meno di non amarvi sempre. Ma voi intanto nella solitudine vi sentite abbandonato. Oh, perchè non possiam trovarci tutti a Zurigo ! Ma chi sa , forse un giorno il Cielo mi concederà il contento di potervi riabbrac- ciare. Oh quante gioie, e quanti dolori dovremo comunicarci in queir abbraccio ! Io intanto mi dimenticava di ringraziarvi per il favore che mi avete reso dirigendomi i signori Wesendonck. Quando essi ritorneranno a Zurigo, saprete fino a qual segno io debba esservi grato. Mi spiace solo non aver potuto fare per essi tutto ciò che avrei voluto per questa maledetta malattia. Mi consolo però che essi poco o nulla avrebbero avuto d'uopo dell' opra mia, avendo mostrato non comune intendimento neir andar gustando tutto che vi sia di più bello in Arte nella nostra eterna Roma. Addio. Un abbraccio con tutta l'anima. Per carità, semi scrivete un'altra volta, consolatemi col dirmi che il sentirvi riamato è pur qualche conforto per voi che meritereste l'a- more del Creato intero, perchè solo d'amore potete vivere, nobile cuore sempre giovane. Iddio vi conceda tali giorni da compensare questo orribile vuoto dell'anima. Roma, aprile 23 del 60. Il vostro Achille Vertunni Ottimo signor Professore, Se la parola di una sconosciuta può giungere come con- forto nelle ore del dolore e della solitudine ad un'anima no- bile e sventurata, non isdegnate accettare questo tributo di amicizia dalla donna del vostro Achille. Per me 1' esservi amica è obbligo, è riconoscenza. A voi era stato affidato il cuore che poi dovea battere per me, e voi l'educaste a tali sentimenti che han resa felice la mia esistenza. A voi ne vado in parte debitrice: me lo ha tante volte ripetuto il mio Achille, che in me è divenuto fede questo pensiero. Voi lo avete educato artista, marito, padre. La sua gloria, il suo amore fra le domestiche mura son pur opera vostra, quindi non vi maraviglierete del mio rispettoso affetto per voi. Oh, se ci fosse stato concesso affidare ad un tanto uomo i figli nostri I — Ma uno che a noi è rimasto è ancor bam- bino. Chi sa che il cielo non consenta che , venuto alla adolescenza, non vi troviate in mezzo a noi ! Ed allora esso avrà lo stesso educatore del padre suo. Questo pensiero mi conforta, e raddoppia in me i sentimenti di rispettosa ami- cizia che Achille ha istillato nel mio cuore per voi. Spero che queste poche ma sentite parole vi parleranno in mio favore per farmi ottenere un piccol posto nel vostro nobile cuore. E siate certo che riterrò a gran ventura se voi dell'amicizia che sentite per Achille concederete anche una parte alla moglie sua, che vi si profferisce per la vita qual vera amica Emma Agnese Vertunm *4. Ad Angelo Camillo de Meis (l). [Zurigo, maggio 1860]. Imaginati la mia sorpresa, caro Camillo, quando mi leggo sbattezzato e chiamato Salvatore! Io salvatore suo, quando (1) Va {>uhblicata dal d.' B. Amante nei giornaio di Napoli il Mat- tino, a. 11, n. 176,25-26 giugno 1893. In una lettera del De Meis, da Torino, 8 giugno 1860, a Bertrando Spaventa, della quale abbiamo innanzi l'autografo, si legge: " Aspettiamo De San-^tis da un giorno all'altro: verrà per far parte della spedizione di Medici e di Co- MZ, mandando al diavolo la Secchia rapita, che sta spiegando, e il — 218 — è affatto il contrai-io, quando io potrei chiamailo salvatoi-c mio!, ho detto. Poi sono corso con l'animo a Salvatore Toin- masi ed rio pensato: chi sa! ci sarà qualche cosa, che mi riguarda. Né mi trovo scontento d'aver letto una lettera, che per Isbaglio hai dovuto indirizzarmi, perchè ci ho tro- vato quello che m' aspettavo sulla tua salute. L' ho scritto pure a Diomede (1): la tua malattia non è che una stan- chezza di voce, essendo tu da lungo tempo disavvezzo dal- l' insegnare. E credo che ora tutto sarà finito, a dispetto di Roncati e di Nicolis. Caro Camillo, ho la febbre addosso, pensando all'audace impresa di Garibaldi. Ecco la terza volta che gli italiani vunno a Napoli: sarà egli più fortunato di Bandiera e Pi- saeane? Lo credo. C'è dentro di me non so che cosa elio mi dice che riuscirà , se non a vincere , almeno a mante- nersi per qualche tempo. La vittoria è possibile, se il suo nome, appena giunto, produrrà lo sconcerto e la paura tra'si- carii e assassini di Sicilia. Sento che varii napoletani sono partiti con lui : fra gli altri, Cosenz, Plutino, Mauro, Stocco, La Masa ecc. Questa notte ho sognato eh' era sbarcato pro- prio a Napoli, proprio il 15 maggio, dinanzi Palazzo Reale, ed ho passato la notte tra rimbombi di schioppettate: fosse vero ! Ora il dado è tratto, e, secondo me, volere o non vo- lere, bisogna secondarlo con tutti i me-szi ; spesso l' audacia è più prudente della prudenza. Scrivimi subito e dammi notizie, lo ho scritto a Diomede, a cui invio anche questa, non sapendo il tuo indirizzo. Mi par mille anni di venire ad abbracciarti. Ho paura che pas- serà l'estate senza che io scriva una sillaba: tanto sono di- stratto! Addio, con Diomede t'abbraccio. Politecnico, e tutta la Svizzera „. E in unaltra, del 22 luglio : " De Sanctis non ha potuto avere il permesso di partir prima. 11 Presi- dente della Confederazione glie l'ha recisamente negato per ragioni politiche, ha detto. Ma arriverà fra qualche giorno, giacche è riso- luto di far di meno del permesso; e, appena sarà qui, si partirà su- bito tutti e tre per Napoli. De Sanctis e Diomede scriveranno uà giornale con Silvio [Spaventa]; almeno spero che non si divideran- no; né mi par che possano nemmeno, per l'unità delle viste che hanno tutti „. (1) Diomede Marvasi , loro compagno di esilio a Torino. Il Dt-S mandò innanzi alla raccolta degli Scritti del Marvasi (Napoli, De Angelis, 1876) una prefazione, che è ristampata nei Nuovi saggi eritid. — 219 — 5. A. E. Cherbuliez a Francesco de Sanctis (1). Zurich le 22 avril 1861. Mon cher et illustre ami! Je recois en ce moment votre lettre de Turin, et j' y ré- ponds aussitòt, car j'ai hàte de vous dire que nous n'avons recu aucune autre missive de vous , depuis celle que vous nous avez adressée d'Avellino, le 24 septembre dernier, et à laquelle j' ai répondu. Votre silence depuis lors nous pei- nait sana nous étonner, car nous comprenions d merveille les préoccupations qui devaient absorber votre esprit. Ju- gez donc quelle a été notre surprise et en méme temps no- tre satisfaction, d'apprendre que, malgré ces préoccupations et malgré la grande et belle sphère d'activité que votre ca- pacitò et votre patriotisme vous ont ouverte ; vous avie/ encore au fond de votre coeur quelque peu d'amitié pour nous! Si vous aviez pu assister a la lecture , que nous a- vons faite en famille de votre aimable lettre , vous auriez compris combien est grande la place que vous occupez dans nos pensées et dans notre vie intérieure, place où notre e- stime profonde et inaltérable pour votre caractere n*a pas moins de part que notre admiration pour votre esprit et votre talent. Si je ne vous avais pas, si nous tous ne vous avions pas exprimé et témoigné mtintes fois ces sentiments loi^sque vous n'étiez que mon collègue, je me refuserais cer- tainement le plaisir de vous les esprimer aujourd'hui: heu- reusement vous savez depuis long temps ce que nous pen- sons de vous , ce que vous t'tes pour nous , et vous savez aussi que pour faire d'un aomme notre ami nous ne lui demandons ni d'où il vient, ni ce qu'il a, ni ce qu'il peut; iiais uniquement ce qu'il est et ce qu'il veut. Je suis avec un puissant intér«}t les délibérations de votre l'arlement, autant que les journaux francais ou allemanih me permettent de les connaitre, et j' attends le discoure que vous avez eu l'obligeance de m'envojer, comme on atten.l !es nouvelles d'un fils absent, on la suite d'un récit palpi- ant dont on a commencé la lecture. Votre Parlement est (1) Antoioe-Eliatfe Cherbuliez (1797-1869) è il celebre economiitta ÌQevrino, che insegiuiv* »lIor« nel Politecnico di Zurigo. — 220 — aujourd'hui la seule scène du monde où se débattent ou- vertement les grandes questions de la politique européenne, et où se manifestent les vues et les intéréts qui les ont sou- levées et que les principaux acteurs prennent si grand soin de cacher. Il m' arrive plus d'une fois de dire tout en li- sant: Bravo, messieurs les Ministres! Quelquefois aussi de froncer un peu le sourcil, car vous savez, cher ami, que ma politique , fort italienne dans le sens du droit qu'ont les peuples de se gouverner eux-mémes, est en méme temps peu garibaldienne. Aussi, pour répondre a l'offre que vous avez le grande bonté de me faire, je vous dirai que j' accepte- rai volontiers de vous et de M. de Cavour une distinction qvÀ ne s' adressera qu'à l'auteur de quelques travaux seien- tifiques, et que serai fier, à ce titre, de la devoir à, l'estime de deux hommes qui sont si haut placós dans la mienne , et si compétents pour juger du mérite d'autrui. Ma femme et mes filles sont très sensibles à tout ce que votre lettre renferme d'aimable pour elles. Vous savez dójà que leurs sentiments pour vous tiennent de l'enthousiasme, et je vous avoue aujourd'hui, entre nous , que j'en ai é- prouvé parfois un petit sentiment de ja'ousie. Vous ne m'en voudrez pas pour cela. D'ailleurs, vous n'en sentirez aucun dommage , car si je m' avisais de vouloir vous nuire dans leur esprit, 1' enthousiasme deviendrait du fanatisme et je ne ferai que me nuire à moi méme. Ma femme se fera un très grand plaisir de répondre pour elle et pour ses deux filles k votre badinage aussi amicai que spirituel. Je me contente , moi , de vous en remercier comme d' un témoi- gnage d'affection, et leur laissant le soin d'admirer vos nou- velles allures , je me contente d' admirer l' intelligence et la gràce parfaite avec lesquelles vous maniez notre langue d oui^ que vous avez presque apprise avec nous. Adieu , cher et excellent «mi! Votre lettre m' a rendu heureux pour bien de jours. J' en avais besoin, car je viens de passer quinze jours à Lausanne, pour un travail fort ennuyeux, dont m'avait chargé le gouvernement Vaudois, et qui m'attirerà, je le crains, beaucoup d'hostilités de la part de mes confrères les Économistes. Il s'agissait de motiver les décisions du jury qui a prononeó dans le concours ou- vert sur les questions de l'impòt. Sur 45 raémoires , nous n'en avons distingue et recompensé que deux ! Ce sont 43 ennemi^ que je vais avoir sur le dos! Veuillez, je vous prie, présenter à M. de Cavour mes re- — 221 — -pecteuses salutations, et agréer l'assurance de mon sincere et invariable attachement. A. E. Cherbuliez 6. Il prof. Hocke a Francesco de iSanctis (1). Zurich, le 26 avrii 1861. Monsieur, Permettez-moi de venir aussi vous congratuler en votre qualité de ministre de l'Italie unie! U Italie urne ! Qui au- rait pu concevoir des espérances aussi extravagantes il > a deux ans seulement ! Personne inieux que moi à Zurich n' a pu apprécier vos qualités. votre caractère, vos connaissan- ces, qui vous rendent si éminemment digne de la place que vous occupez maintenant; et je crois fermément que votre ■jour it Zurich n'a pas peu contribué a étendro votre ho- rizon par rapport a votre tàche actuelle. Si vous aviez jamais besoin de moi comme intermódiaire pour vous faire parvenir des lois . réglements , acies oflB- ciels, etc. quelconques, relativemeut à. Torganisatiou soit de Instruction publique (Écoles primaires, secondaires etc), -Oli des Académies, Écoles cantonales, industrielles etc, dispo- sez de ma bonne volonté comme il vous plaira. Je serais heureux de pouvoir de temps en temps vous témoigner tou- es les sympathies que j' ai concues pour votre caraetére , lous les voeux que je forme pour la prosperile de votre belle patrie. En attendant, je vous prie de vouloir bien vous occuper un peu ti nous trouver un remplacant a la chaire de lit- nrature italienne. Que pensez-vous de Mr. Locatelli, votre oncurrent dans le temps, ii Bergamo? Connaissez-vous le pasteur proiestant Mr. Kitt A Bergamo, qui, a défaut d'un candidat Italien, serait capable de se charger du cours vacant? En me recommandant à votre souvenir bienveillant, j' ai bien l'honneurde vous assurer de ma considération la plus distinguée. Votre devo uè Prof. Hocke (1) La lettera è diretta: Momtieur de Sanetù, minittre de l'Inatru' liOH publique, à Turiti; ed intestata: Sekretariat det Seh-ceizeritehen ^■•huìratheg. — 222 — 7. A. E. Cherbuìiez a Francesco de Sanctis. Zurich le 6 mai 1831. Ti'ès excellent et dignc ami, Voici ma réponse de forine au ministre; miis ja dois quel- (jues paroles a l'ami, pour lui exprimar combien je suis profondément touché de la prouve d'estima et d'affection que j' ai reciie de lui. J'en suis presque confus, si je n' e- sperais que des travaux, entreriis depuis longtemps, et que je compte publier bientòt, justifieront un peu l'opinion fa- vorable que vous avez de ma valeur comme savant. Ai-je besoin de vous dire que ma famille partage tous mes sentiments , et vous envoie des remerciments et des bénédictions? Ma femme et mes fìlles , notamment la ca- dette, déplorent amèrement la perte des lettres que l'irré- gularité du service postai les a empèchées de recevoir , et qui sont demeupées Dieu sait où, dans leur vojage de Na- ples ici. Nous avons lu voti'e discours avee un vif intérét. Voilà des idées vraiment libérales, que les assemblóes legislatives, méme dans les pajs republicains , ne sont guère accoutu- mées à entendre , et auxquelles tout homme de sens et de eoeur applaudirà hautement, quelles que puissent étre sur d'autres po'nts ses idées et ses tendances. Mais je me fi- gure que vous étes en face d'une montaigne de routines bureaucratiques; à peu près comme Hercule devant les Ó3u- l'ies d'Augias. Que ne puis-je vous entendre parler de tout cela et de bien d'autres choses! Les lettres sont un mojen de communication qui ne sert qu'à excirer le soif de sa- voir. D'ailleurs, vous avez bien autre chose à faire que de nous écrire, et de lire nos lettres, et je crains déjà d'avoir óté indiscret en vous écrivant ce peu de lignes. Adieu donc. Recevez encore une fois mes remerciments, et mes compliments affectueux, auxquels toute ma famille cn ajoute des non moins sen'is et sincères. A. E. Cherbuìiez _ 223 8. Adele Cherbuliez allo stesso. Zurich 11 mai 1861. N'ayant jamais eu Toccasion de m'adresser à aucune per- sonne, de mes amis, qualifiée comme vous l'étes maintenant, j'ignore en quels termes il convient de le faire, c'est poup- quoi, dans la crainte de rester à coté des convenanees vou- lues en pareilcas, je me bornerai a vous dire, aujourd'hui comme autrefois, dans notre intimité de bons voisins de cam- pagne et d'égal à égal: Cher monsieur et ami. Donc, cher monsieur et ami, j' éprouve ainsi que mes fiUes le vif de- sire de vous dire en mon nom et au leur combien nous avons été touchées que votre premier besoin en arrivant au pou- voir, ait été d'en faire le noble usage que vous savez , c'est-à-dire de témoigner à un ami, d'une manière aussl manifeste que vous l'avez fait , votre estime , votre haute considération et aussi votre aflfection pour lui. Ne croyez pas, toutefois, que je suis vaine et fière de ce hochet qu'on nomme une croix, et qui fait attacher (si on le désire) un ruban à la boutonnière du compagnon de 33 ans de sa vie. Si jamais on vous le dit, comme autrefois, répondez: — Je ne sais qu'une chose, c'est qu'elle est fière d'étre la femme de son mari; — car, à mes yenx, ce n' est pas la croix qui l'honore, mais le morite personnel reconnu, qui lui a fait obtenir cette récompense. Et puis encore je suis fière de l'ami qui, au milieu du lumulte et des orages de la vie politique, qui doivent, sem- blc-t-il , occuper toutes ses pensées et ses préoccupations, n'a pas oublié cette famille qu'un exil commun lui a fait rencoQtrer sur une terre ótrangére. Pour nous, rien n'a changó depuis que vous nous avez quitte, i non que du petit nombre d'amis qui nous ont fait pas- I' de joli.« moments cn se réunissant le dimanche soir dans )ive ?aìon, il n'en reste plus un seul; le vide est complet autour de nous, et nous fait ainsi encore mieux compren- dre tout le prix que nous avions , en sentant tout ce qui nous manque à present. Aline n'a point encore pris son parti de n'avoir pas recu votre lettre; elle se rappelle, ainsi que iweur, A votre souvenir. Celui de leur chères et belles le- iis de l'année derniére, se retrouve souvent A leur mémoi- et toujoui*s pour en déplorer la perte. — 224 — Mais j'oublie que je m'adresse a un ministre d'État dont les minutes doivent étre comptóes; sans cela, je vous aurais donne quelques nouvelles de la chronique Zuricaise. Pardon et adieu de votre affectionnée, qui vous prie de recevoirl'as- surance de sa considération la plus distinguée Adele Cherbuliez. *9. A Nicola Marselli (1). Napoli, 28 ottobre. Caro Nicola, Viva ! Mi hai fatta una magnifica lettera, che è piaciuta moltissimo. — Il giornale fa furore, e ne vendiamo duemila copie solo a Napali. Io lavoro come un animale, per insuf- ficienza di mezzi e di personale. Ma ogni giorno più si rag- giusta la macchina. Addio, dipingi i partiti con imparzialità; flagella il male, dove lo trovi ; attacca e difendi secondo il vero. Non sco- prirti mai partigiano di questo o quel partito. Sii sobrio di lodi personali : conosci il paese, e sai com' è diffidente. Per- ciò mi son permesso di togliere tutto ciò che si riferisce alla Associazione nella prima lettera. *10. Alla moglie (2). Napoli 26 luglio. Cara Maria, Ieri air una dopo mezzanotte sono giunto in vista di Na- poli. E per sbarcare ho dovuto attendere il mattino. Ira- (1) Pubbl. dal Mandalari. Una nota dell'editore avverte che la let- tera si riferisce al tempo in cui l'Associazione costituzionale di Napoli fondò il giornale l'Italia : dunque, al 1863. — Nicola Marselli, ufficiale e scrittore reputato di cose storiche e militari, n. a Napoli il 6 no- vembre 1832, fu scolaro del De-S. nel Collegio della Nunziatella. E ancora vivente, ma da alcuni anni afflitto da grave malattia nervosa. (2) La signora Maria Testa, figliuola del maresciallo generale Giu- seppe e di Caterina de'baroni Arenaprimo, alla quale il De-S. s'era congiunto in matrimonio, il 22 agosto 1863. Per una svista, nel primo dei due opuscoli citati del Mandalari, si reca come data del matri- monio il 1868. — Questa lettera è pubblicata dal Mandalari. L' edi- — 225 — magìna. Non ho chiuso occhio. Alle cinque sono disceso. Ma dove andare? A quest'ora in Napoli tutti dormono. Ho trovato chiuso il portone dell" Associazione e del giornale. Picchio e ripicchio. Finalmente una brutta vecchia, mezzo nuda, sporca e son- nolenta, viene ad aprire col dispetto negli occhi dal sonno interrotto. Monto su. Nessuno apre. Non ci era alcuno. Lascio allora la valigia presso la disamabile vecchia che tornò a dormire, corro un po' per Napoli, e lo trovo sem- pre giulivo , sempre caro. Alle sette vado da' De Luca. Passo un' ora a cicalare con quella brava gente, sempre buo- ni e affezionati amici. Alle otto vado dal barbiere; sbrigo qualche faccenda. Alle nove ritorno all' Ufficio del giornale. Crederesti ! Non e' era ancora nessuno. Vedi poltroneria na- poletana. II giornale esce alle sei, e alle nove nessuno. Mi -on messo a tavolino, e il primo pensiero sei stata tu; ho detto : — voglio scrivere a Maria. — Ti ho scritto da Firenze. Ti raccomando aver cura della tua salute, e spesse pas- seggiate con la brava famiglia Marselli, alla quale porgi i miei saluti. Attendo con vivo desiderio tue nuove. A pro- posito, pria di lasciarti feci a Madama (I) una lunga pater- nale, e mi promise che si sarebbe condotta bene e non ti avrebbe dato alcun dispiacere. Se saranno rose, fioriranno. Ma ho paura che le spine resteranno spine, e allora quello che dee fiorire è la tua pazienza. Addio, cara. Comincia a venir gente. Più tardi ti ri- scriverò. IL A Luigi Settembrini (2). Torino i'9 aprile [1864]. Caro Luigi, Pubblicato che sarà il mio articolo su' Clericali , e bene fame un secondo, sviluppando l'idea appena gittata dell'ac- ore vi appone la data del 1869, elie a noi non sembra esatta. Cre- diamo che vi riferisca invece al 1868 o 1864 (1) Con tal nome si suol chiamare a Napoli la cameriera. " Mensù „ inionaieur) è poi il titolo del cuoco. (2) Il sig. Raffaele Settembrini ci ha favorito diciotto lettere dirette lai De-S. a suo padre, nel tempo che insieme scrivevano V Italia. Contengono notizie politiche , consigli ed indicazioni pel giornale , bcbemi di articoli. Ne caviamo, come saggi, i brani seguenti. Dx Sauctis — Manzoni e «eritti varii — Voi. II. 15 — 226 <"oi'do ch'esser dee fra tutti i liberali contro i clericali nelle elezioni municipali. Si può citare ad esempio Milano, dove, con questo mezzo, le elezioni riuscirono magnifiche. 30 aprile. Ho veduto Ricaso] i che ti saluta, e conviene perfettamente «elle nostre idee: che, non essendo possibile far niente fuori, bisogna aprir la lotta dentro. Di' ad Abignenti (1) che mi fac- «ia un articolo sull'incameramento dei beni ecclesiastici puro e semplice. Bisogna finirla con le mezze misure. Ma dev'es- sere un articolone da far chiasso. Prima però, pubblicate il mio articolo su' Clericali , eh' è quasi il programma di cui Abignenti traccerà le prime linee. 14 maggio. Sono contento che la faccenda sia accomodata con Im- briani (2). Ho letto una sua appendice molto bella, ma scor- retta; e so che questo gli dispiace. Bisogna farne racco- mandazione speciale a Mira. Vittorio ha molto ingegno, ma un carattere difiìcilissimo ; e come ti ama e ti stima molto, eredo che si possa tirare innanzi 'pacificamente^ quando fac- cia appendici e non si trovi a contatto con nessuno. Un entrefilet sulla evoluzione della Sinistra esagera al- quanto la posizione. Non dimentichiamo che la Sinistra, per quanto si moderi , non ha mai il nostro programma. Pos- siamo in certi casi cospirare ad un solo scopo con lei, ed anche intenderci ; ma dobbiamo rimaner sempre distinti come partito. 20 maggio. Sapevo già qualcosa della coterie Pomari (3); ma, a chiu- derle la bocca, basterebbe invitarla a mandarci qualche ap- (1) Filippo Abignenti (1814-1887), liberale napoletano esule a To- rino prima del 1860, fu per molti anni deputato Nel 1861 ebbe la cattedra di Storia della Chiesa nell' Università di Napoli, ma insegno poco. Nel 1876 fu fatto Consigliere di Stato. (2) Vittorio Imbriani, ch'era stato, come sappiamo, suo scolaro a Zurigo. Vedi nota alla lettera 88, pp. 267-8. (8) Vito Fornari, filosofo e prosatore e più prosatore clie filosofo, noto per le opere sull' Arte del dire , e la Vita di Gesti. E pretetto della Biblioteca Nazionale di Napoli. Il Fornari e la sua coterie det- tero luogo ad una vivacissima polemica, cui presero parte liertianao iSpaventa, Vittorio Imbriani e Francesco Fiorentino. Si veggano, in iapecie, gli articoli dell' Imbriani, Vito Fornari estetico, ne^ Giornata napoletano del 1872, e il libro del Fiorentino, La filosofìa f «-i^fi>'ino nella sua memoria e nel suo cuore, sono il suo costantemente devoto Adolf Gaspary. *39. -4 Ferdinando Martini (1). Roma, 23 luglio [1879]. Caro Martini, Accetto subito. Il tuo e pensiero fecondo, al quale si as- .''ocieranno tutti quelli che sperano ancora nel nostro avve- nire. Noi siamo un popolo che, tenuto per molti anni in una tensione febbrile, ora si agita stanco e apata nelle morte acque del passato e non sa trovar la sua via. Fu la coltura che creò V unità della patria, ed e la coltura che dee rin- sanguarla e redimerla da una decadenza di più secoli. Tu che vuoi chiuder 1' uscio di casa alla politica, fai benissimo, perche quello che vuoi tu fare, e la vera politica. Già l'As- sociazione della stampa aveva alzata questa bandiera. Le- varsi al di sopra delle differenze politiche, e perseguire fini nazionali comuni a tutt'i partiti, e massime la coltura che li comprende tutti , questo vuol dire un' Associazione della .stampa. Il FaìifuUa della domenica sarà come una serie di letture settimanali, e il vero giorno del riposo, un refrige- rio a' cuori agitati dalle piccole e grandi miserie della vita quotidiana. Ivi ci parrà di udire la voce di morti e di vivi che ci sveglierà dal letargo e ci alzerà in più larghi oriz- zonti. Divisi nelle lotte giornaliere , ci sentiremo uniti in quel di, uniti di cuore e d'intelletto innanzi a' grandi mae- stri, che formeranno il nostro gusto e e' insegneranno molte Fu pubblicata nell'anno I, n. I, del giornale lettarario il Fan I della domenica, preceduta da queste parole: " Francesco de San* al quale ci rivolgemmo pregandolo di mandarci di tanto in tanto ,,.. licosa di suo, ci ha risposto la lettera seguente: alla quale diamo il primo posto e perchò vai pili d'ogni programma, e perrhè ci par btion augurio il cominciare sotto gli auapicii di uomo così autore* e cosi riverito .. — 260 — utili cose. Mi reco quasi a vergogna di non essere stato a Monsummano, prostrato anch' io innanzi alla statua di Giu- seppe Giusti. In quel giorno tutti gl'Italiani ch'erano colà dovettero sentirsi concordi e buoni e lieti, perchè tutti sen- tivano a un modo, e onoravano sé stessi, onorando la me- moria del grande cittadino. Sono feste salutari, nelle quali un popolo ritrova lo spirito de' suoi maggiori, e vive di quello e si rifa giovine. Qualcosa di simile sarà il FanfuUa della domenica, quasi una festa alla quale assisteremo tutti, inchini e riverenti innanzi a quella grande statua d'Italia, la quale vedremo apparire in tutti quei nomi illustri che ci farai sfilare innanzi. Giacché penso che tu non vorrai imitare quei giornali di letteratura , dove il comune e il volgare tiene il principal luogo , insegna di gente frivola , che per fuggir gravità pedantesca resta nel trivio, e vi si educa leggiera e pettegola. Tu terrai alta la mira , e non lascerai nelle tue mani diminuire questa grande fìgufa di un'Italia sana e forte, maestra di buon senso, nemica di ogni esagerazione, e vaga di nuove glorie nell' arte e nella scienza , una figura che noi dobbiamo tramandare intatta alle nuove generazioni. Con questi voti e con questi augurii ti stringo la mano. 40. Benedetto Cairoli a Francesco de Sanctis. Roma 1 settembre 1880. Illustre e carissimo amico. Puoi immaginare quanto il mio animo ha sofferto per i fatti di Napoli, che provocano cosi disparati giudizii perchè la camorra col travestimento liberale vuol far credere cle- ricali e borbonici quanti la combattono. Il governo, mante- nendosi neutrale, deve far rispettare la legge, impedire le violenze, e pretendere non trasgredite le sue istruzioni. Tale il proposito di Depi'etis, come mi ha assicurato, aggiungendo che ordinò la più rigorosa e sollecita inchiesta. Per attendere il ritorno di Magliani convocherò il Con- siglio di Ministri Venerdì dopo mezzogiorno. Non oso do- mandarti di trasgredire le prescrizioni dei medici , perchè mi sta a cuore la tua salute; ma sarebbe certamente pre- zioso ed è quindi desiderato il tuo intervento, dovendosi di- scutere ben delicate e gravi quistioni. - 261 - La mia Elena, che rimase a Belgirate, sta bene, e sarà lieta di sapersi cosi gentilmente ricordata da te, e dalla tua egregia Signora, alla quale ti prego porgere i miei ossequii. A te mille augurii , ed il ricambio di una cordiale stretta di mano dal tuo aff."* dev."* amico Benedetto Cairoli *41. A Nicola Morselli (1). S. Giorgio a Cremano 14 ottobre 1882. Carissimo amico, La lotta elettorale questa volta è abbietta. Non è lotta politica , è corso di ambizioni e di tutte le più basse pas- sioni e artificii. Mancano le forae dirigenti che creano l'u- nità : perciò baraonda *42. Al sig. Nicola Abate (2). Caro amico, ^ono desolato che la mia lettera abbia potuto generare 1 idea che la mia accettazione non sia definitiva. Il Miraglia e tu, che mi conoscete da molto tempo, sa- pete qual valore io attribuisca alle mie parole , e come io sia affatto incapace di scappatoie, di sotterfugi, di distin- zioni gesuitiche. Dopo quella lettera, la scelta di un altro collegio sarebbe per me non solo mancanza di ogni senso di gratitudine e di buona fede, ma anche un disonore. Io non solo intendo di essere deputato del collegio di 'fra- ni, ma intendo di non accettare una candidatura ne in Na- poli , ne altrove , ove quel collegio sia dichiarato vacante insieme con gli altri , ciò che io avrei voluto evitai*e per causarmi fastidii. Ho già pregato i miei amici di Napoli a desistere dalla loro iniziativa. ',>uesto il mio pensiero. A me non piace esprimerlo per di dichiarazioni e di condizioni, che mi paiono cosa in- 'U Pubblicata dal Handalari. (-') Pnbbl. nel voi. In memoria, pp. XXI-XXIII. - 'JÒ2 — «ìecoropa per il collegio e per me. Bisogna lasciare intatta la spontaneità dei sentimenti negli elettori e nel candidato. Se il sig. Paolillo mi farà l'onore di scrivermi, io accetterò la candidatura con gratitudine, e questo vuol dir tutto. Siamo in tempo di equivoci , dove i giornali ne contano di ogni colore, e parlano di me e delle mie intenzioni, se- condo le passioni e gì' interessi da cui sono ispirati. Spero che crederete sempre più a me che a' giornali. Intorno al mio nome si agita una quistione delicatissima. Nel primo collegio di Avellino, che sarà vacante, è sorto un movimento salutare d' indignazione per il risultato delle elezioni, vedendo e me fuori in tutto. Io non mi pi'esen- terò , non farò dichiarazioni , e oggi stesso ho mandato le mie dimissioni da Consigliere provinciale. Ma a me importa che quel movimento riesca per l' onore e il decoro della mia provincia , perchè sottrarrebbe quelle povere contrade alle ^asse influenze, che hanno trionfato, e rialzerebbe il corpo elettorale innanzi a sé stesso , e alla pubblica opi- nione. Io ne ho scritto anche al Mancini, che non potrebbe dissentire, essendo anche lui in causa. Ora la grande arma di cui si servono quelli che pensano più al loro personcino che all'onore della provincia, è questa, che io sarò eletto a Trani. Perciò vi raccomandava e vi raccomando la ri- serva circa alle mie intenzioni, e lascio che i giornali par- lino a modo loro. Se quel movimento non è che una vel- leità, me ne dorrò per la mia provincia. Se riesco, mi pro- pongo di andare in Avellino per rallegrarmi di questo ri- sveglio, ed esporre i motivi che mi inducono ad essere de- putato di Trani. Ti do facoltà di leggere questa lettera , non solo all' egregio Paolillo , ma anche al sig. Miraglia , affinchè sappiano tutto, e non ci sia possibilità di equivoci. Ah ! vorrei essere un indifferente, come certuni, che, sod- disfatta la loro persona, dicono: venga pure il diluvio. Ma io son fatto cosi, e mi si stringe il cuore a pensare in che bassa condizione è caduta quella nobile provincia. Un risve- glio morale ivi è necessario, e sarò lieto, ove il mio nome sia la bandiera, intorno a cui si aggruppino gli elettori o- nesti ed intelligenti. È inutile aggiungere che, dopo, verrò in Trani a stringere personalmente il nuovo patto di fratellanza politica. Ora non mi resta che pregarvi di fare i miei più cari saluti al Miraglia, mio vecchio e stimato amico, e al signor Paolillo, gratissimo a lui e agli elettori di aver stesa la mano a un naufrago. — 263 — *43. AI prof. Mano Mandaìari. Roma, 2 febbraio 1883. Prima ancora che presti il giuramento, mi viene in pen- siero d' inviare un saluto a' miei cari compagni di viag- gio (1), a te e a Laurini. Questo saluto esprime tanti affetti, antica amicizia riba- dita dalla riconoscenza, dalla cara compagnia, dalla comu- nanza di tante idee, di tante impressioni; accoglietelo nella sna semplicità e nella sua eloquenza. Ho avuto un gran piacere in questo mio primo entrare nella Camera. Sono apparso come il redivivo e l'aspettato, e mi hanno fatto cosi lieta accoglienza. Ma le amicizie po- litiche non producono l' intima soddisfazione che viene dalle amicizie di cuore. E torno a voi , e dico che 1' anima mi luce quando penso a voi. *44. Al sig. Bruto Amante. Veggo nel Pungolo che tu sei tornato a Roma, dove mi era stato scritto giorni fa che non eri. Mi era stata nasco- sta la disgrazia per due giorni (2). Non so se hanno fatto bene, perchè ove la avessi saputo a tempo, avrei avuto la foi-za , malgrado la mia malattia , di compiere 1' ultimo dovere vei-so l'amico e compagno della mia prima giovinezza, ch'io ho amato come fratello senza nessun intervallo d' interruzione. La disgrazia è troppo gran- de, perché occorrano parole di conforto. Non resta che ono- rare la sua memoria con azioni degne di lui. Io ti ho considerato sempre come tiglio mio, e se questo ti può confortare, pensa che questo legame e ora più inti- mo, poi che ti è mancato il padre naturale. Ho letto le parole pie del Mandaìari, e gliene voglio più V)ene e ti prego farglielo sapere, ignorando io il suo indirizzo. (1) Il viaggio elettorale di Trani. (2) Come ia pret-edeote, pubb!. dal Mandatari, con la nota : " Parla della morte del beuatore Enrico Amante, n. in Fundi il 4 gennaio libiti, e morto in Napoli, il 16 settembre 1883 „. — 2Ó4 — *45. AI sig. Antonio Morano (1). Napoli 13 agosto 1883. Sou qui fin dal 22 giugno ed esco raramente per la mia cagionevole salute. Non so cosa si è fatto pel Petrarca , e ne attendo notizia. Ho ritrovato una lettera scrittami il 12 marzo 1883, quan- do io era in Roma. L' ho riletta , e ci ho trovato un tale accento di verità, che mi ha fatto impressione. Io te l'ac- cludo, e ti sarò grato se puoi mandare la Storia della let- teratura, il Saggio sul Petrarca a questo giovane disgra- ziato, d' un ingegno e d'un' istruzione molto superiore al ri- stretto ambiente, in mezzo a cui si trova esiliato. ♦ 46. Al sig. Gerardo Laurini. Mio carissimo Gerardo, Mi ha fatto gran piacere rivedere i tuoi caratteri e aver buone nuove della tua salute. Non ti dispiaccia di dovere abbandonare la caccia, esercizio troppo violento per un con- valescente. Più tardi, rifatto bene, ci tornerai con un piacere reso più acuto dalla privazione. Attendo lunghe lettere da te che sei un giovinetto. E per dartene occasione, ti acclu- do un brano del mio Leopardi. Si tratta di particolarità de- licatissime; e tu che hai visto Recanati , puoi verificarne r esattezza e dirmene qualcosa. Questo brano 1' ho scritto fin dal 1876, e conservato tal quale nella revisione di oggi. Non ignoro tante particolarità aggiunte da critici pettegoli, parte inutili, e parte volgari. Sono escrementi storici, AqW- ziosissimi al palato di parecchi nuovi critici. Vedi che ti ho dato argomento di una lunga lettera (2). (1) Pubblicata nel volume In tnemoria, p. XXVII. (2) Da un* altra lettera al Laurini del 29 maggio 1883 togliamo questo giudizio: "Lessi il libro di Mausdley sulle alienazioni men- tali. Ci trovo una serietà eh? mi rimpicciolisce sempre più il Lom- broso _. — 265 - La signora ti saluta ; mia nipote ti ringrazia delle cortesi espressioni, che attribuisce alla gentilezza del tuo animo, e io coi più cari saluti alla tua famiglia ti stringo cordial- mente la mano. Napoli, 29 settembre 1888. * 47. Allo stesso. Caro Laurini, Ho letto con infinito gusto la tua ultima, e mi sono gio- vato di alcune tue rettificazioni , confidando nell' esattezza della tua memoria. Ma quel gohhìis esto (1) non mi è potuto venire assolutamente sotto la penna, parendomi cosa inde- gna anche di esser messa in una nota. Il pudore di chi scri- ve con r occhio reverente verso la posterità non me lo con- sente (2). Ieri ho terminato l'anno 1817, diciottesimo anno di Leo- pardi, forse il più interessante per la storia. Scrivo fra in- terruzioni ridicole o penose, provocate dalla mia malattia, che non accenna a diminuire, e intorno alla quale disputano ancora i signori medici, con nessuna conclusione. Sono stato poi (li questi giorni afflitto per la morte improvvisa del se- natore Amante e per la malattia del carissimo De Meis. Non dico altro, che sono ferite troppo dolorose. Cerca di passartela bene, salutami la tua famiglia, e coi più cari saluti anche da parte della mia signora e nipo'e, erodimi sempre Napoli, 1] ottobre 1888. tuo afif."" F. de Sanctis. ,1) Allude all'aneddoto della canzone, che i monelli di Recanati cantavano per isrherno al Leopardi. (2) Nota delicatezza, che dovrebbe valere agli scrittori di ammae- .<(tramento ed esempio. vili. Per la biografia del De Sanctis. [ Sulla Tita del De-S. abbondano trattazioni troppo generali e spes- so declamatorie, come elogi e commemorazioni (vedine raccolto un buon numero nel voi. In memoria , curato dal Mandalari). Per gli anni della giovinezza e pel periodo della prima scuola , lo stesso Frammento autobiografico lascia alcuni^hè da desiderare , specie per la mancanza della cronologia. Il volume del Fekrieri (1888t per la parte biografica non è quasi altro che una compilazione dell*» scritture precedenti. Salvatore Sacerdote, La cita e le opere di F. d. S. (Firenze, Barbera, 1896, di pp. 84). riferisce dal carteggio del Lassalle un importante aneddoto sulle relazioni tra il Dp-S. e Giorgio Her- wegh (pp. 46-8), e tratta con qualche particolarità la vita politica di lui (p. 49 e sgg.K II Ferbiebi cita con diligenza le pubblicazioni biografiche anteriori all'opera sua; e alle sue citazioni poche ag- giunte son da fare, ed anche poco rilevanti, tranne quella dell'opu- tcclo , che noi qui ristampiamo in primo posto , e che è la prima biografia del De-S , e fu scritta quand' egli era ancora in vita. Questa biografia è dovuta a Nicola Gaetasi TAUBt^Risi, e fu stam- pata la prima volta in un opuscolo di pp. 32, intitolato: " F. d. .s' , deputato di S^^ta , cenno biografico ,, Brescia, tip. Sterli, 1865 (in fine la data : Brescia , 1 settembre 1865 ). L' opuscolo è dedicato con lunga epigrafe a Giovanni Spalazzi. Ne fu fatta una ristampa l'anno dopo nella collezione : Educatori Italiani. Galleria Sazionale (I), (Mi- lano, presso l'amministrazione del giornale " La Brianza ., 1866. di pp. 40) con piccole modificazioni e soppressioni. Da un appunto for- nitoci da un amico ricaviamo che si ha anclie un opuscolo di Ema- K Gaftani Tambirisi (nipote del precedente). F d.-S., profilo ario (Fermo, Bacher, 1880, di pp. 40), che ci è stato impossibil*- ,. a -ciarci , per quante ricerche ne abbiamo fatte. — Nicola Gae- tani Tamburini nacque in Monsampolo (prov. di Ascoli- Piceno ), il 26 gennaio 1824, e mori il 26 marzo 1870 in Brescia, dov'era preside del liceo. Fu perseguitato ed imprigionato dal governo pontefici" . come cospiratore liberale Pubblicò parecchi scritti , dei quali no- tiamo: La minte di Edgardo (^uinet (Milano, I8661, Donna e amore, pensieri raccolti (Milano, 1865), e parecchi articoli nella Rivinta con- - 268 - temporanea del 1865 e 1866, sulla Commedia dantesca, sulla Origine e classificazione delle arti, s\x\Y Istruzione del popolo in America, e su altri argomenti. — Ristampiamo 1' opuscolo intorno al De-S. nella edizione del 1865, tenendo d' occhio anche quella del 1866 In secondo luogo, abbiamo ripubblicata la breve commemorazio- ne che Jacopo Moleschott scrisse del De-S. nella Nuova Antologia, fascio, del 15 gennaio 1884; la quale commemorazione non fu rac- colta nel volume del Mandalari. Aggiungiamo, in terzo luogo, alcuni Ricordi intimi degli ultimi anni della vita del De-S. , scritti da Gebardo Laurini , e stampati nel giornale Soma, del 25 giugno 1893 ; i quali son saggio di un libro, che «1 Laurini pubblicherà fra non molto.] 1. Francesco de Sanctis. Cenno biografico di Nicola Gaetani-Tambukini. Veracità è parte di giustizia. CiCEB. Inven. Nella variabile scena del mondo non è raro che appaiano uomini costanti nelle proprie credenze, nei costumi e nelle amicizie: niuna scuola s'impone loro; dominati dalla pro- pria ispirazione in mezzo alle molteplici corruttele, passano operosi e alteri sotto l'usbergo del sentirsi puri; sempre più tenaci ne'loro generosi propositi, ed animati da nobile idea, ri.?algono con ascensione continua verso la sorgente perenne ed immortale della forza e della verità. Questi uomini rac- chiudono entro l'anima grande scintilla dell'infinito; posse- duti da un essere invisibile mediante la luce intellettuale , piena d'amore, rivelano come all'ingegno loro vada unita la virtù; vogliono farsi più amare che ammirare; sanno che missione vera è quella dell' amore. Per intuito si elevano sino ai grandi principi!, e senza esperienza conoscono i fatti come la incarnazione delle idee. Tutto ciò prova che seguono la legge della propria na- tura, e che posseggono la prima di tutte le virtù , la sin- cerità. Ogni azione testimonia in essi la coscienza; scrittori, il libro ti dice, che non avrebbero potuto parlare altrimenti; uomini di azione, i fatti ti narrano, che non avrebbero po- tuto in modo diverso operare. Non isviati mai dalla serena regione ove l'ispirazione li guida , pronti sempre ad introdurre in quel santuario gli spiriti pensosi , rifiutano discendere per un solo istante nel tumulto e nelle tenebre ove s'agitano a passione le molti- — 269 — tudini. Ma, a danno di questi eletti che serbano severamente il rispetto alla dignità dell'anima immortale, la turba de'leg- geri cospira con i maligni a calunniarli per oscuri se scri- vono o parlano, per t'olii se operano: più che folli, se dei nuovi cieli della fede e dell' intelligenza segnarono col loro sangue le prime scoperte. Fra questi osìuri e folli è da porre Francesco de San- ctis, che tu puoi difficilmente giudicare a guardarlo. Ne- gletto nelle forme , abbandonato negli atti , incurante del r impressione che produce, sollecito solo e contento del ben fare. Questo dispregio invincibile, che molti chiamano tra- scuratezza, di tutti i modi pe'quali gli uomini sogliono farsi largo nel mondo, diflFondervi e tenervi vivo il loro nome e far parlare di se, rende assai difficile la sua biografia. Della sua scuola critica appena alcune scarse notizie; de' suoi la- vori disseminati in giornali e riviste non facile aver precisa conoscenza (1); de' suoi scritti nota appena la materia, es- sendogli costume di non parlar mai delle cose sue; de'suoi fatti pochi e oscuri cenni. Nondimeno e dai suoi intimi e dalle nostre ricerche abbiamo potuto cavar tanto, che pure alcuna idea non molto dissimile dal vero possiamo offrire della sua vita. Nacque nel 1818 (2) da famiglia borghese in Morra, pic- colo comune della provincia del Principato ulteriore; ebbe l'educazione del cuore dalla madre; fece e compì i suoi studii in Napoli presso lo zio Carlo , distinto latinista , e crebbe alla scuola di Basilio Puoti, in quei giorni ristauratore della lingua e del buon gusto nelle provincie meridionali. Nominato a 18 anni professore di lettere italiane nel Col- legio militare della Nunziatella, nello stesso collegio più tardi sostenne la cattedra di eloquenza e di filosofia. A venti anni imprese ad avviare la gioventù napoletana sovra più largo e solido cammino , conducendola dallo stu- dio della sola forma a quello dell'idea, dal bello visibile al bello invisibile. Fin d'allora fondò la scuola della critica nuova in Italia ; e le sue lezioni allargarono 1' intelletto ed il cuore a tutti quei che corsero ad udirle. L'estetica, da (1) Nel 18H5 nessuno degli scritti del De-S. era stato pubblicato ancora in volume. (2) Correggi: 28 marzo 1817. — 2iU - lui professata, moltiplicava gli aspetti del belio, che, come la patria, nell'unità vigoreggia e risplende. Pubblicava in quei giorni varie prolusioni, che, mentre ve- nivano accolte con plauso universale, erano dai seguaci del Puoti ritenute quai lavori di discepolo ribelle. Nei funerali del comune maestro molti lessero discorsi ammirati per lo studio di una forma misurata, ma il De Sanctis, dando li- bero sfogo alla piena degli affetti , commosse fino alle la- grime 1). Bella dimostrazione si ebbe da'suoi discepoli, quando gli moriva la madre carissima : vollero che i funerali fos- sero a loro spesa, vi assistettero tutti, ed in quella dolorosa occorrenza pubblicava il De Sanctis un discorso, eh' è vera- mente documento che la storia della nuova scuola non può mandare perduto (2). Per dieci anni, quella scuola fu fre- quentata da molte centinaia di giovani. La natura di questi studii ci fa già intravvedere il signi- ficato e il valore della scuola ch'egli fondava in Napoli. Ne daremo a grandi tratti un'imagine, secondo le scarse no- tizie che abbiamo potuto raccogliere. La scuoia fu dapprima un'appendice di quella del Puoti, che ne' primi anni spesso v'interveniva, sorreggendo in quei difiìcili passi con la sua autorità il giovane discepolo, di cui avea fatto il suo colla- boratore ed amico. Le apparenze nelle due scuole erano le stesse. Vi si facevano studii di lingua, si componeva, si tra- duceva , si esaminavano gli scrittori. Fin dal primo anno novità importante si notava nella scuola del De Sanctis, le sue lezioni di grammatica. La grammatica italiana era giunta, per il naturale lavoro di un'analisi prolungata per parec- chi secoli, ad uno sminuzzamento di regole e di divisioni e suddivisioni, che era sfinimento; si erano sminuzzati anche il Corticelli e il Cinonio, già sì minuti. Il De Sanctis, dottis- simo di quella materia, fece un lavoro inverso, procedendo dalla diversità delle forme all' unità dell' idea, e ritirandola a'principii generali; sì che molte diff'erenze arbitrarie spa- rirono, molte regole divennero ridicole, ed un solo concetto col suo sviluppo logico penetrò quella massa informe di casi, di paragrafi e di avvertimenti. Queste lezioni fecero tale ef- fetto , che quelli i quali non seguirono il De Sanctis Del- l' ulteriore sviluppo dei suo ingegno, Io chiamarono il gram- rnatico, ed anche oggi taluni per ischerno gli danno questo (1) Vedi il discorso del De-S. in Nuovi saggi critici, pp. 317-820. (2) Anche nei Nuovi saggi critici, pp. 345-348. — 271 — titolo. Le sue lezioDÌ grammaticali erano però ai chiaroveg- genti serio indizio di una vera rivoluzione letteraria: perché tin d'allora si annunziava dispregiatore delle vuote forme, nelle quali in quegli anni si poneva V alfa e V omega della letteratura, disperdendole, assimilandole, riducendole a' loro principii, e mirando così a formare una scienza di quell'ag- gregato arbitrario di precetti. Questo studio delle cose, que- sta tenerezza de' principii, questo partir sempre dal di den- tro al di fuori, indizio d'ingegno filosofico, annunziava il carattere della nuova scuola. Ma se il De Sanctis combat- teva acerbamente i pedanti, gli ammassatori di regole e di precetti, non era meno severo verso certi autori di gram- matiche filosofiche e ragionate, che si perdevano in astrat- tezze metafisiche, ed abusando dell'ellissi, come già prima il Sanzio, a forza di stiracchiate e sofistiche interpretazioni ed analisi toglievano le difl'erenze più legittime e confon- • levano insieme forme diversissime. Il De Sanctis riteneva •he la torma grammaticale fosse insieme parola e pensiero; i-he disgiungere l'uno dall'altro questi due elementi era un uccidere la forma, togliendole una delle sue parti vitali ; che dal Morano; ma la se- conda metà del secondo volume non fu pagata, perchè usciva fuori dei limiti del contratto primitivo, che già una volta erano stati al- largati col consenso dell'editore. Né il De-S. reputò finito il .huo la- voro; le cui ultime pagine si sarebbero dovute «volgere in un teno ▼olume, comprendente la storia della.letteratura moderna (vedi piti sotto, al n. II di questa bibliografia). È il caso di ripetere all'inverso il eurrenti rota oraziano. Quasi per consolare l'editore, il De-S. di- ceva in una delle lettere: che, fatta ormai la stcria, si poteva pen- sar poi al compendio ad uso dei Licei. Il qual disegno di compendio DOS fu poi eseguito ; e non poteva eseguirsi. " Tengo immensi materiali raccolti „ , — scriveva il De-S. al Mar- etano; ed era esalto. Egli aveva già percorso più volte in lungo e in largo la storia della nostra letterBtura, nelle lezioni fatte a Napoli, " Torino ed a Zurigo; e teneva innanzi non solo molte tracce ed ap- riti di lezioni, ma anche parecchi quaderni dei tuoi scolari. Di — 300 — questo materiale manoscritto una parte si è serbata e si trova ora nella Biblioteca del Museo Nazionale di San Martino. Aveva scritto, inoltre, una speciale monografia sul Petrarca; abbozzata un'opera su Z>aw135. Saggi critici. La prima edizione reca questo frontespizio : Saggi critici di Fran- cesco de Sanctis, Napoli, stabilimento dei classici italiani , Vico Lu- perano, n. 7, 1866. — Va innanzi al volume una prefazione di Fran- cesco Moutefredine, già scolaro del De-S. , negli anni precedenti il 1848. — Comprende 23 saggi. La seconda edizione ha sul frontespizio : riveduta dall' autore ed aumentata di nuovi lavori, Napoli, Antonio Morano ed., 1869. — Nu- mera pp. 547. Precede il frontespizio un bottello, sul quale si legge la seguente avvertenza : " Quest' edizione è accresciuta dei seguenti saggi : Delle opere drammatiche di Federico Schiller. Una storia della lettera- tura italiana di Cesare Cantii. Veuillot e la Mirra. Janin e la Mirra. Pier delle Vigne. Armando. L' ultimo dei puristi „. In questa edizione fu tolta la prefazione del Montefredine, aven- do il De-S. intenzione, come diceva, di aggiungervene una sua, che poi non scrisse (vedi lett. al Morano, in questo voi., pp. 239). A proposito di questa seconda edizione, in una lettera del De-S. al Morano, da Firenze 81 marzo 1869, si legge: " Ghio [il tipografo] ha fatto un' edizione scellerata, piena di errori. Non ci è quasi pa- gina dove non ve ne sieno. È cosa che mi fa rabbia „ L'edizione seguente reca: " Terza ediz. riveduta dall' autore, Na- poli, 1874 „. Dalla quarta in poi , cominciano le edizioni stereotipe. In com- mercio è ora l'edizione stereotipa, con la data del 1898, di pp. 550. Qui indicheremo la data e la prima stampa di ciascuno degli scritti che compongono il volume, completando le notizie recate dall' Im- BRiANi, nella prefaz. agli Scritti critici, e dal Ferbikri, op, cit 1. Delle opere drammatiche di Federico Schiller. Reca la data erronea: giugno 1850, dal carcere di Castello dell' Ovo. Nel giugno 1850 il De-S. non era stato ancora arrestato, e dimorava in Calabria. Vedi Julia, De Sanctis in Calabria, e Ferbieri, op. cit. Anche il Gaetani Tamburini conferma che lo scritto fu composto in Calabria; ed aggiunge che "si pubblicò in Napoli, unitamente ai drammi del poeta alemanno , tradotti dall' insuperabile Maffei „ (vedi in questo voi., p. 277). 2. Saint Marc de Girardin. — Cours de Uttérature dramatique. Nel giornale il Piemonte, a. II, n. 9, 10 gennaio 18f>6. 3. Triboulet. Nel Piemonte, a. II, n. 20, 23 gennaio 1856. 4. Ponsard-Lucrezia. Nel Piemonte (?) 5. Sulla mitologia. — Sermone di Vincenzo Monti. Nel Piemonte, n. 227, 26 settembre 1855. 6. Beatrice Cenci di F. D. Guerrazzi. Nel Cimento, voi. V, a. III, 1855. — 303 — ~. ^Salanti e le Grazie di G. Prati. Nel Cimento, voi. IV, a. Ili, 1855. . L'Ebreo di Verona del Bresciani. Nel Cimento, voi. V, a. Ili, 1855. < Memorie di G. Montanelli. Nel Piemonte, a. II, n. 46, 21 febbraio 1856 10. Sulle stesse. Ivi, n. 46, 22 febbraio 1856. 11. Memorie storiche e letterarie di Villemain. 12. Lavori di scuola. Nel Piemonte, a. II, n. 26, 30 gennaio 1856. 13. Giulio Janin. Ivi, ivi, n. 165, 17 luglio 1855. 14. Janin e f Alfieri. Ivi, n 148, 24 giugno 1855. 15. Veuillot e la Mirra Ivi, n. 148, 24 giugno 1855. U>. Janin e la Mirra. Ivi, n. 191, 15 agosto 1856. 17. Poesia di Sofìa Sassernó. Ivi, a. II, nn. 62 e 64, 12 e 14 marzo 1856. 18. Epistolario di Giacomo Leopardi. Nel Piemonte (?). 19. Alla sua donna. Poesia di G. Leopardi. Nel Piemonte (?). .Schopenhauer e Leopardi. Nella Ricista contemporanea, voi. XV, a. Vi, 1858. 21 Una storia della letteratura italiana di Cesare Cantit. Pubbl. nel 1865 nei Rendiconti della R. Accad. di Scienze Morali « politiche di Napoli, p. 189 8gg. Storia del secolo decimonono di G. G. Gervinus. Nel Cimento, voi. VI, a III, 1855. Giudizio del Gervinus aopra Alfieri e Foscolo. Ivi. •. Conrs familier de littérature di Lamartine. Nella Rivista contemp., voi. IX, a. V, 1857. 25. Dell'argomento della Divina Commedia. Ivi, voi. XI, a. V, 1857. ■?'■> Carattere di Dante e sua utopia. ivi, voi. XII, A. V. 1867. Pier delle Vigne. Per la prima volta nel volume. Reca la nota: Prima lezione del secondo anno di un corso sopra Dante fatto dall'autore in Torino, 18.55. La Divina Commedia versione di F. Lamennais. Nel Cimento, voi. VI, a III, 1856. • Le Contemplazioni di Victor Hugo. Nella Ricista contemp., voi. VII, a. IV, 1860. I L' Armando di G. Prati. In Nuova Antologia, luglio 1868. L' ultimo dei puristi. Ivi, novembre 1868. - Ai miei giovani. Prolusione letta neW Istituto PoliUcnico di Zurigo. Probohilmente pubbl. per la prima volta nel volume. - 304 — VI. Nuovi saggi ckiticl La prima edizione reca questo frontespizio: Nuovi saggi critici di Francesco de Sanctis, Napoli, A. Morano, 1872. Nel 1879 fu pubblicata la seconda edizione, aumentata di dodici eaggi. Le edizioni seguenti sono stereotipe, ed ora é in commercio quella con la data del 1898, di pp. 528. Circa l'origine di questa seconda raccolta, vedi la lettera del De-S. al Morano, in data di settembre 1871 (in questo volume, pp. 249). Ecco le indicazioni per ciascuno degli scritti contenuti nella rac- colta : 1. Francesca da Rimini. In Nuova Antologia, gennaio 1869. 2. Farinata. Ivi, maggio 1869. 3. Ugolino. Ivi, dicembre 1869. Dei parecchi corsi tenuti dal De*S. su Dante, si ricorda special- mente la serie delle conferenze fatte a Torino nel 1854 e 1855. Si vegga sul proposito un articolo di Orcukti, sul Cimento , V , 1855 , intitolato: Lezioni pubbliche sulla Divina Commedia dal prof Francc SCO de Sanctis. Nel 1868 il De-S. volgeva in mente una grande opera su Dante. In una lettera al Marciano si legge : " Il Dante è quasi pronto. Saranno tre volumi , un volume un anno. Sarei disposto a venderne la proprietà, riscotendo quote annuali per una decina d' anni, tanto da assicurare l'esistenza : che non chiedo più. Se Mo- rano non è disposto, tratterò con Sonzogno , che me ne ha scritto. Ma io preferisco Morano e Napoli „. Ma l'idea non fu proseguita, e i materiali raccolti furono adoperati in parte per la Storia della letteratura , in parte per questi Saggi danteschi. 4. Un dramma claustrale. In Nuova Antologia, marzo 1870. 5. La prima canzone di G. Leopardi. Ivi, agosto 1869. 6. Ugo Foscolo. Ivi, giugno 1871. 7. Giuseppe Farini. Ivi, ottobre 1871. 8. L'uomo del Guicciardini, Ivi, ottobre 1869. 9. Settembrini e i suoi critici. Ivi, marzo 1869. 10. La critica del Petrarca. Ivi, settembre 1868. Fu preposto anche come introduzione al Saggio sul Petrarca, Na- poli, 1869. 11. Massimo D'Azeglio. Fu stampato in un opuscolo cosi intitolato : Massimo D' Azeglio parole di Francesco de Sanctis nella chiesa di S. Francesco di Paola. Napoli, Biraghi, 1866. — 305 — 12. Guglielmo Pepe. Ignoriamo dove fosse stampato la prima volta. 13. Il mondo epico Urico di Alessandro Manzoni. In Nuora Antologia, febbraio 1872. 14. Poche parole innanzi al feretro di Basilio Puoti. Il Puoti morì il 19 luglio 1847. 15. Frammenti di Scuola. Pubblicati per la prima volta nel volume. 2* ediz 16. Studio sopra Emilio Zola. Fu pubblicato in undici articoli nel giornale Poma, a. XVI, 1878, nn. 175, 198, 220, 236, 253, 267, 300, 308, 338, 340, 351. 17. Giovanni MelL Fu stampato in un opuscoletto: Giovanni Meli, Conferenza di Fran- cesco de Sanctis, tenuta addì 8 settembre 1875 nella grande aula della R Università di Palermo. 18. Parole «n morte di Luigi Settembrini. Nei Rendic. della B. Accad. di Se. Mor. e polii, del 1876, p. 19, e in un opuscolo di pp. 16, dal Morano, 1876. 19. Diomede Marva»i. Parole premesse al volume degli Scritti di Diomede Mabvasi, Na- poli, de Angelis, 1876. 20. Innanzi al feretro di Francesco de Luca. Fu pubblicato in un opusc. di pp. 8 dal Morano. 21. Adolfo Thiers. Nel giornale il Diritto, 14 Sftt«mbre 1877. 22. Nino Bixio. ivi, 2 ottobre 1877. 23. Benedetto Cairoli. ivi, 27 novembre 1877. 24. Il principio del realismo. In Nuova Antologia, gennaio 1876. 25. La Nerina di G. Leopardi. ivi, gennaio 1877. 26. £« nuove canzoni di G. Leopardi. ivi, giugno 1877. 27. li jy Congresso degli Orienta/isti. Breve discorso, pronunciato dal De-S. il 15 ottobre 1878 pt-l IV Congresso degli Orientalisti a i'irenze, nel banchetto dato a Palazzo Riccardi. VII. Scritti critici. II volumetto fu pubblicato postumo, e postumo anche alla morta del raccoglitore, Vittorio Imbrìani. Eccone il frontespizio: Scritti critici di Francesco de Sanctis con jtref azione e postille di Vittorio Imbriani, Napoli, A. Morano, 1886. Numera pp. VI-121.0ra se ne ha in com- mercio la b' ediz. stereotipa, con la data del 1895. Contiene sette articoletti del De-S.: 1. La vita campestre, \ersione e giudizio di una poesia dello HAlti. 2. La Dama di Schiller. 8. L'ultimo addio... di Schiller. 4. Al baroni di HaugfHtz... di Stolberg. 5. / due Kli.ti„.. di Matthison e di Schiller. 6. // giornale di un viaggio nella Srixzera di G. Bonamici (G. B. Cereseto). 7. Lorenzo Borsini. Lei- tera a Luigi Larissf. De Sakctis — Manzoni <• scritti rorii — Voi. II. 90 - 306 - Questi sette articoletti erano stati pubblicati tutti per la prima volta nel Piemonte dell'ottobre, novembre e dicembre 1855, e gen- naio 1856. Vili. Scritti varii ikediti o rari. E la presente raccolta, suddivisa in due volumi. Le date e pri- me stampe degli scritti qui raccolti sono indicate nelle avvertenze premesse a ciascuno. IX. Autobiografia. Reca questo titolo : La giovinezza di Francesco de Sanctis , fram- mento autobiografico pubblicato da Pasquale Villari, Napoli, A. Morano, 1889. — Numera pp. XIX-386. Se ne ha ora in commercio la 2." ediz. stereotipa, con la data del 1895. Contiene una dedica del Villari al De Meis, la prefazione del Vii- lari, il frammento autobiografico in ventotto capitoletti, la comme- morazione del De-S., fatta dal Villari allAssociazione della stampa, una lettera della vedova De-S., che narra alcuni particolari biogra- fici, e r elenco degli uffizii pubblici tenuti dal De-S. Scritti politici. La prima edizione s'intitola: Scritti politici di Francesco de Sanctis raccolti da Giuseppe Ferrarelli, Napoli, A. Morano, 1889. — Numera pp. IX-268. Se ne ha ora in commercio la 3." ediz. stereotipa , con la data del 1896. Contiene undici articoli cavati dal giornale l' Italia , dal 1864 al 1866, e ventitré cavati dal Diritto, del 1877 e 1878: inoltre, un Di- scorso a' Giovani, del 18 febbraio 1848 (già pubbl. in un opuscolo di pp. 14, Napoli, Stab. all'insegna dell'Ancora, 1848, e ristampato dal prof. A. Lombardi, Napoli, Savastano, 1888, p. If'), due discorsi pronunziati alla Camera il 10 dicembre 1878 e il 30 maggie 1879, e un altro pronunziato a Caserta il 12 maggio 1880. XL Il Viacgio elettorale. Keca questo titolo : Un viaggio elettorale , Racconto di Francesco de Sanctis, Napoli, A. Morano, 1876. Numera pp. lV-109. Non è stato più ristampato. È formato di quattordici lettere o capitoli, che furono pubblicati la prima volta nel 1875, in appendice alla Gazzetta di Torino. N. B. In questa Bibliografia gli scritti del De-S. sono stati disposti secondo che si trovano raccolti nei volumi dell'edizione del Morano. A mo' d'esempio: non è stata citata né la prima né la seconda edi- zione del canto La Prigione, perchè, essendo già indicato sotto il n. Vili il volume in cui esso è raccolto, in questo volume stesso si trovano le notizie relative al tempo di composizione ed alle edi- zioni antecedenti. — 307 — Avvertiamo anche che non abbiamo tenuto conto delia traduzion* del Manuale del Rosenkranz , Napoli , Stamperia del Vaglio , due volumi, 1853-54, per la quale cfr. notizie nel Feeriebt, op. cit-, pp. 1 «6-173. I manoscritti del De-S. , adoprati per la presente raccolta , sono -tati dalla signora vedova De Sanctis donati alla Biblioteca del Museo di San Martino. Tra essi si potrà forse spigolare ancora qual- he cosa; e noi additiamo in ispecie i frammenti delle lezioni su :>ante, ed alcuni quaderni di scuola; tra i quali notevole quello del -ig. T. Frizzoni, suo uditore a Zurigo, che raccolse le lezioni sul Pe- trarca , con accenni sullo svolgimento anteriore e posteriore della poesia amorosa (Dante -Leopardi). Il Gaetasi Tamburisi poi ci dice (V. sopra p. 286) che " il corso di lezioni sulla Storia della Critica fu raccolto da un suo discepolo „ ; e certo sarebbe bene il ritrovarlo. Tra le carte della Bibl. di S. Martino sono anche alcuni quaderni li lezioni di lingua e di rettorica, tenute a Napoli prima del 1848. Ma, fatte que.=te avvertenze, noi pur crediamo che poco d'impor- tante si possa ancora aggiungere a ciò che è ora noto dell'attività letteraria del De-S. Non cosi per ciò che riguarda i suoi scritti e di- neorsi politici. Tra i discorsi elettorali e parlamentari ve ne sono di bellissimi, ed occorrerebbe farne una scelta intelligente, con le oppor- tune illustrazioni. Parecchi si trovano estratti in opuscoli, dei quali menzioneremo i tre Discorsi jyolitici pronunziati a Chieti, Foggia e Ca- lmeria da lui, ministro dell'istruzione, Roma, tip. Botta, 1830. (li Ferra- relli riprodusse nella sua raccolta solo quello di Caserta). Lo spo- glio, fatto dallo stesso Ferrarelli, degli articoli pubblicati nell' /ubbliche adunanze , e " nella festa del tiro nazionale gli usci un iiscorso in forma di toast sulla Svizzera, che fu riprodotto da tutti giornali „. Riprendendo poi un discorso giù da noi cominciato (vedi Introd. al voi. sulla Letteratura del s. XIX, p. xii-xvi), se si potesse eseguire da apo ed ordinatamente una ristampa di tutte le opere del De-S., sa- ebbe opportuno rifarne 1' ordinamento, che ora lascia assai da desi- ì«rare. I due volumi di Saggi e Nuovi saggi, gli Scritti critici, le partii e 8* e l'Appendice delia presente raccolta, gli Scritti politici, " il Viaggio elettorale si dovrebbero rifondere ed ordinare nelle se- -luenti categorie, di cui indichiamo la contenenza: I. Saooi siLLA LETTERATURA ITALIA.NA. 1. Saggi damtescJii (Frane»- ■CI, Farinata, Ugolino, Pier delle Vigne, la Divina Commedia del La- lennais). 2. Un dramma claustrale. 3. La poesia cavalleresca, lezioni. I. L' uomo di Guicciardini. 6. Machiavelli, conferenze. 6. Giovanni Meli, inferenza. 7. Giuseppe Parini. S Ugo Foscolo. 9. Sermone sulla Mito- >gia del Monti. 10. Alfieri e i critici francesi. 11. Alfieri, Foscolo, Man- :oni e i giudizii del Gervinus. 12. La Beatrice Cenci del Guerrazzi. 13. Giovanni Prati (Satana e le Grazie, L'Armando). 14. L'Ebreo di Ve- ■ n.i dei Bresciani. 15. Le Memorie del Montanelli. 16. La Storia della '.t'rilura italiana del Cantìi. 17. L'ultimo dei puristi. 18. Settembrini /.' Lezioni di letteratura. In morte di L S., I^ Ricordanze). 1». Una ommedia nuovm. 20. Il Giornale del Cereseto. II STfiii M LETTKBATrKA STRANIERA. 1. La Fedra di Hacin». — 308 — 2. Sttlle opere drammatiche di Schiller. 3. Versioni e eomenti di poesie tedesche (dello H5lti, dello Stolberg, dello Schiller, del Goethe, del Matthison). 4. Il Corso di letteratura del Lamartine. 5. Victor Hugo (8t. Marc de Girardin e Triboulet, Le Contetuiilazioni). 6. La Lucrezia del Ponsard. 7. Memorie del Villemain. 8. Poesie di S. S'assemò. 9. Scho- penhauer e Leopardi. 10. Il principio del realismo (Kirchmann). 11. Emilio Zola (Studii, e conferenza awW Aasommoir). 12. Il Darvinismo nell'arte, conferenza. III. Scritti e discorsi politici. 1. Discorso a' Giovani (1848). 2. Il Murattismo. 3. Articoli dell' Italia. 4. Articoli del Diritto ( ai quali occorrerebbe aggiungere quelli su Thiers, Bixio e Cairoti, e gli scritti sul ly Azeglio e sul Pepe). 5. Discorsi al Parlamento 6 Discor.9Ì elet- torali. 7. Un Viaggio elettorale, racconto. IV. Scritti varii. 1. La scienza e la vita. 2. La scuola. 3. Lavori di scuola. 4. Commemorazioni (Marvasi , De Luca , etc. ). B. Poesie. 6. Lettere. Allo Studio sul Leopardi dovrebbero essere aggiunti i paragrati pub- blicati nella presente raccolta, e ad esso si dovrebbero coordinare gli altri scritti sullo stesso poeta, sparsi nei Saggi e Nuovi saggi. Per la ristampa dello Studio sul Petrarca potrebbero offrire qualche utile illustrazione i quaderni di scuola di sopra indicati. Al Frammento autobiografico si potrebbero aggiungere i Frainmenii di scuola, pubblicati nei Nuovi saggi, ed altri scritti dell' appendice della presente raccolta. Si avrebbero così le seguenti partizioni di tutte le <)pi're del De-S. 1. Storia della letteratura italiana. 2. Studio sul Petrarca. 3. Studii sul Leopardi. 4. Studii e lezioni sul Manzoni. 5. Lezioni sulla Letteratura italiana nel secolo XIX. 6. Studii e lezioni di letteratura italiana. 7. Studii di letteratura straniera. 8. Scritti e discorsi politici. 9. Scritti varii. 10. Autobiografia. 11. Epistolario. Questa ristampa dovrebbe essere accompagnata da note illustra- tive, in modo da riuscir degna del maggiore critico e storico let- terario che abbia avuto l'Italia. Noi dobbiamo ora contentarci di aver apparecchiato qualche ma- teriale per tale futura edizione. BENEDETTO CROCE FRANCESCO DE SANCTIS E I SUOI CRITICI RECENTI POLEMICA Credete pure, egregi colleghi (1): molto volentieri io mi sa- rei astenuto dal prender ancora una volta la parola in difesa dell' indirizzo scientifico e dell'opera letteraria di Francesco de Sanctis : argomenti intorno ai quali mi è capitato di scrivere più volte e a lungo in questi ultimi anni. A. che giova ? — dicevo tra me. — Quelli che studiano e pensano hanno ormai innanzi elementi bastevoli a formarsi un giu- dizio diretto e compiuto. E al De Sanctis si tornerà , per una sorta di legge immanente nel corso degli studii , per la quale i migliori intelletti debbono di necessità , direi a termine fisso , stancarsi della esteriorità e dei particolari inanimati e aspirar di nuovo alla comprensione intima e vivente della storia, della scienza, della letteratura. E poi, non è sempre vero che le cose ripetute giovano : anzi più spesso annoiano e infastidiscono : annoiano coloro che hanno capito appimto perchè hanno capito , infastidiscono coloro che non vogliono o non possono capire , come il suono di un lingueggio di cui non s'intenda il significato. — .\ queste considerazioni obiettive se ne aggiungevano altre subiettive, ispiratemi, dirò francamente, dall'amor proprio ; perchè, per <|uanto piccola cosa io mi sia, pure mi don-ebbe assai di passare per un di coloro che si attaccano al nome di un uomo illustre, morto o vivo, e ne fanno come il gagne-pain della loro vanità ! Come egualmente mi dorrebbe che si po- ti) Qaesta memoria fu letta da me il 8 aprile 1898 all'Accademia Ponlaniana di Napoli, e qui si ripubblica senza altre variazioni che qualche raro ritocco di forma. Le poche aggiunt* sono in nota, e contrassegnate con asterischi. — B. C. — 312 — tesse mai pensare che, sotto specie di difender l'opera del De Sanctis , io in realtà mirassi solo a sostenere, ad ogni eosto e come per puntiglio, le mie qualsiano opinioni. Per queste ragioni , dunque , ed obiettive e subiettive , quando, nel passato anno, pubblicai un volume postumo di lezioni del De Sanctis sulla Letteratura italiana nel se- colo XIX, e, subito dopo, di esso comparve una lunga cri- tica negativa sull' autorevole Giornale storico della lettera- tura italiana (voi. XXIX, 492-502), dovuta all'egregio dott. Emilio Bertana , io , benché quella critica mi sem- brasse da capo a fondo sbagliata , pur feci uno sforzo su me stesso , e ricacciai nel petto le parole che già mi cor- revano in folla alle labbra. E riuscii a mantenere il mio proposito anche quando, di lì a qualche mese, il mio amico prof. Cesare de LoUis, polemizzando per altre sue occorrenze col Torraca, raccoglitore delle lezioni da me pubblicate in volume, buttò fuori in furia un sommario giudizio dispre- giativo di quell'opera del De Sanctis {Giorn. cit., XXX, 201), e lo ripetette poi, alquanto temperato, e con più particolari, in un recensione inserita nella Coltura e nella Perseveranza (13 e 14 sett. 1897). Ma ecco che , qualche settimana fa , Giosuè Carducci, in un articolo intorno alla canzone del Leo- pai'di all'Italia {Riv. d'Italia, fase, del 15 febbraio 1898) (1), non solo fa una continua e minuziosa ed aspra censura del saggio scritto trent'anni addietro dal De Sanctis sulla me- desima canzone, ma nel fatto particolare trova come la giu- stificazione ad esprimere un giudizio generale del tutto in- giusto sul valore scientifico del De Sanctis, e anche, come dirò più oltre, su cose che toccano il carattere dell' uomo. Ora, dopo l'articolo del Carducci, non è più davvero il caso di tacere. L'autorità dello scrittore fa sorgere più vivo il dovere di ribattere un errore, che si afibraa di quell'auto- rità ; né me ne ritiene la riverenza che ho, alta e sincera, pel Carducci, perche altrimenti macchierei ed avvilirei in- nanzi a me stesso questo mio sentimento , mutandolo in adulazione vergognosa. Veramente , avevo sperato che , a i*endere inutile la mia fatica, fosse intervenuta l'opera di altri che avesse maggiori titoli di me per prender la pa- rola in tale occasione. Ma , poiché nessun altro si fa in- (1) • Il lavoro, che ebbe termine nel fascicolo seguente, è stato ri- stampato " con emendazioni e aggiunte „ nel volume. Degli spiriti e delle forme sulla poesia di Giacomo Leopardi, considerazioni di Giosuì: Cabduoci, Bologna, Zanichelli, 1898, pp. 183-216. — 313 — nanzi , io , non sollecito , ma spinto proprio dal dovere , grido ( mi sia concesso di anticipar la citazione per pre- venir r ironia), grido: Io mi sobbarco! Nelle pagine che seguono intendo dunque di rispondere alle critiche si generali che particolari , mosse dai dottori Bertana e De Lollis e da Giosuè Carducci all'opera di Fran- cesco de Sanctis. Chiedo ad essi licenza di esprimere il mio pensiero con la massima semplicità e senza troppi giri com- plimentosi; tanto per non imbarazzarmi coi piedi negli stra- scichi dei vestiti di Madonna Verità ! E. prima di entrare in argomento, adempio all'obbligo di ringraziare i due primi delle parole cortesissime, che, pur criticando il volume del De Sanctis, hanno voluto adoprare per le modeste cure, che io vi ho speso intorno, di annotatore ed illustratore. I. La concezione storica ed estetica del De Sanctis. Tutte le opposizioni ai metodi del De Sanctis e tutti i iVaintendimenti del suo pensiero, così in ciò che si è scritto (la altri pel passato come di nuovo nelle critiche che esa- miniamo, mettono capo in un triplice pregiudizio, che chia- merò il pregiudizio erudito , il pregiudizio letterario ed il pregiudizio estetico. Col chiarire e confutare questi tre pre- fifiudizii , si viene a giustificare la concezione storica ed >tetica del De Sanctis. Il pregiudizio erudito si manifesta con la diffidenza o il disprezzo verso la storia generale ; con l'elevazione, o idea- lizzazione, o gonfiamento a voluta storia generale di ciò le non e se non la pratica di alcuni rami speciali che erudito coltiva di solito; e, infine, con la pretensione che nello storico generale debba trovarsi la stessa coltura e pre- parazione intellettuale, ne più né meno, che ha l' erudito di ili'une specialità storiche. Io ho detto storia generale per servirmi dell'espressione corrente ; ma avrei dovuto dire storia dei fatti generali , o dominatori. Che cosa sono i fatti generali o dominatori ? Non è qui il luogo per questa indagine; ma è certo che tutti noi praticamente sogliam fai*e la distinzione tra fatti generali e fatti particolari, nella storia ; e, per esempio, le origini del liberalismo in Italia ci appaiono come un fatto storico generale rispetto agli incidenti di questo liberalismo nella tale o tal' altra parte d'Italia, la formazione dell'i- — 314 — (leale estetico seicentistico ci appare come un fatto stoi'ico generale rispetto alla produzione individuale del Preti, del Bruni, del Muscettola, o anche del Marino; e cosi via. D'al- tra parte , la genesi del liberalismo italiano è essa stessa un fatto particolare rispetto al movimento liberale europeo, e il seicentismo italiano è un fatto particolare rispetto alla moda letteraria europea del seicento ; il che vuol dire che generale e particolare sono in istoria distinzioni puramente formali, e le determinazioni son relative sempre a casi con- creti. Ora l'erudito, che si chiude in un dato ordine di fatti, per esempio nello studiare un gruppo di opere letterarie di una data epoca, e nel l' indagarne le condizioni prossime di formazione (vita degli autori , circostanze di pubblicazione, giudizii dei contemporanei, e così via), finisce col conside- rare questi fatti come i soli fatti letterarii di quell'epoca; e, se vede qualcuno che, prescindendo da queste ricerche o servendosene parzialmente e sorpassandole, si domanda qual'è la fisonomia letteraria dell'epoca, e le cause ultime di essa, — l'erudito, come dicevo, diffida o disprezza. Questa nuova ricerca gli sembra metafisicheria, fantasticheria o sottigliezza estetica : termini questi, cozzanti tra di loro , ma che, ap- punto perciò, rivelano bene lo stato intellettuale dell' eru- dito, che qui giudica di metodi e d' indirizzi. Ma poiché, in ogni modo, l'erudito stesso non può sco- noscere la necessità di una storia generale , che cosa fa egli ? Una cosa semplicissima. Egli pone innanzi un suo ideale di storia generale , che deve consistere nel riassunto , nel- r estratto concentrato di tutte le storie o monografie par- ticolari. Che cosa verrebbe, dunque, a compiere lo storico generale ? A far la sintesi — si suol rispondere. — E che cosa è poi questa sintesi ì II più umile, e quasi direi il più umiliante lavoro che possa affidarsi ad intelletto umano : raccogliere i risultati delle ricerche altrui, e metterli insieme con certo garbo. Lo storico generale diventerebbe così un compilatore, o qualcosa di simile al letterato di vecchio stile che dava la forma ai ritrovati altrui. , come mi ha ri- petuto più volte un diligente erudito di mia conoscenza, il ricercatore sarebbe come il cuoco che non suol mangiare di ciò eh' egli manipola, e lo storico generale si assiderebbe alla tavola imbandita. Sic vos non vobis, dunque ! Ahimè , in tal caso, ogni più modesto erudito che accerti un minimo fatterello, avrebbe il diritto di levar alta la fronte innanzi a uno storico generale di questa fatta, con l'orgoglio, pie- namente giustificato , di valer di meglio , perchè il valore — 315 - di qualunque pensiero, grande o piccolo, consiste nell'origi- nalità, di uno o di un altro genere, ma sempre nell'origi- nalità ! E l'originalità non è già l'aureola degli spiriti magni, ma il requisito e ii dovere elementare di chiunque chieda un minimo posticino nel campo della scienza. L'errore sta in ciò, che non si riconosce che lo storico dei fatti generali , o lo storico generale , come si dice per ellissi, è esso stesso uno storico specialista, e si distingue dagli altri come uno specialista dagli altri specialisti. E » come tutti gli storici specialisti, deve lavorar sulle fonti, perchè non è concepibile lavoro storico vero che sia fatto di seconda mano : le fonti originali non si possono dir mai interamente esaurite, e, quando non abbiano a dar altro, daranno sempre l'aria e Io spirito e l'impressione dei tempii che nei lavori di seconda mano vanno perduti. Se non che, d'altra parte, la preparazione dello storico generale deve essere molto diversa da quella dello storico degli altri fatti, e infinitamente diversa poi da quella del compilatore che riassuma le monografie particolari. Moltissime cose egli deve sapere che nelle fonti e nelle monografie non si contengono, e da moltissime altre, che vi si contengono, può prescin- dere senza danno. Chi voglia, a mo' d' esempio, far la storia dell'Italia nel periodo dei comuni, potrà sentire il bisogno di prepararsi ad essa con lo studio accurato della Russia moderna o del moderno Giappone per intendere come so- glia nascere e svilupparsi un movimento commerciale e in- dustriale, ovvero nell'Abissinia odierna per aver innanzi un esempio vivo dell'organizzazione feudale, che i comuni di- strussero ; e, vicevei*sa, potrà far di meno di leggere tutte le monografie di tutte le piccole città di una data regione d'Italia, le quali ripetano lo stesso ritmo di formazione co- raunale, ovvero le monografie tecniche di alcune battaglie o giuridiche dello sviluppo di ah-nni istituti, che rappresen- tino, dal suo punto di vista, particolari o non importanti a troppo minuti. Ora il De Sanctis, per inclinazione d' ingegno che rispon- deva al sentimento degli alti interessi della vita, era por- tato a trattare i problemi generali della storia italiana, e in ispecie della coltura e letteratura italiana. E volle trattarne non a modo di compilatore, ma, proprio, facendo la vera storia scientifica , la storia intima di quei fatti generali e dominanti. E vi si preparò coi mezzi ch'erano sufficienti per lo scopo propostosi: che furono lo studio acutissimo delle opere stesse letterarie, e la cognizione delle linee es. — 316 — senziall (non già della superficie) della storia italiana, sulla quale egli aveva a lungo e tenacemente meditato; per non dire dell'attitudine ch'egli aveva per natura e per conti- nuato esercizio a penetrare in quelli che sono i problemi* dell'anima e delle società umane. Come si può pretendere di trovar nella sua opera ciò che egli non solo non ci volle mettere, ma che non ci doveva essere ? Io ho pensato spesso che, se il De Sanctis rivivesse ora, e avesse il tempo e la voglia di leggere le tante monografie pubblicate sugli scrit- tori italiani , solo per parte piccola e secondaria dovrebbe ricorreggere la sua opera ; e piuttosto dovrebbe qua e là completarla con la trattazione, da lui non fatta , o troppo -sommariamente fatta, di taluni argomenti che rientrano in quel quadro. Ma questa non è già una mia fantastica con- gettura : perchè ognuno può verificai'e, esaminando la co- piosa letteratura monografica moderna, se e in (juanta parte questa abbia sostanzialmente modificato l'opera del De San- ctis, e vedrà che le correzioni son poche, e che, se finora si son fatte molte cose assai importanti che il De Sanctis non fece, ciò eh' egli propriamente fece non è stato ancora rifatto meglio ; e i grandi scrittori italiani ci restano scol- piti nell'anima^ nei loro tratti essenziali, nel modo che ce li presentò il genialissimo storico (1). — La sua opera offre di- singanni solo a chi vada a cercarvi il manuale^ il reper- torio storico, e simili compilazioni bene informate nei mi- nimi particolari e con relativa bibliografia. Ma costui re- sterebbe egualmente disingannato se prendesse tra mano , con lo stesso scopo , la Storia Romana del Mommsen , o qualunque altro capolavoro di storia generale ! Posto ciò , non sarà necessario ricorrere ad esempii p iù vecchi , perchè nelle critiche stesse che abbiamo innanzi , troveremo gli esempii del pregiudizio erudito che ho ana- lizzato. Ecco qui r egregio Bertana . il quale osserva che « gli errori di fatto » — nel volume delle Lezioni del De Sanctis da me pubblicato — « non sono in verità moltis- simi : e si capisce ; che dì fatti il De Sanctis fu sempre scarso espositore » (p. 498). E, di grazia, se il De Sanctis, facendo lo storico, non esponeva fatti, che cosa esponeva? Fantasie V sogni ? pretese rivelazioni e ispirazioni divine ? si vuol dire eh' esponeva idee ? e le idee , quando se ne (1) * Si veda invece come è già invecchiata, nel disegno e nei particolari, un' opera assai più recente, la Storia letteraria del Bar- foli ! - 317 — fa la storia , non sono anche esse dei fatti , ossia dei fatti intellettuali ì si vuol riconoscere carattere di fatto solo ai piccoli fatti e ai fatti esteriori, e ai dati che si attingono immediatamente da documenti d' archivio , da bolle e da diplomi, da carte notarili e sentenze giudiziarie? In realta, il Bertana, con la sua ossei-A-azione, ch'egli presenta come un assioma comunemente ammesso , viene proprio a ma- nifestare quella che io ho chiamato la diffidenza dell' eru- dito verso i fatti generali, che non gli sembrano più fatti: tanto che , chi fa la storia di essi , è scarso espositore di fatti \ Dice ancora il Bertana che : « a scrittori di seconda, di terza o d' infima grandezza è assai difiìcile ben applicare quella critica estetica , di cui generalmente al De Sanctis si accorda il principato » (p. 493) ; il che il De LoUis ri- pete, rintbrzando : « Al metodo critico del De Sanctis manca ogni presa quando esso non si eserciti sul capolavoro ; e quindi alla produzione letteraria inferiore, la quale interessa soltanto e principalmente per poter stabilire una vera e propria continuità nella storia del pensiero, un solo metodo di critica è applicabile: quello della critica storica — si definisca pure con una punta d'ironia materialismo storico, — il cui carattere scientifico è provato appunto dalla sua adat- tabilità a problemi e fenomeni, grandi e piccoli, della storia letteraria ». Ora , perche la critica estetica o il giudìzio estetico , — eh' è il giudizio del valore delle opere letterarie, — non può applicarsi egualmente alla opere altissime ed alle infime? Si tratta forse , in letteratura , di organismi di cui alcuni sieno visibili ad occhio nudo, e per altri occorrano istrumenti speciali come il microscopio? Sarebbe curioso che per giu- dicare bjutia un'opera brutta ci volesse un istrumento spe- ciale: e non bastasse — satis superque! — quello stesso che adopriamo « giudicar bellissima un'altra bellissima! — Che poi il metodo storico — quando, beninteso, si faccia la sto» ria — sia applicabile cosi alle opere grandi come alle in- fime , è precisamente la mia opinione ; ma soltanto credo che bisogni avere un'idea un po' esatta di quel che sia un metodo (e riscontrare perciò i trattati di Logica, la quale e anch' essa una scienza e non s' improvvisa) , e non con- londere il tipo col caso particolare, e non chiamare metodo storico solo quello della piccola erudizione (1). E , in t^l (]) Mi bon domandato molte volte : — Perch»- gli eruditi , che m- — 318 — modo, si vedrà, che il De Sanetis applicava sempre il me- todo storico , quando esponeva le opere e ne rifaceva la genesi , e il metodo estetico , quando le giudicava come belle brutte , riuscite o sbagliate, stupende o ridicole. E vorrei poi osservare all'amico De Lollis, che, quando egli, a proposito dell' erudizione, vien fuori col materialismo •storico, fa uso un po' ad orecchio di una parola della quale non gli è chiaro il siiinifleato. Il « materialismo storico » è la filosofia della storia propria del socialismo critico del Marx , ed è apparso finora in una doppia forma : in una forma sistematica ed assoluta, nella quale è una vera e propria metafisica, o costruzione a priori della storia; e in una forma critica, nella quale non e altro che un modo di interpetrazione della storia che si faccia avendo principal riguardo alle cause materiali od economiche della vita delle società. In tutte e due le forme , esso non ha il più lon- tano rapporto con 1' erudizione minuta. Ma non farò grave gliono essere a ragione così feroci in materia di competenza, vio- lano poi continuamente questo santissimo precetto , pronunziando tacili sentenze su questióni metodiche, le quali non fanno parte né della storia né dell' erudizione, ma sono oggetto di scienze speciali, che hanno svolgimenti faticosi di secoli, e nelle quali appunto bi- sogna essere competenti prima di mettervi in bocca? — * Gli è che della cosiddetta filosofìa (ossia di una ragionata orientazione) di rado si può far di meno ; tanto che si « costretti a parlarne e a discu- terne , anche quando la s' ignora ! Non pare del resto , che in altri campi di studio si stia meglio. Leggo nel libro di un dotto ed acuto giurista, il prof Rudolf Spammler, dell' univ. di Halle, queste pa- role — a proposito del bisogno di risolvere il problenaa del metodo e fondamento degli studii di dritto — , le quali rispecchiano esat- tamente le condizioni degli studii storici e letterarii : " Und doch branchi man eine Antwort auf dieses Problem , will man nicht in unsichere Zufalligkeit mit seinor ganzen forschenden Arbeit ver- ainken So ist die haufigste Erscheinung die, dass der einzelne fiir seinen, ich mochte sagen, Hausbedarf sich eine gewisse Grundauf- fassung nebenher zu beschaffen sucht, oline dass man immer b«hau- pten konnte , er habe tief genug gegraben, um ein solide» Funda- ment seines wissenschaftlichen Gebiiudes zu besitzen. Aber die ur- sprixnglich vielleicht nur sehr von ungefahr aufgegriffene oder zu- sammengelesene theoretische Unterlage verhartet sich ihm allge- mach : und in mannigfachen Auslassungen uber wissenschaftliche Aufgaben und Methoden treten Richtungen und Schulen auf, um in parteiischer Zerrissenheit einander zu beklimpfen „ (Wirtschaft und Rechi, Leipzig, 1896, pp. 5-6). Proprio così : gli studiosi specia- listi son costretti a farsi alla meglio, per uso domestico, delle teorie filosofiche provvisorie ed approssimative : col tempo, queste teorie s'irrigidiscono ed esagerano; e da esse nascono disordinate pole- miche e mal fondate divisioni di scuole ! Il fatto sarà, piìi o meno, inevitabile; ma bisogna notarlo, e bisogna tenerne cento. — 319 — colpa al De Lollis , eh' è valente filologo di neolatino , del non conoscere con esattezza le teorie moderne sulla storia ! Che poi il De Sanctis « fosse un po' in difetto di quella sicurezza storica procedente da un'esercitata e matura co- i^nizione dei fatti e dei documenti storici tecnici ed artistici, onde bisogna dominare la serie dei fenomeni e lo svolgi- mento delle forme, chi voglia discorrere di una letteratura non per trastullo accademico » — come appunto aflFerma il <}arducci ( art. cit. , p. 217 ), — è una vecchia canzone, che dovrebbe aver fatto il suo tempo, e che non meritava dav- vero l'onore di essere ricantata da un Giosuè Carducci! Che il De Sanctis abbia errato in questo o quel caso, può. ben darei: nessuno è infallibile!, benché vedremo fra breve a che si riducano certi suoi pretesi errori di fatto e di giu- dizio. Ma eh' egli, in ciò che faceva, mancasse di un saldo fondamento, io nego assolutamente. Era forse un fatuo, tanto da parlare tutta la sua vita di ciò che non sapesse, senza accorgersi di non saperlo; o un ciarlatano da parlar di cose di cui non si sentisse sicuro per pieno possesso intellettuale, tanto per brillare o far colpo sulla gente? — In questo suo frettoloso giudizio, il Carducci ha anch' egli inchinato, forse inconsciamente, verso le vedute di quei piccoli eruditi, che, pochi giorni prima, bollava col nome di cornacchie della ei'vAizione ! Quanto a me, cornacchie od aquile, vorrei che si rendesse giustizia a tutti , collocando ciascuno di questi animali nella propria classe, e riconoscendo l' utilità di cia- scuno, ed evitando perfino le questioni spagnolesche di pre- cedenza ! (1). E passiamo al pregiudìzio letterario , il quale consiste nello sconoscimento del legame che congiunge la letteratura alla vita , e della natura propria di quel legame. Non già che non si riconosca a parole , e con molte parole , che la letteratura trova la sua spiegazione nella vita ; ma, nel fatto poi, la tendenza dei letterati (anche perchè di solito della vita non hanno molta esperienza) è, o nel far servire la vita di semplice decorazione nella storia letteraria o nel sim- patizzare con tutti i tentativi pei quali la letteratura venga ad essere spiegata con la letteratura stessa. Che la lette- ratura abbia fondamento nei bisogni della vita ; che questi (1) Ho toccato qui brevemente di questi rapporti dell'erudizione con la storia generale e con la critica estetica , avendone discorso a lungo nel mio volumetto: La Critica letteraria, 2» ediz., Roma, Loesrher, 1896: al quale rimando il lettore. — 320 — bisogni facciano la sua serietà; che, mutando questi bisogni, debba mutar la letteratura, e se non muti, diventi retto- rica ed accademia; che potrebbe finanche supporsi una for- ma elevatissima di civiltà umana nella quale la poesia, o qualcun' altra delle arti principali, venisse legittimamente a mancare perchè non rispondente più a nessun bisogno: que- ste e simili proposizioni , anche quando siano accolte con favore e ripetute a memoria , non sono sentite in tutta la loro grave e pregnante verità. E il letterato torna volen- tieri a far la storia indipendente di ciò che , per sua na- tura, si definisce come dipendente. Vedete come i puri letterati si sono gettati avidamente sulla cosiddetta critica o incerca delle fonti e delle influenze, che è uno dei più sottili e complicati problemi della sto- riografia, e come essi 1' hanno ridotta , molto spesso , a un giochetto infantile. Le opere — si dice — influiscono 1' una sull'altra, le letterature 1' una sull'altra; si recano lunghe serie di fatti e di ravvicinamenti; e qui è tutto! Ma il difti- cile non è già nel constatare tali contatti, rapporti, influen- ze e derivazioni ; sibbene nell' intendere le condizioni nelle quali questi fatti avvengono, e per le quali riescono più e meno efiìcaci. Il medioevo conobbe in gran copia gii scrittori latini : perchè questi non produssero alcuni secoli prima il rinascimento della civiltà? La tradizione del diritto romano non si spense mai del tutto attraverso i secoli oscuri ; or perchè così tardi i popoli se ne servirono come arma ad abbattere la costituzione feudale ? E , con queste posizioni dei problemi, si ritorna alla vita, e alle sue cause e ai suoi bisogni. I puri letterati ci vorrebbero costringere a contem- plare un giuoco d'influenze che si svolga nell'aria, come i combattimenti di esseri sovrumani che negli spazii dei cieli vedeva la mitogena fantasia dei popoli primitivi. Ed ecco che or ora un letterato, pieno d' ingegno (benché spesso d'ingegno alquanto falso) (1), ha tentato di ridurre la dottrina dell' evoluzione ad una vuota concezione lette- raria, eh' egli ha esposto , per altro , con una franchezza e una nettezza, che non possono non riuscir simpatiche. Non bisogna — egli ha scritto — col pretesto che la letteratura è r espressione della società confonder la storia della let- teratura con quella della società: son ben due cose distinte! La storia della letteratura consiste nella storia della evo- (1) Fero. Brunetikre, Manuel de V histoire de la littérature franrai- se, Paris, Delagrave, 1898. — 321 — luzione dei generi letterarii. L'evoluzione ^i impiega princi- palmente con r influenza delle opere sulle opere, e col bi- sogno che sentono gli scrittori di far cosa diversa da quella dei loro predecessori: questa la causa fondamentale e quasi esclusiva, e non occorre moltiplicare inutilmente i modi di spiegazione. Conseguente a tal principio, il Brunetière scac- cia dalla storia della letteratura francese tutte quelle opere che, anche per circostanze accidentali, non abbiano eserci- tata ai loro tempi un' influenza letteraria , come le lettere della Sevigné, inedite fino al 1734, e le memorie del Saint- Simon, pubblicale solo nel 1824. Per questa via, ai generi letterarn — che poi sono soltanto aggruppamenti approssi- mativi, e quasi ripieghi verbali, — non resta altro che ac- cordare le differenze sessuali, e far, ad esempio, maschio il romanzo e femmina la commedia, e figlia di tale accoppia- mento la commedia romanzesca (1), e ridurre così la storia della letteratura alla storia di una famiglia , gettata su di un' isola deserta, ubbidiente al precetto del crescere e mol- tiplicare ! Il Bertana non parteciperà certo di queste esagerazioni, cha paion quasi delle bizzarrie; ma, tuttavia, egli si mostra malcontento del troppo largo elemento politico introdotto dai De Sanctis nelle sue lezioni sulla letteratura italiana nel secolo XIX. «L'arte — egli scrive — , grazie a Dio, per quanto serva a questo od a quel fine sociale e politico, resta arte, né il suo primo e più saliente carattere è mai il colore delle opinioni ch'essa può rispecchiare: sicché la lettera- tura, per quanto strettamente collegata con la storia civile, ha e deve avere una storia a sé » (p. 494). Ma, a dir vero, la storia di un fatto non può esser mai storia a sé, perchè storta è di necessità legami e relazioni ed influenze attive e passive con altri fatti. E possibile, senza dubbio, di trattare, in un libro, il lato letterario della vita di un popolo di un' epoca , come un fatto che si assuma ad oggetto principale di considerazione. Ma in tal caso si deve operare come quando si sradica una pianta dal suo terreno, occorrendo fare attenzione ad estrarla con tutte le radici e i filamenti che ha profondati in quel terreno , e (1) O, prescindendosi dalle differenze sessuali, bisogna definire l'evoluzione sognata dal Brunetière un», pnrthenoi/eneiti, come argu- tamente ha fatto il sig. Th. Neal, in un ottimo articolo pubblicato in un giornale letterario {Il Maizoeeo, di Firenze, a. Il, n. 2, 15 feb- braio 1898). l'È Sakctis — Manzoni e seritti varii — Voi. II. 21 — 322 — tener ben presente che fuori di ogni terreno non potrebbe aver vita, e, trapiantata in altro terreno dissimile, l'avrebbe più meno prospera, o addirittura intristirebbe. La storia di una letteratura — come , del resto , qualunque pezzo di storia che si prenda isolato, — è sempre una specie di astra- zione, che diventa falsità ed assurdità subito che si perda la coscienza che noi abbiamo innanzi un frammento tagliato per comodo di subiettiva contemplazione, e non già un or- ganismo in sé compiuto e per sé vivente. E quando lo storico si avvicina alla folla delle opere let- terarie di una data epoca, per trattarne da un punto di vi- sta generale o sintetico , egli non è già libero di scegliere un qualunque aggruppamento o ripartizione delle opere let- terarie; ma il suo primo compito sta nel rispondere alla domanda : — Essendo la letteratura espressione e funzione della vita e della società, che cosa queste opere rappresen- tano rispetto alla vita e alla società? — Ora la vita e la so- cietà possono presentare in un dato tempo una concordia dominante di sentimenti e di opinioni , ma possono anche presentare due o più grandi correnti diverse, o una corrente principale ed altre secondarie; ed è naturale che le prime distinzioni ed aggruppamenti in quella folla di opere lette- rarie si debbano fare da questo punto di vista, eh' è il punto di vista storico o generale. Può anche darsi il caso che per circostanze speciali la letteratura sia come staccata dalla vita e dalla società (cosi nei periodi di decadenza totale o parziale) ; ed allora il fatto stesso di questa separazione ed inditferenza deve essere fortemente marcato, come di somma importanza storica. Certo, le opere, olti'e le distinzioni dei loro significati, presentano altre diiFerenze, puramente let- terarie ; ma queste o sono conseguenze delle prime, o sono fenomeni secondarli, che danno luogo a successive suddivi- sioni e determinazioni. Cosi per 1' appunto procedeva , con animo di storico, il De Sanctis, il quale abÌDandonò le pe- dantesche divisioni dei generi letterarii e simiglianti — come se i veri poeti scrivessero per coltivare il romanzo o la tragedia o la satira , o simili astrazioni dei trattatisti , e non già per esprimere i loro pensieri , le loro fantasie , i loro sentimenti! — , e mirò alla sostanza e al significato delle opere e delle forme letterarie. Che se poi l'egregio Bertana fa una questione non di princi- pii, ma di proporzioni, sembrandogli troppo copiose ed estese le spiegazioni politiche date dal De Sanctis ed inopportune le discussioni con le quali giudica, e giustifica o condanna — 323 — i programmi dei varii partiti politici , — io lo pregherò di voltare qualche altra pagina e vedrà che discorro anche di questa sua osservazione, eh" è perù estranea alla discussione di metodo. Il terzo dei tre pregiudizii da me indicati a principio, e che ho chiamato estetico, ci rimanda alla vessata questione del contenuto e della forma, e ^eW estetica dell' espressione che per me è la sola vera, e di quella razionalistica o mo- ralistica o in altro modo diversa dalla prima. Ma sarò bre- vissimo , e perchè di questa materia in ispecie ho già di- scorso piuttosto a lungo altrove (1), e perchè, se avrò vita e forze , spero di poterla svolgere in uno speciale trattato con copia di analisi, di distinzioni e di esemplificazioni. Anzi, qui mi limiterò a fare solo alcune osservazioni a poche ri- ghe del Bertana, che son queste : « La maggiore e permanente contradizione del De San- ctis sta neli* aver posto questo principio: — Per me in arte tutto si riduce a questione di esecuzione — (principio, che, sostituito al tutto un quasi tutto, diventa inoppugnabile) e non averlo poi costantemente applicato. Anzi nella dottrina del contenuto inditferente il De Sanctis si spinge tanto ol- tre da aflfermare che: — un contenuto sia serio o no, mo- rale o immorale, non ha nulla a far con l'arte, la quale è superiore a tutto questo, come produzione della fantasia. — Ma dica ehi lo sa come con tale dottrina possa conciliarsi il rimprovero, che il De Sanctis rivolge alla scuola manzo- niana, d'aver predicato la ra.ssegnazione, il perdono, l' umiltà, contribuendo a rinforzare i forti e ad indebolire i deboli, onde concluse: —Qui è la parte debole delle loro opere. — E critica estetica questa? o non è piuttosto la vecchia cri- tica fondata su preconcetti politici e religiosi , della quale il De Sanctis , affermano gli ammiratori suoi , ci avrebbe ''*'ìati? E non è questo lo stesso giudizio, appassionato e rficiale, di coi comunemente si attribuisce la paternità ■ttembrini. mentre si dovrebbe meglio attribuirla al Cen- iti?» (pp. 501-2). ire osservazioni: ^n\ principio del De Sanctis, sulle co/»- seyuenze del principio, e su una delle applicazioni di esso, cui accenna il Bertana. — In quanto al primo punto, mi Il V oji Cn.M' r., il concetto dtlla Storia nelle sue relazioni col con- cetto dell'Arie, 2* ediz. , Roma, Loesclier , 1896; e la Critica lettera' ria, cit. - 324 — permetta il Bertana (tanto per rallegrare un po' quest'arida discussione!) di citargli alcuni versi, assai popolari qui a Napoli, di un magistrato e poeta moralista sulla Trinità: La Trinità significa Un Dio in tre persone, Di una intenzione, Ma di diversa età! L' ingenuo poeta trovava il modo , con la sua piccola ag- giunta, di rovinare l'intero domma della Trinità! 0\*x\ ahf^it injuria verbo, perchè io non intendo certo paragonare uno studioso quale il Bertana col poeta Ingarrica ; ma gli è vero che il Bertana viene a far proprio lo stesso , quando pro- pone di sostituire, nel principio dell'estetica del De San- ctis , al « tutto » un « quasi tutto ». Ah , quel quasi! Mi fa venire in mente anche un altro aneddoto, raccontato da Carlo Marx , di quella giovinetta che , messa alle strette , confessava di aver avuto un bambino, mais si petit! Quel quasi, cosi piccolino , che parrebbe poter passare come di soppiatto ed inosservato, scava un abisso tra il principio del De Sanctis e l'altro formulato dal Bertana. Allorché fac- ciamo la ricerca del principio dei fatti estetici, noi non ci troviamo più nel campo della descrizione storica, eh' è il campo proprio delle sfumature, delle mezze tinte, dei poco, dei troppo e dei quasi, ma nel campo dell' analisi astratta, dove occorre nettezza e rigidezza di concetti. Noi procediamo allora come il fisico o il chimico che scompone ed analizza, il quale non ha più innanzi né fiumi né montagne né albe rosate né purpurei tramonti, ma elementi ch'egli raggiunge con lunga serie di esperimenti e che pone come irriduci- bili. Nel caso nostro, si tratta di vedere se il fatto estetico sia caratterizzato da un principio indipendente, o non formi che un'appendice e un'applicazione particolare di altre fun- zioni dello spirito e debba perciò ridursi alla logica o alla morale, e così via. Il principio della espressione o della farina dà al mondo estetico la sua autonomia : si può accettarlo, o respingerlo ; ma non già fermarsi al mezzo termine. Il mezzo termine é l'assurdo; è lo sconoscimento del problema; è la contradizione logica elevata a principio: assurdo, sconosci- mento, contradizione, in cui urtano facilmente i concilia- tori; i quali, accettata come principio estetico la forma, vo- gliono poi che sia estetico in certo modo anche ciò che si è distinto ed opposto alla forma — e che non ha senso se non in questa opposizione! — , ossia il contenuto. Se la sbrighino — 325 — ^oii la logica : Cosi proprio il prof. Zumbini esordi immagi- nando un contenuto estetico; e il De Sanctis disdegnò finan- che la polemica su questo punto , contentandosi di riman- darlo, in una nota, a studiar bene « la teoria che ha per fondamento T indipeìidenza dell' arie » ; il che non credo ch'egli abbia mai più fatto (l). Ma mettiamo da banda il principio, tanto più che io mi vado persuadendo che, se tale discussione è importantissima pel teorico e pel filosofo , V importanza sua è assai minore pel critico e per lo storico, i quali alla deficienza dei loro principii possono ben supplire (salvo rari casi) con la giu- stezza del sentimento e V intuizione del buon senso. Se non che, il Bertana s' inganna assai quando crede che il De San- ctis, dal suo principio, deducesse quest'altra regola: — che delle opere d'arte non bisogni giudicare il contenuto. — Certo, in quanto opere d'arte, in quanto formazioni della fantasia, no: occorre restringersi a ciò che fa dell'opera un'opera d'arte: ossia alla /orma (nel senso integrale dato dal De Sanctis a questa parola, e non nel senso parziale e superficiale dei pedanti ). II De Sanctis , per esempio , in funzione di critico d'arte, e sotto il rispetto dell'arte, rim- provera al Cantu soltanto di non avere avuta tanta dose d'ingegno da far delle sue qualsiasi idee un romanzo, una novella, una storia, un pamphlet (ah, Courier!), che fosse arte. Ma l'opera d'arte e anche manifestazione di tendenze, ed ha etfìcacia non solo estetica , ma sociale e morale e politica : come volete che il critico e lo storico ( che non sieno dimidiati viri, ma uomini completi) si astengano dal guardare e giudicare questi lati non estetici, ma pure ef- fettivi, del libro o del quadro? Era forse il De Sanctis un sibaritico goditore di rafiìnamenti e di fantasie estetiche? o aveva fatto, sull'altare dell'Arte, il sacrificio che Attis fece nel sacro bosco di Cibele , quando devolsit iota acuto sibi pondera silicei Ma non mi par diflìcile d'intendere che, quando il De Sanctis giudica dell'eflìeacia politica di un'o- pera, (}uesto giudizio e dato da lui in sede separata, per nsarc il linguaggio dei forensi. Riconosciuto cosi che il De Sanctis, senza contraddire al .suo principio estetico, aveva bene il diritto, anzi il dovere,
  • u I r > U raggiungere i suoi scopi principalmente con la ■I-suasione morale e V educazione popolare, e a grado a gi-ado; l'altra, della parte democratica, che proclamava con- sfster l'educazione nell'azione, e dava il grido della solleva- zione e del combattimento. Collocatosi a questo punto di vista, del quale non si può sconoscere la giustezza , il lie Sanctis , .v,.<, ,i., ..r,Q studio fatto per — 334 — mia istruzione della sua polemica contro l' Internazionale dei lavoratori, nella quale si mostra assolutamente privo di concetti economici, che sostituisce con vaghe frasi; il che per la coltura di uomo politico vuol dir molto ! E come non era un forte economista, così non era un forte giurista, né un forte letterato, né un forte sociologo, nò specialista in nessuna cosa. Era una di quelle personalità che , per ap- prezzarle, bisogna guardare nel loro complesso , e nel loro significato storico, come appunto fece il De Sanctis (1). — Del resto , degli amynirativi del Bertana su questo punto è fatta giustizia, mi sembra, nello stesso Giornale storico, dove, nel fascicolo seguente (XXX, 337), nella recensione (anonima, ma che credo sia del mio ottimo Renier) di un recente lavoro sulle idee letterarie del Mazzini, trovo notato che: «nonostante i difetti inerenti all'opera del De Sanctis, le tre lezioni di lui sul Mazzini son oggi quanto di me- glio si é scritto suir argomento. Il Mazzini vi è ridotto alla giusta misura : si riconoscono i suoi m.eriti di patì'iota e di agitatore, si critica fieramente il suo sistema religioso, la sua filosofia, il suo criterio letterario, la peculiarità di parecchi suoi giudizii » (2). Di una severità quasi oltraggiosa sembrano al Bertana i giudizii del De Sanctis sul Grossi e sul buon Carcano. Ma lasciamo stare V oltraggio, che io non so davvero vedervi, e la bontà del Carcano, che il De Sanctis non ha mai ne- gato anche perchè forse non ne sapeva niente : la stessa formola « che il Grossi sia una caricatura del Manzoni e il Carcano una caricatura del Grossi » pare al D' Ancona un po' aspra, « ma ha del vero — questi soggiunge ; — e la cri- tica dell'uno e dell'altro è ormai sotto specie men rigida e assoluta nella coscienza generale » (3). Ma il Bertana at- (1) " E quando si farà qualche passo nella via della libertà e della eguaglianza, qualche progresso nella via dell'emancipazione religiosa, qualche cammino nella via dell'educazione nazionale, certo, voi, nella vostra giustizia, guarderete lì in fondo e vedrete l'uomo che aveva levato quella bandiera; lo ricorderete con rispetto e direte; ecco il precursore. Questo è il vero carattere, questa è la vera impor- tanza e la vera gloria di Mazzini „. Così il De Sanctis, nella con- clusione delle lezioni consacrate al Mazzini, op. cit., p. 441. (2) Nello stesso senso il d/ Gentile, in Bass. bihliogr., V, 105-106. II D'Ancona poi (recens. cit, p. 78): " Il giudizio è rigido, ma imparziale „. (8) Non voglio negare neanch'io il rigore e la severità del De San- ctis nel giudizio degli scrittori mediocri. Il De Sanctis stesso ha con- fessato una volta: " Non ho potuto smettere l'abito di guardare, an- che nei lavori infimi, alla perfezione „. Ma, in arte come in morale, meglio il rigorismo che il lassismo] — 335 — teca la sostanza stessa dal giudizio: — Al Manzoni — egli dice — « il Grossi somiglia così poco e cosi poco si curò di somigliare v. Egli, benché, vivendo in intimità col Manzoni, ne risentisse qualche influsso , pure « non volle mai r4cai- carne deliberatamente l'opera e riusci scrittore originale fin dove {li mediocri è concesso. Il suo romanzo, se somiglia a quel del Manzoni nel genere, nella specie è tutt' altra cosa. Come sostener questa tesi (del De Sanctis) che la differen- za tra i « Promessi sposi -» e il ^ Marco Visconti » é solo nella catastrofe ? » — Ma io che, avendo riletto anni sono il romanzo del Grossi , delizia della mia fanciullezza , ne avevo conservato appunto l' impressione di una serie d' in- genui calchi dal capolavoro manzoniano, l'ho scorso ora di nuovo, e mi son dovuto convincere, anche qui, della mira- bile esattezza del giudizio del De Sanctis , e del torto pie- nissimo del Bertana. Sissignore : l' intrigo del Marco Vi- sconti è quello di due promessi sposi , le cui nozze sono impedite daW amore di un potente, e poi da un ì-apimento: i caratteri sono foggiati o fondendo in uno o dividendo in due e in tre i personaggi manzoniani : l' Innominato , Don Rodrigo e i bravi dan luogo a Marco, a Lodrisio , al Pe- lagrua ; Bice è una Lucia medievale e signorile : Ottorino ha del Renzo , e un altro po' dello stesso personaggio si trova in Lupo da Limonta; il Conte Oldrado del Balzo è Don Abbondio e Don Ferrante, fusi insieme; ed Ermelin- «ia — parrebbe impossibile ! — ha del Padre Cristofaro ; e via via fino alle minime figurine come quella di Bernardo, fratello di Lupo , che ha qualche tratto del sarto manzo- niano (cfr. cap. XIII in fine). Non meno dall' intrigo e dei (Caratteri sono echi dei Promessi sposi le singole scene : a cominciare dal tumulto contro il Pelagrua (cap. II), eh' è il tumulto contro il Vicario di piovisione , e a passare al ricovero trovato dai Limontini nel castello dei Del Balzo ( cap. XX S'gg. ) , eh' è il ricovero dei paesani nel castello dell' Innominato ; al Pelagrua , che torna rel/us infectis a Lodrisio , ed è accolto da rimproveri (cap. XXI), che è il Griso che torna a Don Rodrigo; alle ragioni che muovono a far stringere le nozze di Bice ed Ottorino (cap. XXII), simili in parte a quelle che muovono a tentare il colpo in casa di Don Abbondio; alla visita di Lodrisio e del Pela- grua a Bice prigioniera (cap. XXVII). eh' è in parte quella dell'Innominato a Lucia; all'incontro di Lupo con gli sche- rani di Lodri-sio (cap. XXVII), ch'e quello di Renzo nel- ro.«?t'>ria del suo paese coi bravi di Don Rodrigo e nell' o- - 336 - steria di Milano coi birri; al sogno di Lupo (cap. XXVIIl). eli' è il .sogno (li Don Rodrigo; all'andata di Lupo a Lucca, eh' è quella di Renzo a Milano, e Marco Visconti ha qui un po' le funzioni di Antonio Ferrer; e, in fine, alle sceni ultime di Marco ed Ermelinda, Marco e Bice, Bice ed Ot- torino, che son tutte mal digerite reminiscenze delle, sceni analoghe dell'Innominato con Lucia e di Padre Cristofarc con Renzo. E si andrebbe per le lunghe a voler indicare le imitazioni nei minimi movimenti e particolari del rac- conto: la descrizione iniziale di Limonta (cap. I) e quella del ramo del Jago di Como; le citazioni dei canoni che proibivano ai preti di fare i giullari (cap. IV) e le citazioni delle gride a proposito dei bravi ; Marta che lascia il ca- stello dei Del Balzo, (Cap. XXII) e Agnese che si accomiata dall'Innominato; il Tremacoldo che va alla scoperta degli sposi trafugati (cap. XXV) e i bravi di Don Rodrigo a Monza: finanche il barcaiuolo Michele, che sorregge il corpo del figlio annegato, copia un movimento della madre di Ce- cilia! Posso assicurare il Bertana che io ho semplicemente libato l'argomento. A voler applicare un'analisi minuziosa non si troverebbe quasi nulla che non sia imitazione , di- retta indiretta, del Manzoni. Altro che somiglianza nel genere e dissimiglianza nella specie! Qui si tratta di somi- glianza d'individui! Che cosa resta di nuovo nel Marco Visconùl La catastrofe, — come dice bene il De Sanctis ; — e quella catastrofe (morte di Bice, morte di Marco) è priva affatto d' ogni significato ed interesse ! — Né trovo argo- mento di scandalo nelle parole del De Sanctis : che chi legge ]o opere del Grossi non sospetterebbe quasi che l'au- tore vivesse nei tempi della fremente servitù d'Italia: anzi mi paiono verissime: le opero del Grossi furono il princi- pio di un'Arcadia romantica: ci vuole troppo buona volontà a riconoscere, come fa il Bertana, un segno elegiaco (ielle condizioni d'Italia in quel suo sentimentalismo piagnoloso e femmineo. Nel giudizio severissimo del De Sanctis sul Cantù con- viene pienamente il D'Ancona; ma il reazionario con pa- tina liberale, arruffatore di storie partigiane, « inesatto per fretta o per malizia nei particolari, esempio cospicuo e for- tunato di letteratura industriale » (recens. cit, pp. 76-7) , trova inattesi difensori nel De Lollis, che, dopo la critica che a lui pare esagerata dal De Sanctis, risente « una rea- zione in favore del povero Cantù », e nel Bertana. Quest'nl- timo vorrebbe veder ricordate con elogio alcune pubblicai — 3:^7 — zioni posteriori del Cantò, come il libi-o su L' ahate Parini. Ma non sarà quel libro che toglierà di dosso al Cantù il giusto giudizio che si è meritato pel complesso della sua at- tività di pubblicista. Nessuno nega che possa aver fatto , qualche volta , un libro con po' di diligenza , e non inutile per la conoscenza di un limitato periodo storico. Il Bertana reputa poco serio il ravvicinamento delle idee politiclie del Rosmini e del Gioberti a quelle del Campa- nella. Ma bisogna esser giusti : quel ravvicinamento era se- rio ed esatto quando il De Sanetis faceva le sue lezioni ; quando cioè non si erano ancora compiuti gli studii che ci hanno mostrato poi il Campanella possessore di una dop- pia dottrina : una palese, che era quella cui alludeva il De Sanetis (e che tutti i moltissimi, che hanno scritto sul Cam- panella fin circa al 1880, credevano fosse la sola e la vera), e r altra riposta , che passava per una bizzarria letteraria (la repubblica filosofica comunistica, la Cìtià del Sole), che ora è provato essere il vero fondo del suo pensiero. Ma neanche ora — bisogna notarlo — mancano in questo punto, fra gì' interpetri, i contradittori, benché, a mio parere, senza sufficienti ragioni. — A chi poi stimasse troppo scarsa la parte consaci'ata al Rosmini e al Gioberti, faccio notare che il De Sanetis non scriveva una storia della filosofia (dove il primo , in ispecie , merita un posto notevolissimo) , ma schizzava la storia della letteratura in quanto espressione della vita italiana del secolo decimonono; e, in tal conce- zione , la filosofia deve entrare solo in quanto esprime la vita od opera su di essa, non già nella sua parte più pro- priamente tecnica. Quale contradizione scopre il Bertana nella definizione del Balbo come ingegno storico, politico, positivo, e nel temiK) stesso dottrinario ? Crede egli foi-se che il dottrinarismo non possa andai'e unito con le prime qualità? In tal caso, di- mentica che la parola sorse in Francia appunto per indi- care uomini come il Guizot, ingegno politico, storico di gran forza, e nel tempo stesso, il dortrinaire per eccellenza! — Quale contradizione c'è nel diro, che il D'Azeglio era, come uomo, un temperamento d'artista e che pure ha fatto me- diocri opere d'arte? Dante, vicevei-sa , non era punto un semplice temperamento d'artista, anzi di appassionato uomo di parte, di filosofo austero, di veggente; ed ha fatto un capolavoro d'arte! In quanto al gruppo delle lezioni sul Berchet, il Bertana dice degne del De Sanetis parecchie di quelle pagine : ai De SAifcns — Manzoni e «eritti carii — Voi II. 22 — 338 — D' Ancona pare che il Berchet sia troppo esaltato, forse per le reminiscenze giovanili del critico e perchè il cuore prese il disopra sull'intelletto: il De Lollis, finalmente, trova con- tradizioni tra le lodi date al Berchet e l'affermazione ch'egli sia r artista du qiiart d' lieure. Non voglio entrare nel de- terminare a qual punto delle lodi cominci l'esaltazione; ma, veramente, piuttosto che nelle memorie giovanili e nel pa- triottismo , mi pare che le ragioni della grande simpatia del De Sanetis pel Berchet sieno da cercare nella sincerità e neir intimità di questo , doti che il De Sanetis stimava come primarie nell' uomo e nello scrittore , e che lo indu- cono a passar sopra a qualche sciatteria di forma. Venendo all' osservazione del De Lollis, il De Sanetis dice semplice- mente questo: che il Berchet non fu una di quelle ricche nature di artisti, che d'ogni esperienza della vita fanno una poesia, ma di quelle più povere , che danno frutti solo in certe condizioni favorevoli. « C era dentro Berchet qualche cosa che non poteva venir fuori durante la vita ordinaria, e usci tutto intero in certi momenti straordinarii. E, pas- sati questi , se picchiate sulla sua fronte , non sentite più niente: al disotto c'è il vuoto ». — Bravo chi capisce! — esclama il De Lollis. Mi par che siamo tutti bravi, amico De Lollis! Mi sbrigo più rapidamente, e per accenno, delle altre os- servazioni. Anche sembra troppo severo al Bertana il giu- dizio sul Tommaseo scrittore; ma io per mio conto l'accetto, pur convenendo col D'Ancona che in uno studio più minuto si sarebbe dovuto far menzione di altri scritti del Tomma- seo , ed anche delle sue poesie. — Contradittoria T osserva- zione del De Sanetis sulla deficienza di figure femminili vere e realistiche nella poesia italiana con le ultime pagine del saggio su Francesca da Rimini: ma quelle pagine ( le ri- legga il Bertana) dicono proprio lo stesso, giacché la figura di Francesca vi è presentata come solitaria eccezione. — Contradittorio anche il giudizio sul Bini , dove si legge , senza dubbio, una parola impropria, eh' è mia colpa di non aver fatto sparire , sulle bozze , ma non vi è contradizione o€ta d'occasione, che anche la poe- sia di occasione puh esser vera poesia: quasi che il De Sanctis ado- prasse la sua e.> stata tolta nella ristampa che il Caedicci ha fatto del suo studio, voi. cit , p, 142. — 346 — in modo così organico, le relazioni della letteratura, della scienza e della scuola con la vita; come attesta tutta la sua opera di pi'ofessore, di scrittore e di uomo politico. Egli era un educatore , che « consacrò la parte migliore della sua esistenza a cancellare dalla vita nuova quei due tipi della de- cadenza, come egli diceva, l'uomo del Guicciardini e Tuomo dell' Accademia, che a noi vengono purtroppo da lunga con- suetudine servile » (1). E forse nella sua concezione dell'in- segnamento universitario potrà piuttosto trovarsi un eccesso nella parte ch'egli vi faceva all'educazione morale: nel che è anche la spiegazione delle lunghe digressioni e dispute di teorie sociali e politiche, che son sembrate al Bertana inopportune nelle lezioni sulla Letteratura italiana del se- colo XIX. Ma è un eccesso che non può non sembrare am- mirevole, specie se si riporti lo sguardo se una pianta che ora fiorisce di professori nniversitarii (non alludo, beninteso, al Carducci, eh' è sans reproche), i quali badano a percor- rere per loro conto la carriera degli onori^ o a coltivare il piccolo orticello della loro vanità letteraria (2). Ma al Carducci il De Sanctis sembra un critico, un j9/vj- fessore, un retore crudele pel suo proposito di distinguere nettamente tra opinioni politiche e valor letterario, tra fe- nomeni politici e fenomeni estetici. Sempre in occasione della critica della canzone all' Italia , egli scrive : « Al De San- ctis venne poi il pregiudizio del criticismo , e del positivi- smo, o d'altro qualsiasi ismo, e pensò: — Anch'io da gio- vane ho ammirato con gli altri fino all' incandescenza : ora bisogna dar prova a questa nova gioventù d' un'altra ener- gia raziocinante a freddo: — la critica non ha patriottismo: Hegel o Comte, datemi forza. — » (3). — Per quanto possa sembrar un' idea malinconica quella di sottilizzare su un brano di prosa di Giosuè Carducci, pure io non posso non osservare: 1°) che il De Sanctis professò sempre mai l'odio (1) Cosi il deputato Giustino Fortunato nella commemorazione ch'egli fece del De Sanctis alla Camera: la quale commemorazion© è tra le più belle pagine che si sieno scritte sul De Sanctis educa- tore. Si veggano nel volume In memoria di F. d. S., pp. 105-109. (2) Del volume delle Lezioni ha scritto, con delicato, sentimento il D'Ancona: " In ogni parte di esso si mostra il vivo e puro e co- sciente amore del De Sanctis alla patria e all'arte; e, leggendone le pagine, risorge innanzi agli occhi, non che l'immagine dell'in- segnante eloquente , quella dell'uomo buono ed oneato : del vir /><>- nu8 dicendi peritus „ (recens. cit., p. 80). (3) * Anche questo brano è stato qua o là ritoccato nella ristau))>H citata, pp. 134-6. — 347 — per gli ismi (1) ; 2"^) che il critlcimio non ha che fare con la critica letteraria, essendo semplicemente 1' indirizzo filo- sofico kantiano nel problema della conoscenza , opposto al vecchio dommatismo : 3°) ciie comtiano non si conosce che il De Sanctis fosse mai ; 4'') che Vhegelisìno fu non il pre- giudizio dei suoi tardi anni, ma l'entusiasmo dei suoi anni giovanili ; e il Carducci, die si è dato a raccoglier con tanto amore le memorie della storia del risorgimento , sa bene che di Hegel si nutrì il movimento liberale napoletano. Niente di più curioso del leggere gli articoli nei quali Silvio Spaventa traduceva in terminologia hegeliana i fatti della rivoluzione del 1848; e non certo per trastullo accademico» giacché quelle traduzioni contribuirono ad attirargli la con- danna di morte! — Ma non divaghiamo nei particolari. La questione è : so la critica estetica debba prescindere dalle preoccupazioni politiche e patriottiche. Questo affermava e praticava il De Sanctis : vuol forse il Carducci dimostrar falso tale criterio ? Ma il Carducci non si sofferma in questa dimostrazione; e , come se egli abbia una piaga segreta , si sfoga in la- menti su ciò che si è fatto per uccidere nei cuori dei gio- vani italiani il sentimento patriottico. Io m' inchino rispet- toso innanzi ai suoi lamenti e al suo dolore, che sono ef- fetti di considerazioni di ordine assai elevato ; ma , pure , son costretto a domandar di nuovo: — Che cosa ha da far ciò con la serenità e l' imparzialità che occorre serbare nei gindizii scientifici od estetici ? In un sol caso vi sarebbe un legame logico tra questi lamenti e la critica del De Sanctis : se cioè si potesse pi'o- vare che amor di patria e amor del vero sono due funzioni non interamente conciliabili : onde, quando scoppia il con- (1) '' Un giovanotto venne ieri a me : Professore , voglio un bi- glietto ; desidero sentirvi. E perchè? diss' io. Perchè voglio che mi spieghiate il vfrisnio. f^coonii a soddisfare questo giovanotto.— Ve. riamo, idealismo, realismo, dottrinarismo, spiritualismo, materialis- mo e tutte queste parole che finiscono in Unto , mi sono sovrana- mente antipatiche. Mi sembrano aggettivi peggiorati nel sostantivo: una esagerazione, una caricatura nel loro sostantivo. Vo/lio ti puro e non il purismo, la dottrina e non il dottrinarismo, spirito e non spiritualismo , materia e non materialismo , vero e non verismo Questi nomi non corrispondono alla verità delle cose; la natura è più ampia e non può essere compresa ivi dentro: è il cervello li- mitato dell'uomo che non può abbracciare il tutto, e piglia una parte e quella chiama il tutto , (Conferenza sn Zola e V Aaaommoir)' Vedi ora in questo voi., pp. 81-2. — 348 — ilitto tra di essi, l'uno dei due amori deve opprimere r altro. Può. darsi che nelle teste di molti vi sia l' opinione di questa inconciliabilità ; e in tal caso si spiega perchè ad essi sembri un male cosi grande ed irreparabile che il co- siddetto patriottismo si vada spegnendo nell'animo dei gio- vani , e non dei peggiori tra questi. Ma del fatto, invece, io non mi sconforto; giacché si tratta, a mio credere, solo di una appareuza di morte, che è in realtà una trasforma- ;^ione salutare. Gli è che l'amor di patria è stato, in questi ultimi tempi, predicato ai giovani o da uomini buoni e fan- tastici, facili ad inebbriarsi di parole, o da abili politicanti, che se ne servivano pei loro scopi , o da persone , infine , che erano un po' dell' una e un po' dell'altra pasta. Ora, le cose — diceva Vico — • fuori del loro stato naturale non si adagiano né durano. È venuto il tempo che i migliori dei giovani chiedono un' idea della patria più concreta, più determinata, più realistica, rispetto alle fantasie dei primi, e così fatta che non si presti facilmente ai giuochi dei se- condi. Ma , pel De Sanctis , queir inconciliabilità non esisteva : la sua concezione della vita era semplice ed austera, vera- mente democratica ; 1' amor della patria trovava , per lui , amici e non distruttori nel vero e nella scienza. Ai giovani non inculcava la gloria per la gloria , eh' è la vanità , la guerra per la guerra , eh' è 1' assassinio ; ma il lavoro , la coltura, la dirittura del carattere, che, quando occorrono, sostengono bene le guerre e raggiungono, non cercata, la gloria. Ed anche chi, come me, non pai*tecipi alle idee politiche del De Sanctis, deve riconoscere la saldezza di questo fon- damento, su cui soltanto può elevarsi un programma poli- tico sano, quale che ne sia poi l'indirizzo particolare; e - 3«. I nuovi Idillii, p. 129. ,.^- 11 Darvinismo nellarte, Conferenza - , IV. AppENmcK. Documenti lettebakii - Contbibuti ^^^ BIOOBAFICI E BIBLIOOBAFICI ^^^ Frammenti di Scuola ' ^^.j . La Prigione, versi di un Italiano - t. Saggi di un dramma, il "Torquato Tasso.. • - >^ La Scuola • • _ lytì Discorso pronunziato a Tram " ,^^- Pagine sparse ' ' ' „ . , 10 B. Calvello, p. 205 - 2. Le strenne, p. 20fi - 3. A l- herto Mario, p. 2m7 - 4. Il di là. p. 209. ' Dal - Carteggio „ del De .Sanctis. Quarantasett* lettere. . ^U ; Por la biografia del Ve Sanct.s . . • • • ■ ■ - " 1 Francesco de Sanctis, cenno biografico di Nicola Oaetani-T.n.burini, p. 268 - 2. Commemoraz.on. «jritta da I. Moleschott, p. 287 - 3. R.cord. .nt.m.. (li Gerardo Laurini, p. 291. K. Per la cronologia e la bibliografia delle opere del De ^^^ Sanctis edetU croce. Fbakc ESCO ,.. Sakct.-s >: . «toi .uhm ^ _^^^^ Kf f.NTi , pol«mi<'a ó PQ Sanctis, Francesco de /^732 Scritti varii 1893 PLEASE DO NOT REMOVE SLIPS FROM THIS POCKET UNIVERSITY OF TORONTO LIBRARY